di Fiona Diwan
Il film di Ruggero Gabbai, prodotto da Elliot Malki, sarà presentato in anteprima per la Comunità al cinema Orfeo lunedì 2 novembre, ore 20.00 (e non più il 26 ottobre, come inizialmente comunicato).
L’epopea degli ebrei d’Egitto, dal Cairo a Milano, New York, Parigi, Londra… La dolcevita, l’esilio, la rivincita, il successo. Il film di Ruggero Gabbai, prodotto da Elliot Malki, ne racconta il destino e l’avventura.
«L’Egitto della mia infanzia presentava una tonalità universale e senza conflitti, un respiro largo e inclusivo che ci portiamo dietro come un prezioso dono».
«Abitava dentro di noi un miscuglio straordinario di identità: questo eravamo e questo siamo rimasti, ancora oggi. Cosmopoliti, figli di un metissage culturale tra i più ricchi, fecondi e seducenti».
«Le belle case, il profumo dei gelsomini e, tutto intorno, la dolcezza di vivere».
«Il nostro cosmopolitismo è stato la “plaque tournante”, un punto di snodo nell’evoluzione sociale dell’Egitto: nella cultura, nel business, nel mondo degli affari, nella socialità. Sapevamo vivere, sapevamo gioire, volevamo emergere».
«Voi, ricordatelo sempre, qui siete solo degli ospiti. Niente di più, ospiti! E non potrete mai avere la cittadinanza!»
«Come si può dimenticare? Noi abbiamo lasciato l’Egitto, ma l’Egitto non ha mai lasciato i nostri cuori».
Basterebbero una manciata di frasi come queste per capire. A soccombere sotto la marea dei ricordi e a pronunciare le parole qui sopra, sono oggi i protagonisti-testimoni di un’age d’or, un’epoca felice tumulata sotto le sabbie del Sahara verso la fine degli anni Cinquanta (1956), quando gli ebrei egiziani, stanziali da secoli, furono costretti ad abbandonare tutto, le loro case al Cairo e Alessandria, i loro beni, i negozi, gli averi, i denari, i traffici, le case, i terreni, le automobili… Il frutto del lavoro di una vita, le conquiste economiche di generazioni. Spogliati di ogni cosa e accompagnati all’imbarco dei piroscafi con un biglietto di sola andata e la certezza che nessuno sarebbe potuto tornare indietro, e ancor meno rivendicare alcunché. Sequestrate, in porto, persino le valigie, quelle con gli effetti personali, i libri, gli abiti, le fotografie, le scarpe, i soldi, i gioielli, i giochi dei bambini, le spazzole per capelli… Solo venti sterline per sopravvivere, lasciate a ciascuno dalle “caritatevoli” autorità di polizia. In tasca una manciata di contanti, in pancia la rabbia e il dolore: ma anche la volontà di nutrire il fuoco di un nuovo inizio, la rivincita su quel paradiso perduto il cui profumo non ti lascia. Una preziosa forza di resilienza e il rifiuto di farsi piegare dagli eventi e dal trauma. È la stessa determinazione che porterà molti degli 80 mila ebrei egiziani che lasciarono il loro Paese (oggi ne restano solo otto), a rifarsi una vita segnata dai successi, dall’eccellenza professionale e dalla passione per lo studio e la cultura, scientifica o umanistica che sia.
Il dovere morale di rinascere. A raccontare le storie di Yves Fedida, Levana Zamir, David Harari, Arturo Schwarz, Roly Cohen, Alec Nacamuli, Ada Aharoni, Sarah Gabbai, Albert e Nissim Malki, Lucette Lagnado, Yvonne Levi e molti altri, tutti nati in Egitto, giunge oggi un mirabile docu-film, Starting over- An Egyptian story (Ricominciare – Una storia egiziana), per la regia di Ruggero Gabbai e interamente prodotto e ideato da Elliot Malki, 72 anni, anch’esso uno dei ragazzi d’Egitto che fu costretto a abbandonare amici, scuola, casa all’età 17 anni. Nove mesi di lavoro, 65 minuti di film, girato direttamente in inglese,italiano e francese, sarà proiettato in anteprima gratuita – a offerta libera -, lunedì 26 ottobre, ore 19.00, al cinema Orfeo.
Le riprese sono state fatte a New York, Washington, Londra, Parigi, Milano, Tel Aviv. «Abbiamo girato ovunque ma non in Egitto. Alla fine ci hanno negato i permessi. Non volevano che girassimo nei luoghi di allora, hanno posto un veto. Perché? Per paura che potessero nascere rivendicazioni, per evitare imbarazzanti richieste di poter tornare in possesso del mal tolto, case, terreni, immobili, insomma rivendicare lo scippo del passato… E poi, oggi, la censura è tornata molto forte», spiega il regista Ruggero Gabbai, all’attivo ormai un numero ragguardevole di docu-film superpremiati, una attività di regista coniugata in questo momento a quella politica di Commissario Expo del Comune di Milano. Prosegue Gabbai: «Volevamo andare a fondo e raccontare questa avventura umana unica, intervistando la diaspora egiziana nel mondo. Per questo abbiamo raccolto testimonianze in inglese, francese, italiano, arabo».
Sempre presente sul set, anche Elliot Malki, il produttore, ha accompagnato Gabbai e la troupe per tutte le riprese, intervistando a volte egli stesso, i testimoni e scegliendoli tra i suoi amici d’infanzia. Accanto al regista Gabbai, anche la collaborazione autoriale di Francesca Olga Hasbani, di Chiara Passoni e del montaggio di Cristian Dondi Un coinvolgimento totale. «Con questo film abbiamo voluto raccontare la vicenda di personaggi fuori dal comune, persone speciali, dotate di un quid: la capacità resilienza. Ebrei nati in Egitto e capaci di ricostruirsi dal nulla senza voltarsi indietro o piangere sul passato. La koinè, lo scenario di vita e di pensiero, gli usi e costumi che ci siamo lasciati alle spalle era lo stesso: a Sydney, Parigi, New York o Milano, ci siamo portati in valigia lo stesso pattern, la stessa voglia di emergere, di gareggiare, la stessa way of thinking and living. Penso che, in fondo, noi ebrei egiziani siamo stati campioni di sopravvivenza», racconta Elliot Malki. «All’inizio, volevo raccontare la storia di mio padre Jacob e dei suoi sei figli, di cui io sono il primogenito. I suoi valori, l’educazione, il senso dell’importanza della cultura, cose che ha saputo trasmetterci. Ma volevo anche trasmettere il concetto di resilienza, fondamentale per comprendere come sia stato possibile ricostruirci una vita e avere così tanto successo. Come nel caso di David Harari, il genio che ha inventato i droni israeliani; o di Lucette Lagnado che è diventata una star del giornalismo americano».
«Quello che vivevamo in Egitto, da ragazzi, non era affatto una situazione coloniale. Piuttosto uno stile di vita direi all’inglese, con usi molto british. Eravamo un protettorato britannico, non una colonia. Inoltre, molti ebrei erano parte integrante della borghesia egiziana, verso la quale noi sentivamo un senso di fratellanza. Le differenze sociali a quell’epoca, contavano forse più di quelle di credo. Non c’erano conflitti su base religiosa. Per questo andarsene fu così terribile. Abbiamo lasciato l’Egitto con 20 sterline in tasca ciascuno», spiega Rolando Cohen, businessman di Milano.
Per gli ebrei d’Egitto, il dramma si consuma tra il 1948 e il 1956. Caduto Re Faruk, le masse arabe idiotizzate dalla propaganda nasseriano-sovietica vengono sospinte verso il diniego del passato, mentre il panarabismo e lo spirito di revanche si portano via tutto il lascito cosmopolita. Ivi compreso il respiro universale di quel mondo nato sulle ceneri dell’Impero Ottomano. Con spezzoni d’epoca che si inanellano perfettamente alle testimonianze, il film di Gabbai-Malki ci parla anche di questo, del suicidio sociale di un Paese, di ciò che accade quando una nazione scaccia i suoi ebrei.
«Il momento più duro della mia vita fu quando mi arrestarono. Ero un ragazzo, ero pieno di ideali comunisti. Mi internarono nel campo di Abukir e fui torturato», ricorda Arturo Schwarz. «Prima del 1948 la vita era rilassata. Chi non ricorda la Pasticceria Groppi? Era lì che ci si ritrovava dopo il cinema», dice Albert Malki. «E poi la Cafeteria Baudrot, il Caffè Champs Elyseès, il Romance Night Club ad Alessandria, il Pidgeon Casinò: la vita scorreva colorata e dolce, con le sue matinées dansantes, e il grande cinema egiziano che ha fatto storia, un cinema divertente, ricco, pieno di humour, con storie sentimentali e drammoni, ma sempre raccontati magistralmente», spiega Lucette Lagnado, oggi una star, celebre giornalista americana e autrice del famoso libro sulla storia del padre al Cairo The man with the white skinshark suite.
I ragazzi ricevevano un’istruzione cosmopolita e aperta al mondo. Per avere un’idea, basti pensare che al Cairo c’erano 33 diverse scuole: la scuola italiana, francese, inglese, greca, protestante, cattolica, ebraica… «Con gli ebrei condividevamo tutto: in classe, ricordo, eravamo solo in due musulmani, poi c’erano altri due cristiani e i restanti 22 ragazzi erano tutti ebrei. La tolleranza era una way of life in Egitto, era una cultura non un’educazione. Ora, tutto è diverso», ricorda Elhamy El Zayat, ex Ministro egiziano del Turismo, 72 anni, musulmano, che ha accettato – in nome dell’antica amicizia per Elliot Malki -, di testimoniare le buone relazioni passate tra ebrei e arabi. «A scuola, le mie due migliori amiche erano una musulmana e una cattolica», dice Levana Zamir e la incalza Albert Malki, che fa notare come «ogni anno, a Natale, quando gli amici cristiani andavano alla messa di mezzanotte, tutti noi, ebrei e musulmani, li seguivamo fino all’ingresso della chiesa, e tutto questo avveniva senza nessun senso di pericolo, nessuna minaccia. Eravamo naturalmente curiosi gli uni degli altri». «Essere ebrei era semplice, leggero, facile. Eravamo laici ma non lo sapevamo», racconta David Harari, il celeberrimo ingegnere aeronautico inventore dei droni, che oggi vive in Israele. Dopo il 1948 e la nascita dello Stato d’Israele le cose cambiano. «Fu immediato: da un giorno all’altro essere ebrei divenne un crimine ed essere straniero, un oltraggio. Scoppiò la rivolta contro gli stranieri e l’incendio del Cairo. I corpi dei soldati inglesi furono gettati fuori dalle finestre durante la rivolta: stranieri e ebrei rappresentavano il potere dell’Occidente e, come tali, andavano eliminati», spiega Albert Malki. Una società liberale che fa naufragio con la nazionalizzazione del Canale di Suez e di molte imprese private, all’indomani dell’alleanza tra Nasser e la Russia di Nikita Krusciov. Si scatena la censura. «Tutte le lettere di noi ebrei cominciarono a essere aperte. Iniziarono le visite notturne, le razzie. Erano le tre del mattino quando cinque uomini irruppero, il capo vestito in divisa e gli altri quattro con una ghallabieh: quello in divisa indicava col dito i quadri, le porcellane, il vasellame e i mobili; gli altri quattro li portavano via. Scelsero fior da fiore, i pezzi più preziosi. Sono passati 50 anni e non ho dimenticato un solo dettaglio di quella notte. Quando poi si trattò di partire, all’imbarco, venimmo frugati dappertutto, nel chiaro tentativo di umiliarci e deprivarci. Valigie rovesciate, libri sventrati, le scarpe squarciate per vedere se nei tacchi non ci fossero soldi o gioielli che volessimo portarci via… Fu terribile. Eppure mio padre fu sempre un uomo fiducioso. Ci ripeteva sempre, in arabo: “Kollo ytsallah, tutto s’aggiusta, Kollo kuayes, tutto si sistema”. Non si scoraggiò mai», ricorda Malki.
«Su quella nave viaggiava, insieme a tutti noi, la fierezza di essere un ebreo orientale, la coscienza perfetta di ciò che eravamo, un senso di eccellenza e grandezza perduta, la consapevolezza del nostro peculiare destino», spiega Lucette Lagnado.«Il segreto della resilienza? Aver avuto padri come il mio», conclude Elliot Malki. «Non si stancò mai di ripetere ai suoi figli “tu dovrai essere migliore di me”. Nessuna rivalità. Voleva davvero che diventassimo persone migliori e più valenti di quanto non fosse stato lui. Qualche anno fa sono tornato in Egitto. È stata una delusione cocente, l’antisemitismo era palpabile. L’Egitto di oggi non è wellcoming. Ho voluto rivedere la casa dove sono cresciuto. Ho suonato il citofono, mi hanno aperto con fatica. Sentivo l’ostilità. Il mio pianoforte era ancora lì, con lo stesso tasto rotto di quando suonavo da ragazzo, mai aggiustato. Alla fine mi hanno chiesto se gradivo un tè, ma senza offrirmi lo zucchero. In Egitto, se qualcuno ti offre un chai senza zucchero il messaggio è chiaro: ti sta dicendo che non sei gradito e che devi togliere il disturbo al più presto».