Nel Risorgimento, gli Ebrei sposarono la causa...
Per l’ebraismo la libertà dell’individuo non è soltanto un valore morale e civile, ma soprattutto un principio religioso. L’uomo, creato ad immagine di D-o, non può, come non può D-o stesso, essere schiavo, né il suo pensiero e la sua fede, politica o religiosa che sia, possono essere oggetto di costrizione o censura. Questa, che oggi è una realtà conclamata e consolidata, anche se purtroppo non ovunque riconosciuta, ha per gli ebrei un’origine lontana: risale al tempo in cui furono date a Mosè le Tavole della Torà: dieci direttive ( o comandamenti), antiche e attuali al tempo stesso, che costituiscono un codice di condotta anche civile cui nessun popolo oggi può venir meno.
Tre grandi festività ebraiche ne sottolineano l’importanza: Pesach, Shavuòth e Sukkòt .
Pesach, la Pasqua, festa che celebra la libertà fisica l’affrancamento dalla schiavitù in terra d’Egitto;
Shavuòt, Pentecoste (sette settimane dopo la Pasqua) che ricorda il dono della Torà, dell’insegnamento, perché solo colui che sa, è in grado di pensare liberamente; e infine Sukkòt (la festa delle capanne) festa autunnale degli ultimi raccolti,che per un popolo legato alla campagna costituiva anche un affrancamento dal bisogno. Solo chi non è costretto a tendere la mano è veramente libero; il IV Comandamento infatti non recita semplicemente “Ricordati di santificare le feste” tutt’altro, esso impone di lavorare sei giorni e solo allora avrà valore il riposo del sabato.
La libertà quindi in ogni suo aspetto, l’unica che conferisca, insieme al lavoro, dignità all’uomo, quella dignità che per secoli è stata negata agli ebrei da governi assolutisti e retrogradi.
L’altro sentimento che ha provocato tutto un ribollire di moti e insurrezioni fu senza dubbio l’aspirazione dei popoli, e non dei soli ebrei, volta al raggiungimento di quei valori di liberté, egalité e fraternité portati dalla Rivoluzione Francese. Pronunciando queste tre parole è facile comprendere come gli ebrei italiani fossero i più motivati nell’adesione alla causa.
Le campagne di Napoleone in Italia avevano liberato gli ebrei dall’umiliante costrizione del ghetto. A mano a mano che i Francesi avanzavano, venivano abbattuti i portoni dei ghetti e bruciati e su quelle ceneri piantato l’albero della libertà: un picchetto composto da cristiani ed ebrei insieme, montava la guardia a quell’albero- simbolo
A partire dal 1796 quindi, agli ebrei erano stati riconosciuti tutti i diritti civili di cui godeva il resto della popolazione, e anche la possibilità di svolgere qualsiasi lavoro, (non più costretti al solo commercio della strazzeria come nello Stato Pontificio) o la possibilità di acquistare beni immobili, ma, cosa ben più preziosa, di accedere alle Università sino ad allora interdette.
Infatti lo studio è sempre stato l’ impegno primario di quello che viene definito il popolo del libro, basti pensare che da sempre non è mai esistito l’analfabetismo proprio per quell’obbligo religioso che vuole che a tredici anni un ragazzo ebreo sia in grado di leggere la Torà (cerimonia del Bar- mizwà). Tra gli ebrei è tutto un fiorire di studi laici, di lauree conseguite rapidamente da giovani avvezzi sin dall’infanzia allo studio.
Nomi ebraici compaiono da subito tra quelli degli Amministratori eletti nelle città liberate dai Francesi come a Modena, Reggio, Ferrara, Lugo, Cento, Mantova, Venezia, Padova, ovunque fossero comunità ebraiche. Il modenese Mosé Formiggini partecipò al Congresso Cispadano come rappresentante delegato dalle varie Comunità.
In Ancona nel febbraio del 1797 il Generale Bonaparte concesse subito libertà agli ebrei ammettendoli alla Municipalità. Quando poi venne proclamata la Repubblica Anconetana, sarà proprio un ebreo, Salvatore Morpurgo a guidare la deputazione cittadina inviata a Milano per ottenerne da Napoleone l’approvazione. E quando, come accadeva ovunque, si tentò di calare le campane della cattedrale per farne cannoni e monete, furono proprio due ebrei Seppilli e Terni, funzionari municipali, ad impedire che fossero fuse.
Partito Napoleone per la campagna d’ Egitto, i generali francesi dovettero abbandonare, sia pure per breve tempo, l’Italia e tutto tornò come prima. La reazione che ne seguì vide gli ebrei oggetto delle peggiori vendette: la plebaglia, aizzata dal basso clero, al grido di “Viva Maria” irrompe nei quartieri abitati da ebrei, saccheggia, distrugge ogni cosa, brucia le sinagoghe e compie eccidi, ovunque.
Agli antichi pregiudizi si aggiunge l’odio per aver osato, durante l’occupazione francese, rivestire cariche pubbliche o acquistare proprietà e certa stampa come l’”Araldo cattolico” di Ferrara, non lesina attacchi in tal senso.
A Senigallia, il 18 giugno del 1799, orde reazionarie al seguito del generale Lahoz invadono il ghetto. Saccheggiate e bruciate le case, profanata la sinagoga, rubati e distrutti gli arredi si gettano sugli ebrei in fuga lasciando a terra centinaia di feriti e tredici morti delle famiglie Ascoli, Camerini,Volterra e Del Vecchio. I superstiti, circa 600, si salvano a stento fuggendo, via mare, accolti dai correligionari di Ancona, ove restano due anni sotto la protezione del vescovo Honorati che non aveva certo dimenticato come erano state salvate le campane della cattedrale.
Violenze si verificarono anche nei ghetti di Pesaro e Urbino, anche se non vi furono vittime.
Gli ebrei di Ancona hanno maggior fortuna perché è lo stesso generale francese Monnier che nel trattare la resa nell’ottobre del 1799 riesce ad impedire scene di barbarie ponendo come condizione che “nessuno, di qualsiasi fede e specialmente ebrei, sia processato o molestato né per fatti, né per scritti, né per parole a favore della Repubblica pronunciate”
Fortunatamente questo tristissimo periodo dura soltanto pochi mesi poiché, con la vittoria di Marengo, Napoleone torna di nuovo a reggere le sorti d’Italia, gli ebrei tornano liberi e questa volta per quasi quindici anni. Un periodo abbastanza lungo perché cristiani ed ebrei abbiano la possibilità di frequentarsi e conoscersi e stimarsi, collaborando anche all’amministrazione della cosa pubblica.
Nella Repubblica Cisalpina, divenuta nel 1802 Repubblica Italiana, sono numerosissimi gli ebrei eletti nelle Commissioni di Governo dei vari dipartimenti come emerge dall’elenco generale dei deputati, annesso alle memorie del Conte Melzi.
Oltre che nelle pubbliche amministrazioni ( furono nove i podestà ebrei eletti nelle maggiori città come ad esempio Marco Finzi a Mantova, stimato da Napoleone e spesso ospite del Viceré) gli ebrei furono chiamati a far parte anche dell’esercito napoleonico fino ai più alti gradi. Fra questi Israele Latis e Benedetto Sanguinetti che troveremo poi tra i martiri del 1822 nei moti di Modena. Va detto però che i Francesi, oltre alle ben note ruberie di opere d’arte, pretesero dalle Comunità ebraiche forti contribuzioni in denaro alle quali risposero generosamente anche gli strati più poveri, ben consapevoli che nessuna moneta avrebbe potuto ripagare il valore della libertà.
In nessuna storia mai, come in quella del popolo ebraico, si riscontra in modo così puntuale l’alternarsi dei corsi e ricorsi storici vichiani. Quando il peggio sembra ormai superato e lontano, quando libertà,. fraternità e uguaglianza appaiono valori definitivamente raggiunti, ecco un nuovo tiranno pronto a cancellare ogni conquista.
Infatti dopo il Congresso di Vienna, con la Restaurazione del 1815 tutto torna come prima: nello stato Pontificio, nel Regno delle due Sicilie e in quello di Sardegna, agli ebrei sono di nuovo interdetti i pubblici uffici, l’accesso alle Università, la libera attività professionale, il possesso di beni immobili e di nuovo vengono serrati i portoni dei ghetti ed imposte le forti vecchie tasse per essere “tollerati”.
Nel Granducato di Toscana, nel Ducato di Parma e nel Regno Lombardo Veneto, invece rimangono pressoché immutate le conquiste raggiunte, ma ormai ebrei e non, hanno assaporato il gusto della libertà, dell’autodeterminazione e soprattutto il sogno di un’Italia unita.
I moti rivoluzionari che ne seguirono (1820-21) sfruttarono i canali commerciali dei mercanti ebrei i quali, non senza grandi rischi, si facevano carico di diffondere materiale propagandistico, dispacci e giornali fra i vari Stati in cui era di nuovo divisa l’Italia. C’erano inoltre tra gli ebrei delle varie città rapporti di parentela contratti a seguito di matrimoni e ciò giustificava i frequenti spostamenti e facilitava la diffusione di stampe definite “pericolose”.
Sorgono allora associazioni, necessariamente segrete, come in Toscana ove in seno ad una loggia massonica si era sviluppata una Sezione di Carboneria con molti affiliati, dei quali, stando alle note della polizia, quarantaquattro erano ebrei: fra loro certi Leone Perez, Z. Pesaro Giacomo Funaro e poi ancora Gabriello de Pax, Montalcino e Spizzichino. Si riunivano, come normali clienti, nella trattoria di un certo Ottolengo a Livorno.
Non pochi ebrei di Ancona come David Almagià e Giuseppe Coen Cagli contribuiscono sia attivamente sia con ingenti somme alla causa, favoriti in ciò dai collegamenti di ditte commerciali come la Moisé Salmoni &C. e la Sanson Vivanti usati spesso come copertura di attività segrete della Carboneria prima e della Giovane Italia poi. Il Cagli in particolare si arruolò volontario nella Compagnia della Morte per la difesa di Ancona assediata, e da allora lavorò assiduamente per l’unità d’Italia.
Anche negli Stati Estensi furono molti gli ebrei iscritti alla Carboneria e tre di essi, nei moti del 1820, furono arrestati e torturati Israele Latis, Benedetto Sanguinetti e Fortunato Urbani, ex ufficiali dell’esercito napoleonico. Dopo anni di carcere durissimo il Latis, essendosi rifiutato di rivelare i nomi di altri carbonari venne drogato con estratto di belladonna, perché nel delirio parlasse, ma ne morì in preda alla follia. Altra tragica fine per il giovane Enrico Fano, ebreo di Mantova, che combattè tra gli insorti di Asti, fatto prigioniero, per timore di parlare sotto tortura, si tagliò la gola in carcere con un pezzo di vetro.
Nello Stato Pontificio, con l’elezione di papa Leone XII, la Carboneria vedrà iscritti sempre più numerosi anche per l’intensa attività propagandistica di Lazzaro Carpi, ebreo originario di Cento. Imprigionato per i suoi scritti rivoluzionari e per cospirazione coi liberali, riparerà nel 1822 a Bologna, suo figlio Leone diventerà un personaggio politico di spicco nel Governo dell’Italia unita.
Nei dieci anni che seguirono, i liberali insorti riorganizzarono le file, ma non riuscendo ancora a concepire l’idea di un’Italia unita, disgiunta dalla figura di un monarca, erano incerti su chi dovesse rivestire questo ruolo.
Sembrava in un primo momento che l’ambizioso Francesco IV, Duca di Modena e Arciduca d’Asburgo.Este, simpatizzasse per i moti liberali, anche perché non faceva mistero delle sue aspirazioni al trono sabaudo avendo sposato Maria Beatrice di Savoia, figlia del Re Vittorio Emanuele I, che invece nominerà erede Carlo Felice, che a sua volta abdicherà in favore di Carlo Alberto. Durante i moti del 1820, il Duca aveva fatto arrestare quarantasette patrioti e alcuni condannati a morte, nonostante tutto ciò, forse sperando di poter sfruttare le lotte liberali per costituire un grande regno, appoggiò inizialmente i progetti di Ciro Menotti
Ma la sera del 3 febbraio 1831, quando nella casa del Menotti si erano riuniti una quarantina di insorti per organizzare la rivoluzione, il palazzo venne circondato dalle truppe estensi e dopo uno scontro a fuoco, ci furono numerosi arresti. I feriti, oltre allo stesso Ciro, furono molti tra i quali il Dott. Angelo Usiglio e il fratello Emilio, rampolli della borghesia ebraica modenese. Angelo, condannato a morte in contumacia, si rifugerà a Marsiglia poi a Londra ove collabora con la “Giovane Italia”. Il duca spaventato per l’arrivo di altri rivoltosi preferì fuggire portando con sé in catene l’infelice Ciro Menotti, che poi farà impiccare.
Allorché gli austriaci invasero la Romagna schiere di Modenesi-Reggiani accorsero; tra loro numerosi furono gli ebrei oltre ai fratelli Angelo ed Emilio Usiglio c’erano Marco Almansi, Abramo e Giacomo Levi di Reggio, Guglielmo e Giuseppe Segre, l’avv. Felice Resignani, Salvatore Segre e Davide Pavia. Tra i volontari dei moti del ’31 figurano anche Moisé Foà. Jacob Levi, Ottavio e Prospero Modena, Davide Cividale Leone Liuzzi …..
E sempre in Romagna a causa dell’attentato del ‘32 al cardinale Rivarolo, fu arrestato con l’accusa di complicità, l’ebreo Abramo Isacco Forti di Lugo, già fautore dei moti di Faenza del ’28, e messo a morte.
Tanti insuccessi, tante giovani vite spezzate creeranno nell’animo di Giuseppe Mazzini quella che egli stesso defini “la tempesta del dubbio”. Nell’esilio di Marsiglia avrà accanto a sé il fidato amico di sempre, Angelo Usiglio: sarà qui che con la sua collaborazione getterà le basi della nuova società la “Giovane Italia” che prenderà il ruolo dell’ormai decaduta Carboneria.
Il loro obiettivo espresso nel giornale “La Giovane Italia”, fondato nel ’32, è un’Italia unita, indipendente e repubblicana, e la formula mazziniana “Dio e Popolo” ricalca la tradizione ebraica del rapporto diretto del credente con il Creatore, senza intermediari, sin dai tempi di Abramo.
Vercelli sarà il centro di diffusione delle nuove stampe depositate segretamente nella libreria dell’ebreo Levi Salvador e di suo figlio Giuseppe, di lì saranno diffusi in tutto il Piemonte e oltre, insieme a dispacci ed opuscoli, nascosti sul fondo dei cesti di salami e prosciuttini d’oca prodotti da Abramo Lazzaro Levi. Intermediario tra Marsiglia e Vercelli era l’ebreo vercellese Giuseppe Vitalevi che però nel giugno del ’33, a seguito delle perquisizioni della polizia piemontese, dovette fuggire. Si salvò travestito da prete e raggiunse la Svizzera, mentre il povero pizzicagnolo dovette restare quattro anni nascosto in casa di amici.
Una vera e propria fucina del sentimento patriottico italiano fu il Collegio Foà, sempre a Vercelli, ove, come scrive Salvatore Debenedetti ( diventerà poi professore all’Università di Pisa) i giovani ebrei non solo perfezionano la conoscenza della lingua italiana, ma soprattutto imparano ad amarne la letteratura e la storia così da formare, nei giovani cuori, una coscienza patria.
In Toscana poi furono proprio due ebrei, Montefiore e Ottolenghi a capo della Società dei “Veri Italiani”, fondata dal Guerrazzi. Scoperti e processati, furono condannati a tre anni di lavori forzati. Ma la Toscana resta una terra di rifugio per tanti ebrei, non foss’altro che per la possibilità di frequentare l’Università di Pisa in cui, come pure in quella di Padova, anche gli ebrei erano ammessi.
Vi si trasferiscono dalle Marche, dopo l’elezione di papa Leone XII, numerose famiglie ebraiche come i D’Ancona di Pesaro, così che i due figli Sansone e Alessandro vi potessero compiere gli studi universitari. La loro casa divenne ben presto luogo d’incontro dei più insigni patrioti
Anche il giovane poeta David Levi, ebreo torinese, giunge a Pisa, e non solo per gli studi universitari. Affiliato alla “Giovane Italia” locale, di cui l’ebreo Leone Provenzal era a capo del Comitato Centrale, diventerà l’anello di unione tra i vari comitati di Piemonte, Toscana e Romagna portando dispacci segreti o la parola d’ordine che, per sicurezza, veniva cambiata di frequente.
Avendo sfidato a duello, e poi ferito, uno svizzero che aveva insultato l’Italia, dovette lasciare Pisa e, trasferitosi all’Università di Siena, vi ebbe un’ accoglienza trionfale da parte degli studenti del luogo.
Conseguita la laurea viene inviato a Londra per prendere accordi con Giuseppe Mazzini che vi si era trasferito già dal 1837, ospite della famiglia Nathan (la casa della pesarese Sara Levi Nathan sarà il punto di raccolta e riferimento di tutti i fuorusciti italiani). Al ritorno apprende della disgraziata spedizione dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera (secondo gli storici erano nipoti di un’ebrea di Ancona), per i quali compose un canto che infiammò a tal punto gli animi che la polizia austriaca ricercò a lungo, invano, l’autore.
Divenuto Papa Pio IX, nel 1846, le condizioni degli ebrei in tutto lo stato pontificio mutarono radicalmente. Furono abolite le umilianti cerimonie con cui pagavano il tributo annuo alla Camera Apostolica, anzi venne assegnata una somma di trecento scudi in soccorso dei più poveri della Comunità, venne abolito il divieto di apporre lapidi sulle tombe degli ebrei, e riscontrato quanto il ghetto romano fosse ristretto e insalubre, fu loro concesso di abitare anche al di fuori di esso.
La gioia degli ebrei fu grande, ma il loro rabbino Samuele Alatri, detto il papa del Ghetto, che da anni guidava la Comunità romana facendosi spesso interprete, ascoltato e rispettato, delle suppliche dei suoi presso le alte cariche vaticane, invitò tutti alla prudenza.
Fu lui a dare a Massimo D’Azeglio le note necessarie per la stesura del libretto “Sull’emancipazione civile degli Israeliti” pubblicato in Roma l’8 dicembre 1847, dedicato al fratello Roberto che era stato uno dei più animosi sostenitori dell’urgenza di concedere agli ebrei libertà e uguaglianza avendoli avuti accanto come amici e compagni sinceri nelle lotte risorgimentali. Il poeta David Levi volle esprimere tutta la riconoscenza verso il Pontefice con un canto che Gino Capponi fece stampare e presentò egli stesso al Papa. Purtroppo tanti meriti furono offuscati, oltre che dal repentino cambiamento dopo l’esilio di Gaeta, dal disgraziato caso del piccolo Mortara rapito alla famiglia e convertito a forza, per il quale Pio IX non volle intervenire, nonostante le pressioni dell’opinione pubblica espressa dalla stampa italiana ed estera. Rispose semplicemente “non possumus”.
In Piemonte è lo stesso Vincenzo Gioberti, filosofo politico e sacerdote, che scrive al D’Azeglio “Io tengo la causa degli Israeliti e dei Valdesi non solo per giusta ma sacra” e in tal senso era stata presentata a Carlo Alberto una petizione con la firma di 600 cittadini tra i quali Camillo Benso conte di Cavour, Cesare Balbo, il Casalis…ma il Re che pure aveva avuto frequenti incontri con il Gran rabbino di Torino Lelio Cantoni e il poeta David Levi, indugiava a concedere agli ebrei l’equiparazione “per via dei vescovi”- disse-, evidentemente contrari a riconoscere loro gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini. Determinante l’osservazione del poeta Levi che non mancò di sottolineare come proprio nel Lombardo Veneto, che il Re si accingeva a liberare, gli ebrei godessero già da tempo degli stessi diritti degli altri cittadini.
Finalmente il 29 marzo 1848 il Re concede l’emancipazione anche agli ebrei.( Carlo Alberto seppe farsi amare tanto che alla sua morte in tutte le sinagoghe si fecero funzioni solenni e molte furono addirittura dipinte di nero in segno di lutto.)
Molto aveva influito l’appoggio di Roberto D’Azeglio tanto che sua moglie, la marchesa Costanza, scrivendo al figlio dice: “ Gli ebrei sono stati emancipati. Tuo padre non può più passare avanti al ghetto a causa delle ovazioni. Coloro che si sono arruolati si comportano a meraviglia”.
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Infatti stava per scoppiare la prima guerra di Indipendenza contro l’Austria e subito gli ebrei avevano cominciato ad arruolarsi, 65 solo il primo giorno, poi via via anche dalle altre città del Piemonte, da Acqui ben 12 tra cui Abram e Jona Ottolenghi, e ad Asti Todros Debenedetti, amico del Brofferio, fu il primo di tanti che poi si arruolarono.
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A Milano nelle storiche cinque giornate si distinse l’eroico Ciro Finzi, quindicenne, caduto poi nella difesa di Roma. Vanno ricordati anche Tullo Massarani e Giuseppe Revere collaboratori del giornale rivoluzionario “22Marzo”.
A Venezia numerosi gli ebrei caduti o comunque prodigatisi per la causa: Enrico Dandolo (nipote dell’ebreo Daniele Serna), Daniele Manin (ebbe il cognome dal padrino ultimo Doge di Venezia, ma era figlio di ebrei Samuel Medina e Allegra Moravia), il rabbino Samuel Salomone Olper, il rabbino Abramo Lattes, e poi ancora Isacco Finzi, “uno dei primi a morir degnamente per Venezia”, e Giacomo Treves, Cesare Della Vida, Leone Pincherle e Isacco Pesaro Maurogonato
Nella prima, come in tutte le altre guerre per l’Indipendenza, la partecipazione degli ebrei fu sempre numerosa specie se si considera che il rapporto tra la popolazione ebraica e il resto degli italiani era di uno a mille. Tanto che nel ’69, l’esercito italiano contava 87 ufficiali e 300 soldati ebrei.
Ma fu soprattutto il corpo dei volontari ad attrarre gli ebrei, meglio rispondente al loro carattere tutt’altro che disciplinato. Infatti, dalla strenua difesa del regno d’Israele, cancellato dai Romani nel 135, era la prima volta che veniva permesso loro di impugnare le armi.
Lo dimostreranno nelle varie spedizioni cui presero parte come in quella di Crimea ove tra gli altri cadde Angelo Rovighi, fratello di quel Cesare già cospiratore, poi segretario di Cialdini e fondatore del primo periodico ebraico in Italia “La Rivista israelitica”.
Numerosi furono gli ebrei al fianco di Garibaldi nella spedizione dei Mille, e molti i finanziamenti all’impresa da parte di ebrei inglesi e italiani come i banchieri Franchetti, Vitta di Casale, i Bondì di Livorno, i Tedesco di Genova e soprattutto quelli di Casa Rothschild di Parigi. Anzi la spedizione stessa prese le mosse da Villa Spinola, a Quarto, sostenuta dalla padrona di casa Vittoria Della Ripa, ebrea fiorentina, di origine pesarese, moglie di Candido Vecchi amico di Garibaldi. E quando Garibaldi fu ferito ne avranno cura trasportandolo a Caprera ove gli resteranno vicini .
Anche il Capo di Stato Maggiore Enrico Guastalla, ebreo mantovano, fu ferito nella battaglia sul Volturno nel ’60, ma già era stato accanto a Garibaldi coi “Cacciatori delle Alpi” nel ’59 e lo sarà ancora nel ’67 nella battaglia dell’Agro Romano volta alla liberazione di Roma.
C’era a Quarto, al momento dell’imbarco, anche un giovanissimo ebreo, neppure diciottenne, Riccardo Luzzatto: alla madre che tentava di dissuaderlo rispose di non chiedergli di tornare in dietro perché sarebbe partito ugualmente, ma con il rimorso di averle disobbedito.
Anche Giacomo Levi-Civita, appena ventenne, si batté a fianco di Garibaldi alla Bezzecca ove si guadagnò la medaglia d’oro.
Le Marche vennero liberate nel 1860 dal Generale Enrico Cialdini e questa volta vittima illustre fu la splendida sinagoga levantina situata sul porto fatta distruggere da Lamorcière, capo dalle truppe papaline prima della resa proprio per punire la Comunità ebraica anconetana per il sostegno dato alla causa risorgimentale. A Cialdini e ai suoi valorosi venne eretto il monumento a Castelfidardo, opera dello scultore ebreo Vito Pardo.
Numerosi ebrei militavano nelle truppe del generale Enrico Cadorna che il 20 settembre 1870 entrarono in Roma attraverso la breccia aperta nelle mura aureliane all’altezza di Porta Pia.
Poiché il Papa aveva minacciato di scomunica colui che avesse sparato il primo colpo di cannone, tale onore, ed ònere, venne affidato a Giacomo Segre, ebreo torinese.
L’anno seguente, con legge del 3 febbraio 1871 n°33, Roma diventa Capitale d’Italia.
Ma per l’unità di tutto il territorio nazionale bisognerà attendere la prima guerra mondiale alla quale gli ebrei, ormai soggetti al servizio di leva alla stregua di tutti gli altri italiani, parteciparono dando prova di grande coraggio e abnegazione, come provano le numerose onorificenze meritate sul campo. Ancora più numerosi i volontari, spesso neppure maggiorenni.
790 quelli di cui si conosce il nome.
La dedizione alla Patria, gli ebrei non la dimostrarono unicamente con il tributo di sangue e di denaro, ma anche con un forte impegno nel sociale (fondarono asili, ospedali, scuole professionali), nella politica( eletti nei vari consigli) e nella stampa.
Proprio un ebreo di Ancona, Pacifico Pacifici, sebbene avviato ad una brillante carriera bancaria, fervente patriota, lasciò la sua città per trasferirsi a Roma. Nella sua casa allestì la redazione del giornale clandestino “Italia e Roma” e la stampa di altre pubblicazioni, per cui venne esiliato. Ma restò sempre in contatto col Comitato romano di cui aveva fatto parte, fondando qua e là varie società di beneficenza.
Tra i molti giornalisti ebrei emerge il torinese Giacomo Dina che diventerà il più appassionato interprete della politica di Cavour prima come redattore-capo, poi comproprietario de l’”Opinione”, organo ufficioso del primo ministro.
E fu proprio il Cavour a chiamare presso di sé come suo segretario particolare Isacco Artom, un giovane ebreo laureato in Legge all’Università di Torino. Ne apprezzava talmente le qualità da volerlo accanto anche durante gli incontri politici e diplomatici più delicati.
Quando il giornale cattolico “L’Armonia” pubblicò l’articolo intitolato “Il Conte di Cavour e il suo Isacco” rivelando con toni scandalistici che il segretario del primo ministro era ebreo, immediata apparve su l’”Opinione del 2 agosto 1860, la replica di Cavour : “Che L’Armonia segua una scala crescente di contumelie e di ingiurie….(sembra che il Cavour avesse numerose relazioni amorose) sta bene…, ma non vi son fatti nella mia vita politica, di cui maggiormente mi compiaccio, che di aver potuto scegliere a collaboratori intimi ed efficaci nel disimpegno di negozi più delicati e difficili…giovani come il sig. Isacco Artom, di religione diversa, ma d’ingegno singolare e precoce, di zelo instancabile, di carattere aureo….La pubblica opinione farà giustizia di ignobili attacchi per parte di coloro che rimpiangono i tempi in cui la diversità di culto bastava per allontanare dai pubblici uffici i giovani i più istruiti e i più capaci”.
Con l’unificazione d’Italia la nuova borghesia ebraica, colta e preparata, entrerà a far parte della vita pubblica in tutte quelle città per la cui libertà si era tenacemente battuta. In Ancona, oltre a tanti chiamati ad assumere incarichi di responsabilità, vennero eletti nel consiglio comunale Elia Mondolfo ed Eugenio Levi, poi nel 1869 Gioacchino Terni è chiamato alla presidenza della Camera di Commercio.
A Pergola avviano industrie, e si fanno pionieri di una moderna agricoltura e Astorre Camerini diventerà sindaco della città.
Urbino aveva visto arruolati nella Guardia Civica ben sette ebrei, Cesare Bemporad, Guglielmo Coen, Napoleone Sinigallia, Giuseppe Perugia, Masetto Coen, Isacco Viterbo e Lazzaro Moscati. Questi ultimi due, giovanissimi, diventeranno cognati sposando le sorelle Fiorentini il cui congiunto Gioacchino, collaborando col commissario governativo Lorenzo Valerio, finanzierà la creazione dell’Asilo di infanzia e la trasformazione del convento dei Cappuccini in “Ospizio per i vecchi”, come ricorda la lapide affissa all’ingresso della chiesa, e alla sua morte, destinerà ad entrambe le istituzioni, oltre che alla Congregazione di Carità, un cospicuo lascito. Altrettanto farà il nipote Cav Angelo Moscati che farà dono alla città del colle su cui sorge la chiesetta di Loreto, per commemorare i caduti della Grande Guerra.
Nel primo Consiglio Comunale di Urbino saranno tre gli ebrei eletti con oltre ottanta voti, quando gli ebrei elettori erano soltanto ventotto: Alessandro Coen, Placido Coen e Giuseppe Coen .
Placido Coen di Angelo. verrà rieletto ininterrottamente sino quasi alla morte avvenuta nel 1921, oltre che negli altri consigli di tutte le maggiori istituzioni cittadine. All’epoca era noto in città che sua moglie, Allegra Usiglio di Modena era la nipote di quell’Angelo Usiglio amico e collaboratore di Giuseppe Mazzini con cui aveva diviso ideali ed esilio.
Giuseppe Coen di Abramo Israel., che aveva creato una conceria in località Le Conce, alle porte di Urbino, era così amato dalla popolazione urbinate che per lui venne coniato il proverbio “Accident a un ricc salvand Peppin Coen”. Alla sua morte Il Corriere Metaurense gli dedica una pagina ricordando che aveva “efficacemente cooperato in Urbino ad affrettare i tempi nuovi…e parole di lode, tanto più che di uomini di questa fatta par che si vada perdendo lo stampo”
In quanto ad Alessandro di Felice., oltre che stimato in Urbino, riceverà il 5 dicembre 1861 come “benemerito alla causa italiana” per il suo generoso impegno, la cittadinanza onoraria della vicina Urbania, per sé e per la sua discendenza..
Di Pesaro, oltre la già ricordata Vittoria della Ripa, sostegno morale ed economico delle imprese di Garibaldi, fu anche Sara Levi, fervente mazziniana, figlia di Angelo Levi e di Rebecca Rosselli di Livorno, andata sposa a Meyer Nathan che accolse generosamente nella sua casa di Londra tanti patrioti italiani costretti all’esilio come Aurelio Saffi, Maurizio Quadrio e lo stesso Giuseppe Mazzini e l’Usiglio.
Qualche anno dopo la sua morte, venne apposta una lapide sulla casa che era stata dei Levi, a Pesaro in via del Ghetto Grande. In quell’occasione per la prima volta il figlio di Sara, Ernesto Nathan, è presente in città e, nell’89, nonostante fosse di nazionalità inglese, ma grazie al conferimento della “cittadinanza onoraria” potè essere eletto nel Consiglio Provinciale di Pesaro- Urbino.
Lo vollero anche sindaco di Roma e perché questo fosse possibile essendo egli straniero, gli venne conferita la “Grande nazionalità” con una legge appositamente approvata dalla Camera dei Deputati il 9 febbraio 1888. A detta degli storici fu uno dei migliori sindaci che Roma abbia mai avuto.
Curioso il commento di papa Pio X nell’apprendere la notizia dell’elezione di Nathan a sindaco di Roma: “Se non fosse massone, sarebbe meglio degli altri”,- “Ma Santo Padre, è israelita !!!”- ribattè l’informatore scandalizzato, e il Papa di rimando :-“Si, ma è un galantuomo”.
Jannette, un’altra dei nove figli di Sara Levi, andata sposa ad un Rosselli di Livorno accoglierà nella sua casa di Pisa Giuseppe Mazzini, ritornato in Italia sotto falso nome, e lo assisterà fino alla morte avvenuta il 10 marzo 1872.
L’ideale repubblicano e libertario della grande Sara e dei Rosselli sarà l’eredità raccolta cento anni dopo da Carlo e Nello Rosselli, fondatori di Giustizia e Libertà, sfociato poi nel Partito d’Azione. Sotto la dittatura fascista, daranno il loro tributo di sangue alla Patria. Oggi a Sara Levi è dedicata la sala del Consiglio della Provincia di Pesaro Urbino.
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Anche il modenese Angelo Fortunato Formìggini, geniale e raffinato editore di tanti lavori letterari compresa la “Rivista di Filosofia”, organo ufficiale della Società Filosofica Italiana, discendente da una famiglia di patrioti dei moti modenesi a partire da quel Mosé Formiggini deputato al Congresso Cispadano e da Salomon Formiggini eroe nella battaglia di San Martino, anch’egli pagò con la vita l’opposizione al regime fascista.
Il 29 novembre 1938, per protestare contro le Leggi Razziali, salì sulla cima della Ghirlandina e si gettò nel vuoto, ebbe il tempo di gridare tre volte “Italia” prima di schiantarsi a terra.
Sperava col suo gesto disperato, di svegliare le coscienze, ma la stampa non diffuse la notizia, era proibito parlare di suicidi, tanto meno di un ebreo.
Solo Storace, segretario del partito fascista, commentò: “E’ morto proprio come un ebreo, si è buttato dalla torre per risparmiare un colpo di pistola”.
Così l’Italia fascista ripagò gli italiani ebrei che tanto si erano prodigati per fare l’Italia Unita e Democratica.
di Maria Luisa Moscati Benigni
Bibliografia:
A.Cavaglion, Una famiglia ebraica tra Risorgimento e Resistenza, in La Rassegna Mensile, n1,1998
G.Bedarida, Gli Ebrei e il Risorgimento Italiano, in La Rassegna Mensile di Israel, n7-8, 1961
R. Mulinelli, Urbino 1860, S.T.E.U., 1961
Il Corriere Metaurense, anno VIII, n.5, 1892.
Il Corriere Metaurense, Urbino n.29, 1898
S. Foà, Gli Ebrei nel Risorgimento italiano, Carucci editore, 1978
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