di Laura Brazzo
I passaggi che conducono dal mito alla realtà sono sempre dolorosi, si sa. Il mito, del resto, fa parte dei processi di costruzione delle identità nazionali, entra nella memoria collettiva fino a plasmare quelle identità.
Revisionismi, contro-revisionismi… lo storico rilegge, rivede, ripensa il passato alla luce dei documenti che via via gli archivi gli rendono accessibili.
Il caso di Giovanni Palatucci, a cui da un paio di mesi ormai stiamo assistendo attraverso i giornali, è per certi aspetti un esempio chiaro degli effetti, talvolta destabilizzanti, che la descostruzione del mito produce sulle storie collettive.
Giovanni Palatucci, commissario di Polizia a Fiume dal 1939 al 1944, per più di 50 anni è stato celebrato ovunque come un Giusto, come colui che a Fiume salvò “centinaia e centinaia di ebrei”, “migliaia di ebrei”, “più di cinquemila ebrei”.
In nome di questa straordinaria “impresa” (narrata da molte biografie), nel 1952, in Israele gli fu intitolata una strada di Ramat Gan e una foresta di 75 alberi. Due anni dopo in Italia l’UCII, l’allora Unione della Comunità Israelitiche Italiane, gli conferì la medaglia d’oro alla memoria, perché, si leggeva nella motivazione, “tanto operò in favore di ebrei e di altri perseguitati che venne arrestato dai nazisti nel settembre del 1944 e deportato in Germania. Se al suo nome già nello Stato di Israele sono state dedicate una via e una foresta, gli ebrei d’Italia vogliono anch’essi onorare il ricordo.”
Negli anni successivi, a questi riconoscimenti altri se ne sono aggiunti: il titolo di Giusto fra le Nazioni attribuitogli dallo Yad Vashem di Gerusalemme (1990), la medaglia d’oro al valore civile del Presidente della Repubblica italiana (1995), senza tralasciare il processo di beatificazione avviato dal Vaticano nel 2000. E poi scuole, strade, istituzioni intitolate a suo nome, sparse qua e là per l’Italia (e non solo). Tutto ciò mentre la ricerca storica sulla persecuzione degli ebrei di Fiume prendeva finalmente corpo grazie all’apertura di nuovi archivi. Gli studi, per esempio, di Silva Bon e poi di Federico Falk, sulla consistenza e composizione della comunità ebraica di Fiume, dagli anni della Prima Guerra mondiale fino al 1945, hanno portato ad alcuni primi interrogativi su Palatucci. Ma è la ricostruzione, sempre più dettagliata, del sistema persecutorio degli ebrei di Fiume fra il 1938 e il 1945, che sta travolgendo la figura, anzi il mito, di Giovanni Palatucci. Soprattutto il lavoro di ricerca di Marco Coslovich, dedicato proprio a Palatucci (“Palatucci: una giusta memoria”, 2008), ha messo in luce le lacune, le falle di una vicenda che è stata raccontata finora in termini più epici che storici.
Nel corso dell’ultimo anno e mezzo, grazie al coordinamento del Primo Levi Center di New York, la ricerca storica sugli ebrei di Fiume e Giovanni Palatucci ha portato a nuovi importanti risultati. Le prime notizie sull’esito di questa ricerca sono state rese note da un lungo articolo di Alessandra Farkas sul Corriere della Sera in seguito al quale si è aperto un ampio dibattito su tutta la stampa nazionale. E sui giornali italiani (ma non solo) i titoli da “scoop” non sono mancati: “Lo Schindler italiano non fu un Giusto. Mandò gli ebrei nei lager”, “Palatucci, Giusto non lo fu”, “Lo Schindler italiano non fu un eroe”. Il New York Times l’ha definito “collaborazionista”.
Insomma, uno scalpore misto a sensazionalismo che per certi aspetti rischia di “rinnovare” il mito di Palatucci (in negativo) – anziché ricondurre la sua figura al piano della realtà come è invece nell’intento degli storici.
Anche alla luce di questo “rischio” – e dell’asprezza dei toni che il dibattito ha raggiunto nelle scorse settimane – abbiamo chiesto a Natalia Indrimi, direttrice del Centro Primo Levi di New York e coordinatrice del pool di storici che ha condotto le ricerche su Palatucci, di spiegarci la genesi, i fini e anche il metodo con cui tutto questo lavoro è stato condotto.
Decidiamo di partire dagli obiettivi della ricerca – che è forse il tema che più di tutti gli altri, ora come ora, sembra aver bisogno di un chiarimento.
“Il fine della ricerca era di far luce sulla storia delle persecuzioni antiebraiche a Fiume, come parte del lavoro di divulgazione della storia degli ebrei d’Italia e in particolare di un programma sulla storia del fascismo e delle persecuzioni che col Primo Levi Center portiamo avanti da anni insieme alla New York University, la Columbia University e la City University of New York” ci dice subito la Indrimi.
“La regione di Fiume e in generale il confine nordorientale del resto, sono stati spesso oggetto di interesse da parte degli studiosi che hanno messo a fuoco la tragica distruzione delle comunità ebraiche locali iniziata nel 1938 con un’applicazione estrema delle leggi razziali e terminata con la deportazione, tra l’autunno del 1943 e l’estate del 1944, di un’altissima percentuale dei suoi membri rimasti in città. Di fronte a questi dati emersi dalla documentazione d’archivio, l’onnipresenza di Palatucci nella memoria collettiva e ufficiale è diventata un catalizzatore di domande”.
In che modo?
Innazitutto rispetto ai numeri. Le biografie di Palatucci parlano di migliaia di ebrei salvati, alcuni citano la cifra di 5000. Ora, le ricerche più recenti ci dicono che secondo il censimento del 1938 erano registrati a Fiume attorno ai 1300 ebrei. Sappiamo inoltre che fra il 1938 il 1939 numerosi ebrei fiumani persero la cittadinanza italiana a causa delle leggi razziali (avendo acquisito la cittadinanza dopo il 1919 furono considerati “stranieri”). A quel punto, molte famiglie ebree fiumane, lasciarono la città. E’ vero che “in compenso” entrarono circa un migliaio di profughi; molti di essi non rimasero in Italia, altri furono internati. Comunque l’ingresso di ebrei divenne quasi impossibile dopo la fine del 1942 e Fiume divenne una zona di forti respingimenti.
Secondo lo studio di Silva Bon che cita i dati del censimento della polizia, nel 1943 tra Fiume e Abbazia erano registrati circa 570 ebrei; di questi 412 furono deportati o uccisi. Se queste erano le cifre, chi erano i 5000 ebrei salvati da Palatucci, da dove venivano, dove li ritroviamo dopo la guerra, perché nessuno ha mai testimoniato?
Queste, al fondo, sono state le domande da cui, per certi aspetti, tutto è partito. Diversamente si può dire che volevamo capire come la storia di Palatucci, che ha così tanto spazio nella nostra memoria nazionale, andasse ad inserirsi nel contesto della storia della persecuzione degli ebrei a Fiume che invece è una storia dimenticata. La progressiva smitizzazione della narrativa celebrativa, è stata una conseguenza dei fatti evidenziati dai documenti.
Naturalmente sapevamo che dietro questo lavoro c’era il rischio di scoperchiare un vaso di pandora, e per certo aspetti, così è stato…
Come si è svolta la ricerca, chi sono stati gli storici coinvolti?
Mah, devo dire che è partito tutto piuttosto in sordina, 15-16 mesi fa … Abbiamo invitato Marco Coslovich, che da anni si occupa di Palatucci, a partecipare, insieme all’ex direttore dell’istituto dei Giusti di Yad Vashem, Mordechai Paldiel, ad un incontro su “Heroes, Saints and the Righteous: the Case of Giovanni Palatucci”, alla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University. Da quell’incontro è nata l‘esigenza di ampliare la documentazione presentata da Coslovich, infatti si tratta di una storia che ruota intorno alla questione dei rifugiati e dell’internamento “salvifico” (c’è infatti chi interpreta l’internamento degli ebrei in Italia come una forma di “protezione” offerta agli ebrei dal regime fascista. Questa teoria fa intrinsecamente parte della narrativa palatucciana, come se la salvezza degli ebrei internati nel sud Italia fosse stata la conseguenza di un piano del fascismo e non invece dell’arrivo degli alleati nel settembre del 1943). Abbiamo poi invitato a partecipare a questa ricerca sia Anna Pizzuti, che ha realizzato il database degli ebrei stranieri internati in Italia, sia Rina Brumini di Rijeka.
Dopo i primi risultati ci siamo resi conto che servivano altre competenze, altre “specializzazioni”, così’ abbiamo cominciato a coinvolgere storici e ricercatori di provenienze, formazioni, specializzazioni, anche idee, diverse fra di loro. Questi, a loro volta, hanno portato non solo nuovi documenti ma anche nuove possibili “letture” di quegli stessi documenti. Di questo primo gruppo hanno fatto parte Susan Zuccotti, Carlo Spartaco Capogreco, Liliana Picciotto, Michele Sarfatti, Mauro Canali – il suo è stato un contributo particolarmente importante perché la sua conoscenza del sistema di polizia ha aperto un “mondo” che nessuno degli altri storici avrebbe potuto affrontare…
Poi a questo primo nucleo di studiosi se ne sono aggiunti altri, specialmente come “lettori”: abbiamo chiesto loro dati, pareri, analisi, possibili altri contributi o appunto, letture; e qui i nomi da citare sarebbero tanti – Silva Bon, Alexander Stille, Michael Ebner, Jonathan Dunnage (che ha da poco pubblicato un libro a Oxford sulla polizia ordinaria di Mussolini, dedicando un intero capitolo solo a Fiume).
E’ diventato una specie di laboratorio, un esperimento di “collettivo storiografico”.
Il mio compito è stato soprattutto quello di coordinare il gruppo di lavoro: creare l’infrastruttura per la condivisione dei documenti, raccogliere le analisi di ciascuno, pensare a nuovi eventuali lettori, implementare via via l’archivio virtuale da cui attingere i documenti per la lettura e l’analisi. Una grande quantità di documenti, devo dire, provenienti da tanti archivi: dall’Archivio centrale dello Stato a Roma, all’archivio di Stato di Rijeka, al Bundesarchiv di Berlino, a Yad Vashem; e poi ancora gli archivi di Stato di Padova, di Forlì, di Udine, l’archivio dell’Ucei, quello del CDEC di Milano, gli archivi svizzeri, quelli della Croce Rossa, del Joint a New York, quello dei Frati Minori di Montella e l’archivio Municipale di Campagna… e non sono nemmeno tutti! Riuscire a vedere (e in così poco tempo) le carte di questi archivi sparsi per l’Italia, per l’Europa, gli Stati Uniti, Israele sarebbe stato impensabile per un solo ricercatore!
E dunque, raccolto tutto questo materiale, come avete proceduto?
La quantità e varietà di fonti prese in esame ci ha consentito di seguire diversi filoni di ricerca. Il primo è stato senz’altro quello di fare un sondaggio delle biografie ufficiali; abbiamo cercato di enucleare le basi della teoria del salvataggio, di capire concretamente cosa si attribuiva a Palatucci e come questi salvataggi venivano descritti, per poi sottoporli alla prova dei documenti. E’ stato fatto un elenco degli eventi narrati, di ciascuno dei quali si è cercato un riscontro nei documenti d’archivio. E’ stato un fondamentale lavoro di controllo incrociato dei documenti, uno dei momenti-chiave della ricerca, direi; soprattutto se si considera che uno degli elementi-chiave della biografia di Palatucci è che l’assenza di prove, sarebbe dovuta alla distruzione dei documenti e alla segretezza. In realtà anche la tesi della distruzione dei documenti ha un che di “mitico”: lo storico sa bene che se qualcosa viene distrutto, specie in un ufficio di polizia, da qualche parte rimangono delle tracce, rimane uno strappo. In questo caso i documenti sono lì visibili a tutti. E anche la questione della “segretezza” tiene fino ad un certo punto. I fascicoli di persone aiutate da ufficiali spesso contengono gli elementi per capire la dinamica dell’aiuto. Aiutare era difficilissimo e non bastava passare la frontiera, bisognava trovare il modo di sopravvivere in un sistema controllatissimo in cui c’era bisogno di tessere annonarie, di permessi di transito, insomma di una complessa logistica. Lo vediamo nel caso della famiglia Conforty che viene aiutata dal loro amico, il Colonnello Bertone, a entrare e rimanere in Italia. Quello che Bertone riesce a fare per la famiglia Conforty emerge chiaramente dai documenti: si tratta di uno stratagemma, di un negoziato con i superiori di Palatucci, che sfrutta le pieghe della legge da un lato e la gerarchia militare dall’altro (Bertone infatti, tecnicamente, era un superiore del prefetto Temistocle Testa…).
Si è preso poi in esame tutto ciò che nelle biografie è considerata “testimonianza” e lo abbiamo messo a confronto con i fascicoli della polizia di coloro che hanno lasciato tracce scritte o orali, per capirne la storia e l’interazione con Palatucci. Attraverso questo processo, dalla narrativa celebrativa ha gradualmente cominciato a prender corpo l’immagine più frammentaria e complessa dei drammi di vita quotidiana vissuti in un ufficio della questura durante le persecuzioni razziali.
Poi c’è stata la ricostruzione dell’attività di Palatucci così come appare negli atti di ufficio. Prima dell’8 settembre del suo lavoro sui censimenti, le revoche di cittadinanza – che a Fiume furono massicce – le confische dei beni, le espulsioni e, nel 1940, gli internamenti. Sul periodo dopo l’8 settembre, sotto i tedeschi, la documentazione è più scarsa; gli studiosi tuttavia sono riusciti ad individuare piste alternative molto proficue attraverso le quali sono riusciti a ricostruire un quadro abbastanza articolato delle attività di Palatucci.
Ecco, alla luce di tutti questi dati emersi dalla biografia reale, documentata, di Palatucci, si riesce a capire quali sono stati gli elementi che hanno concorso e contribuito a formare ed alimentare il mito di Palatucci?
Quella di Palatucci è la storia di un vice-commissario di polizia morto in maniera tragica e molto giovane e che, avendo avuto un ruolo subordinato, ha lasciato poche tracce dirette. La sua attività non appare principalmente nel suo fascicolo – come accade invece per il questore – ma piuttosto nei fascicoli dei perseguitati sui quali stilava dei rapporti per i suoi superiori. Proprio il fatto di avere un ruolo subordinato in una questura le cui vicende sono disperse in migliaia di pratiche burocratiche, ha giocato un ruolo decisivo; ne ha fatto una sorta di personaggio-vaso che nel dopoguerra ha consentito di essere riempito di varie cose, a seconda dei momenti, delle esigenze. Fino al punto da “presentarlo” come questore, sebbene di fatto non lo sia mai stato.
La vicenda di Palatucci nasce in un momento in cui ovunque si sentiva la necessità di un “dopoguerra conciliatorio”. Concordo con l’analisi di Alexander Stille: la Chiesa doveva scrollarsi di dosso il sospetto del silenzio, lo Stato italiano era uscito dalla guerra senza fare i conti con il fascismo e avrebbe aspettato 50 anni prima di fare i conti con le leggi razziali; Israele a sua volta, era uno stato giovane, isolato, con il bisogno di crearsi delle alleanze, degli amici… In questo contesto Palatucci, salvatore degli ebrei, era una storia “condivisibile” (e utile) a più livelli.
Oggi, a settant’anni di distanza, Palatucci è un mito – un mito che ci impedisce persino di porci delle domande fondamentali sul nostro passato. Quando ci si chiede come Palatucci abbia potuto (o non potuto) compiere una certa azione, è inevitabile finire a scandagliare i meccanismi e la violenza tipici della dittatura; la sua capacità di creare un apparato burocratico della persecuzione fatto di tante persone guidate da buone intenzioni, dal senso del dovere, ma che comunque obbedirono ad una logica distruttiva. Questa macchina, che fece con successo il suo lavoro persecutorio, è complessa e piena di zone grigie. Viceversa il mondo in cui agisce l’ “eroe” Palatucci, quello narrato nelle biografie, è altamente semplificato.
Ma dal santo si è passato al persecutore …
Purtroppo la “caduta” ha ribaltato l’immagine di Palatucci in senso diametralmente opposto cioè quello di collaboratore dei tedeschi che è in qualche modo la continuazione dello stesso mito. Non si può prescindere per esempio, dal rilevare che Palatucci non fosse affatto il questore di Fiume, e che avesse un ruolo subordinato, sia sotto il regime, sia sotto la RSI che inevitabilmente sotto i tedeschi. Nello stesso tempo è legittimo domandarsi perché gli uomini a cui Palatucci si lega (due dei quali, più anziani di lui), e che lo prendono sotto la propria protezione, vengano tutti dallo squadrismo radicale e come i cambiamenti della situazione di questi protettori sotto l’occupazione tedesca abbiano influito sulla sua esperienza. Così come non vi è traccia che abbia aiutato dei perseguitati: la valutazione del lavoro per i censimenti, le informative riguardanti ebrei nascosti che Palatucci firma e distribuisce alle altre questure della RSI impegnate nel “rintraccio” di quelle persone, vanno esaminate e valutate nel contesto della condizione in cui si trovava. Qualunque sia la conclusione, attraverso l’esame dei documenti si entra in un terreno complesso e pieno di ambiguità.
C’è un “pezzo” della storia di Palatucci che è emblematica della ricerca che avete condotto?
Senz’altro lo è tutta la vicenda della nave dell’Agia Zoni, quella che nel 1953 indusse il giovane Stato di Israele ad intitolare una strada di Ramat Gan e poi una foresta a Giovanni Palatucci.
Le biografie narrano che nel marzo del 1939 Palatucci intercettò un gruppo di 800 rifugiati che i tedeschi erano pronti ad arrestare, e li aiutò a nascondersi ad Abbazia per organizzarne poi la fuga su un battello greco chiamato Agia Zoni.
Secondo le narrazioni degli Anni Cinquanta, questi 800 ebrei erano diretti in Palestina; mentre secondo quelle più recenti la nave si diresse in Puglia dove uno zio di Palatucci, un frate francescano, li avrebbe ospitati in una località imprecisata.
E’ una storia emblematica perché mostra la sproporzione tra la genericità del mito e la realtà dei fatti emersa dai documenti.
La prima de-costruzione di questo episodio è stata fatta da Marco Coslovich a partire da una considerazione basata su un semplice dato di fatto: nel marzo del 1939 a Fiume non c’erano nazisti. Il contesto reale dell’episodio è quello che vede da un lato l’intensificarsi delle espulsioni di ebrei dai territori tedeschi, dall’altro la scadenza del 12 marzo 1939 imposta dal regime fascista agli ebrei stranieri per lasciare l’Italia. Coslovich, già nel 2008, aveva pubblicato una serie di documenti della prefettura di Fiume e della Capitaneria di Porto, dai quali si evinceva che la partenza della nave Agia Zoni avvenne il 17 marzo del 1939 e che vi si imbarcarono 180 rifugiati austriaci e tedeschi, e quasi duecento ebrei locali (ai quali era stata revocata la cittadinanza). A questi doveva unirsi anche un altro cospicuo gruppo di fuoriusciti da Dachau, ma che venne respinto su ordine del prefetto Testa, prima di riuscire a raggiungere Fiume. In tutta questa vicenda Palatucci compare soltanto in uno degli ordini impartiti da Testa e sembra non aver avuto nulla a che vedere con l’intera operazione dell’Agia Zoni.
Nei mesi della ricerca ci siamo chiesti come ricomporre questi frammenti (lasciando tuttavia evidenti le lacune documentarie che pure ci sono), ma anche in che modo la storia che emerge dalle carte si sia trasformata nella versione narrata nella biografia di Palatucci – in una versione cioè che utilizza sì elementi fattuali ma alterandone completamente il senso.
Stilata la prima relazione sui dati, Tullia Catalan a Trieste ci ha messo sulle tracce di quello che poi si è rivelato essere il diario della guida incaricata dall’Agenzia Ebraica (sezioni di Vienna e Zurigo) di condurre il gruppo a Fiume. Ne abbiamo trovato copia in Australia per poi scoprire che l’originale era conservato a Yad Vashem…
Il diario coincide straordinariamente con la corrispondenza ufficiale e apre una finestra inaspettata sulla combinazione di violenza, compiacenza e ricatto che regnava nella questura di Fiume. Dalle sue pagine scopriamo che la polizia arrestò i 180 proprio ad Abbazia – dove, secondo le biografie, furono nascosti da Palatucci. Sembrerebbe che Testa abbia rimandato indietro, vuoto, il battello inizialmente affittato dall’Agenzia Ebraica. Quest’operazione innescò un processo di ricatto durato tre settimane in cui il gruppo venne trasferito in un magazzino al porto e – dopo aver pagato il noleggio e la riparazione di altri due battelli – fu finalmente lasciato partire.
Successivamente Federico Falk ci ha aiutato a identificare alcuni dei personaggi, in particolare i membri del piccolo nucleo sionista fiumano, cui si appoggiava l’Agenzia Ebraica, e che furono involontariamente denunciati dai viennesi e arrestati proprio nel corso di questa operazione.
Anna Pizzuti ha individuato all’Archivio Centrale dello Stato un fascicolo contenente le informazioni mandate dalla Capitaneria al Ministero che a Rijeka non eravamo riusciti a individuare. Qui abbiamo ritrovato la lista dei passeggeri che a sua volta ci ha rinviato all’Archivio del Joint Distribution Committee a New York e in particolare ad un fondo contenente la corrispondenza di Lelio Valobra con il JDC. Da esso emergono tracce dell’organizzazione della spedizione. Sempre dagli Archivi del Joint sono emersi altri dettagli riguardanti il finanziamento e le dinamiche organizzative, il cui referente in Italia era l’avvocato Carpi – elemento che abbiamo poi riscontrato anche su un documento della polizia italiana.
Attraverso le liste dei passeggeri siamo riusciti anche ad identificare due diari, il diario di bordo della nave e persino una fotografia scattata poco prima che gli inglesi procedessero all’arresto di una parte del gruppo – visto che fu abbandonato dall’equipaggio sulla costa della Palestina, ma non nel punto concordato.
Questa prima ricostruzione è stata particolarmente fortunata per l’abbondanza di documenti che abbiamo ritrovato, ma c’è ancora molto lavoro da fare… specialmente per trovare le corrispondenze con il lavoro svolto dall’Agenzia Ebraica e dall’Hicem (l’organizzazione ebraica per il soccorso degli ebrei sorta nel 1927 dall’unione di tre distinte organizzazioni dislocate tra New York, Parigi e Berlino) nei porti italiani.
Tutto questo materiale serve a mostrarci da un lato che Giovanni Palatucci non fu l’organizzatore della spedizione e che non si trattò di un’azione di salvataggio, ma anche, in via più generale, la complessità del sistema persecutorio, le sue molteplici forme.
Mostra anche come racconti parziali, presi magari in maniera autonoma, avulsi dal loro contesto complessivo, possano prestarsi a letture talvolta poco accurate, in alcuni casi addirittura completamente estranee alla realtà dei fatti.
Le reazioni al caso Palatucci: attese, inattese?
Mi sembra siano state tutte prevedibili. E’ sintomatico che nessuno abbia detto qualcosa di concreto sui documenti. Il solo fatto che per la prima volta sia stata posta la domanda su cosa facesse Palatucci in Questura, con chi lavorava, a chi obbediva, a chi dava ordini, dovrebbe sollevare l’interesse degli storici ma anche del pubblico. Invece questo passaggio dal mito alla storia è temuto. In generale però si è messo in moto un meccanismo positivo di superamento della verità immutabile. Ci vorrà un po’ di tempo per passare dalla difesa ad un dibattito articolato e informato. Auspicabilmente continueranno ad esserci punti di vista e interpretazioni divergenti ma non si potrà tornare a verità assolute né prescindere dai documenti.
Cosa pensa dell’articolo di Anna Foa uscito lo scorso giugno sull’Osservatore Romano in cui si parla di “ideologia che si sostituisce alla storia”?
Credo sia importante che Anna Foa abbia detto che la ricerca andava fatta. Naturalmente la sua preoccupazione, come dichiara nell’articolo pubblicato sull’Osservatore romano, concerne la questione del silenzio del Vaticano che invece in questa ricerca è poco rilevante. Semmai l’interesse e l’intento degli storici è stato quello di rovesciare la logica riduzionista della realtà storico-politica a biografia individuale. Chiede giustamente di sottoporre ad un’analisi più estesa queste carte che è esattamente quello che si sarebbe dovuto fare con la narrativa agiografica.