di Ester Moscati
Mahol, danza, e Ahlomà, guarigione, hanno in ebraico la stessa radice semantica e lo stesso valore secondo la ghematrià. E poi, come non pensare al Re David e alle sue sfrenate danze attorno all’Arca santa? «Un dato è certo – scrive Elena Lea Bartolini De Angeli nell’introduzione al suo libro Danza ebraica o danza israeliana, (Effatà, pp. 208, euro 13,00) – il linguaggio del corpo, e in particolare la danza, costituiscono un aspetto fondamentale nella vita relazionale dell’ebreo sia dal punto di vista religioso che laico: nell’orizzonte di una visione unitaria dell’uomo che non separa il corpo dallo spirito, la danza è il gesto che esprime meglio una relazione nella quale tutte le potenzialità della persona sono coinvolte; per questo nell’ebraismo, fin dai tempi biblici, nasce innanzitutto come forma di preghiera diventando una modalità privilegiata per rapportarsi a Dio e per condividere i sentimenti all’interno della comunità. L’ondeggiare tipico dell’ebreo religioso durante la preghiera, in ebraico shokelin, mostra come il corpo partecipi a questo gesto di fede seguendo il ritmo della cantillazione vocale durante la liturgia, ed è la modalità con la quale si interpretano le parole del Salmo 35 dove l’orante dichiara di volersi rivolgere al Signore con “tutta la sua persona”, in modo che anche “le sue ossa” possano lodarlo e riconoscere che nessuno è paragonabile a Lui. Per questo è grazie a correnti religiose come quella chassidica che molte danze legate alle feste si sono conservate nel tempo, mantenendo elementi che la danza popolare di Israele ha fatto suoi in una prospettiva più laica». Origini mistico-religiose, quindi, anche per la danza popolare israeliana, che nasce per unificare nel nuovo contesto mediorientale, dell’Yshuv prima e poi dello Stato, le diverse tradizioni diasporiche, ashkenazite, sefardite europee e quelle dell’immigrazione dai paesi arabi.
E così, dopo il lavoro nei campi, i chalutzim si svagano, si incontrano, si uniscono, al ritmo della Hora rumena, delle Mazurke e Krakowiak polacche, della Polka boema, ma anche sulle note della Czerkassiya caucasica e della Sherele. Del resto, la danza popolare in cerchio, il cui nome, Chag, si richiama alla “festa”, è già descritta nella Torà come la danza di Miriam, sorella di Moshe. E nel nuovo Stato, diventa simbolo di unione e uguaglianza tra tutti i membri del kibbuz. Salvo restare delimitata al cerchio delle donne e a quello degli uomini nelle comunità – e nelle danze – ortodosse.
Maestro Guglielmo
Ma l’amore degli ebrei per la danza, dai tempi biblici a quelli dello Stato di Israele, passando per le varie tradizioni popolari delle molte diaspore, conobbe in Italia anche una particolare stagione. Quella in cui gli ebrei erano maestri di questa “scienza et arte” nelle corti rinascimentali.
Un interessante seminario di studi e laboratori, a cura dell’ADA (Associazione Danze Antiche), che il 22 marzo festeggia il decimo anniversario dalla sua fondazione, si è svolto di recente tra la città di Pesaro e la suggestiva cittadina di Gradara.
Organizzatrice, la coreografa Chiara Gelmetti (in abito rosso nella foto qui accanto); protagonista assoluto Guglielmo ebreo da Pesaro. Un personaggio che per gran parte del ‘400 fu maestro di danza nelle più importanti corti italiane dell’epoca, dai d’Aragona di Napoli agli Sforza di Milano e di Pesaro, ai Montefeltro di Urbino.
Ed è proprio dalla sinagoga sefardita di Pesaro che ha preso le mosse il Convegno.
«Guglielmo, Beniamino, Giovanni Ambrosio… come mai tanti nomi per un unico personaggio? – si chiede Maria Luisa Moscati Benigni, studiosa delle comunità ebraiche delle Marche – È abbastanza curioso il fatto che all’epoca, ad ogni nome ebraico se ne facesse corrispondere uno italiano, pur senza alcuna attinenza nella grafica né assonanza nella pronuncia, e in questo caso ad ogni Beniamino vien fatto corrispondere, soprattutto negli atti notarili, il nome Guglielmo. E quel “Da Pesaro” sta ad indicare la provenienza, ma non necessariamente la nascita; potrebbe infatti essere giunto ancora bambino con il padre Moisè, Musetto di Sicilia, quando questi giunse in città alla corte dei Malatesta, proprio come maestro di danza. Guglielmo quindi, come pure il fratello Joseph, è figlio d’arte». Con il nome di Guglielmo da Pesaro firma nel 1463 il trattato De pratica seu arte tripudii, ma nella successiva stesura del 1471, compare il nuovo nome Giovanni Ambrosio assunto al momento della conversione avvenuta a Milano, quando era alla corte di Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, probabilmente suoi padrini, visto che nelle lettere da Napoli si dichiara “vostro figlio”. Discordi i pareri dei biografi su una conversione che secondo alcuni è finalizzata al conseguimento del titolo di Cavaliere. Ma tra l’uno e l’altro evento trascorrono ben sei anni, e d’altra parte la conversione non era affatto necessaria. Infatti il 21 febbraio 1462 riceverà l’ambito titolo di Cavaliere, insieme a Guglielmo, anche il noto rabbino Yeudà ben Yachia che non si era di certo convertito. «Questo delle conversioni era spesso un atto formale con il quale quegli ebrei che intendessero svolgere un’attività presso le corti, sollevavano in un certo qual modo il sovrano da noie da parte del Papa, così come in epoche più recenti era necessaria la tessera di un partito per ottenere un posto di lavoro».
L’idea rinascimentale
«Con Guglielmo ebreo da Pesaro – spiega Chiara Gelmetti – siamo senz’altro di fronte a quella visione rinascimentale, quell’orizzonte d’idee, che nell’uomo e nella natura trovano il loro fondamento. Dal pensiero scolastico – che emerge nel trattato di danza di Domenico da Piacenza, suo maestro – al naturalismo rinascimentale procede la danza del ‘400 in un percorso semanticamente ambiguo che la rende così particolare e rarefatta». Scrive infatti Guglielmo: Ma tenire el mezo del tuo movimento che non sia ni tropo ni poco (ma) con tanta suavitade che pari una gondola che da dui rimi spinta sia per quelle undicelle quando el mare fa quieta sua natura.
Nel 1480, maestro di ballo al servizio del casato ducale degli Sforza di Pesaro, fu mandato alla corte di Milano per insegnare la sua arte alle giovani generazioni. «Era molto comune avere un maestro di danza ebreo durante il rinascimento. Nella lettera di raccomandazione è descritto come il migliore in Italia».
Barbara Sparti, studiosa, docente, ricercatrice, coreografa e danzatrice nel suo intervento al Convegno afferma che il Trattato di Guglielmo può essere confrontato con un altro importante Trattato, il “De pictura”, di Leon Battista Alberti. Entrambi gli autori sono stati degli innovatori nel proprio campo, e anche lo stile linguistico impiegato è molto simile: la raffinata prosa quattrocentesca, con la quale si rivolgevano ad un pubblico di umanisti. Alberti utilizzò la matematica come base della pittura, mentre Guglielmo inserì scienza, musica e principi matematici: ad esempio, i concetti di “misura” o quello di “comparazione”. Guglielmo enuclea sette movimenti, contemplati in ogni bassadanza del ‘400, tra cui: riverenza, ondeggiare o aere, continenze, passi lenti o brevi, giri. Un ulteriore elemento in comune fra i Trattati dell’Alberti e di Guglielmo è il “movimento corporeo”, legato al movimento dell’anima che si esprime appunto attraverso il movimento del corpo. «Si tratta di un concetto umanista: le emozioni, gli affetti, in relazione alla danza, che diviene espressione esterna di ciò che è dentro».
Patrizia Pozzi, docente di Storia del pensiero ebraico presso l’Università degli Studi di Milano descrive l’incontro fra cultura ebraica e cristiana, che avviene a Pesaro nel Rinascimento. «La danza è parte integrante della religione ebraica e del rapporto tra uomo e Dio. La danza celebra, al contempo, un rapporto verticale – verso Dio – ed orizzontale, perché supera le gerarchie (“David, il re, danza come tutti gli altri che danzano con lui”). Vi è anche l’idea di pregare con il corpo (Salmo 35,10). Inoltre, la danza in cerchio è tra le più comuni nella Bibbia: racchiude l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti al Divino. La danza, dunque, fa parte della tradizione ebraica». E Guglielmo ne è degno maestro.