di Renato Coen, da Tel Aviv
Il veto del rabbino capo di Zfat. Un editto sottoscritto da altri 300 rabbini di tutto il Paese. E scatta la proibizione di affittare case agli arabi-israeliani. Mentre parte dell’opinione pubblica si lascia scivolare nell’indifferenza, ovunque si grida alla condanna e al razzismo. Ma è davvero così? Lo abbiamo chiesto a Menachem Klein, opinion maker, professore di punta dell’Università di Bar Ilan.
Razzisti e xenofobi, così o con altri sinonimi possono essere defniti i trecento rabbini israeliani che hanno sottoscritto un documento in cui vietano agli ebrei di vendere o affttare case a chi non è della loro religione. Siamo purtroppo abituati dalla storia e dall’attualità a vedere quanto i religiosi, di ogni credo, siano spesso intolleranti e poco democratici, ma è comunque doloroso constatarlo a casa propria. Ma tant’è. Il rabbino di Zfat e i suoi seguaci hanno criticato aspramente il fatto che un vecchio ebreo abbia affttato la sua casa a degli studenti arabi, e in poche settimane tanti colleghi rabbini gli sono andati dietro. Zfat, splendido capoluogo della Galiliea, è da tempo nota non solo per le sue scuole di Qabbalah, per l’atmosfera e l’ambiente mistico che la circonda, ma anche per l’estremismo dei suoi abitanti ultraortodossi, spesso razzisti nei confronti dei loro vicini arabi. Il problema ora è che la piccola città santa non sembra essere un’eccezione in Israele.La pubblicazione dell’editto rabbinico razzista ha causato polemiche all’interno del mondo ebraico internazionale, che ha condannato i trecento rabbini, e molte critiche anche all’interno d’Israele dove, alla dura condanna del presidente Shimon Peres, si sono aggiunte, un po’ tardivamente, quelle del premier ed altri membri del governo.Ma a metà dicembre un sondaggio pubblicato dal quotidiano Yediot Haharonot ha indicato che il problema della xenofobia non riguarda solo un gruppo, seppur folto, di rabbini estremisti, ma la società israeliana in generale. Il 55% degli intervistati ha dichiarato di approvare il divieto a vendere e affttare case a non ebrei. Tra gli haredim la percentuale sale all’88% e raggiunge il 65% tra gli ebrei religiosi o tradizionalisti. Solo tra gli israeliani totalmente laici la maggioranza, il 59%, è contraria al bando dei non ebrei.“La cosa scioccante secondo me è stata proprio la reazione della politica e dell’intera società israeliana”; a parlare è Menachem Klein, professore di Scienze politiche all’Università di Bar Ilan, intellettuale di punta e opinion maker, ebreo tradizionalista che si batte con i suoi libri e i suoi articoli contro la deriva razzista e xenofoba che rischia di prendere lo Stato ebraico. “Primo -spiega Klein-, bisogna sottolineare che Netanyahu non ha immediatamente condannato l’episodio. Ha aspettato di vedere che la cosa non gli creasse politicamente dei problemi. Poi, quando ha capito che lo scandalo si allargava, allora ha parlato. Secondo, nessuno dell’apparato di sicurezza israeliano è andato a Zfat a parlare con gli studenti arabi che hanno affttato la casa per capire se hanno subito attacchi, intimidazioni, pressioni. Quando capitano episodi opposti, ad esempio a Jaffa, se nuovi residenti ebrei denunciano intimidazioni da parte dei vecchi abitanti arabi, subito si precipita lo Shin Bet, inizia a interrogare gli arabi e a raccogliere le testimonianze dei nuovi arrivati. Invece in questo caso, nessuno si è preoccupato degli studenti arabi, che ricordiamolo, sono israeliani, non nuovi immigrati. Terzo -conclude Klein-, l’opinione pubblica israeliana, come al solito, è apparsa totalmente indifferente. Non sarà bello da dire, ma la gente dimostra di non avere alcuna sensibilità in proposito (e il sondaggio lo dimostra. ndr). Gli israeliani si sono preoccupati del documento dei trecento rabbini solo quando hanno visto che la notizia aveva suscitato aspre reazioni all’estero. La gente si preoccupa della brutta fgura di fronte agli altri, non del fatto in sé. Della discriminazione di altri israeliani che appartengono a etnie o religioni diverse non gli importa molto”, termina Klein.
Nazionalità o religione?
In questo inverno che ha portato tempesta anche in Israele, basterebbe, in effetti, fare un giro proprio nella Galilea per rendersi conto della differenza tra i mezzi e le infrastrutture a disposizione dei centri abitati ebraici e di quelli di cui sono dotati cittadine e villaggi arabi israeliani, dove dopo due giorni di forti piogge sono straripati canali di scolo e fognature che hanno allagato le strade e i negozi. Il tutto senza che la cosa creasse alcuno scandalo. “Non c’è dubbio che anche dal punto di vista delle infrastrutture gli arabi israeliani siano fortemente svantaggiati e discriminati rispetto ai loro connazionali ebrei -spiega il religioso tradizionalista Klein-. Il problema però qui è alla radice, ed è molto serio e preoccupante. In Israele il concetto di nazionalità non vale quasi nulla. Ciò che è importante nella società di questo paese è l’appartenenza religiosa, od etnica. Se sei ebreo, se fai parte della maggioranza ebraica, tutto ti è garantito e concesso, hai pieni ed incontestabili diritti. Se invece sei arabo o altro, tutto è in discussione, bisogna vedere come ti comporti. Non hai diritti a priori, inalienabili.
Il concetto di cittadinanza in Israele è molto più debole di quanto non lo sia negli altri Paesi di diritto liberali d’Europa o in America”. Chiediamo al professore di provare a spiegare il perché di un simile fenomeno.
Dipende tutto dal conflitto col mondo arabo? Come è possibile che Israele mostri debolezze così grandi quando, dal lato opposto, è uno Stato che ha livelli altissimi di libertà di stampa, di tolleranza di costumi, di sviluppo tecnologico. “Il problema -sostiene Klein-, è che c’è un contrasto enorme tra il concetto di cittadinanza che è un’idea da Stato liberale e quello di ebraicità, che è propria di uno Stato etnico. Israele vuole essere al contempo uno Stato democratico e liberale e anche uno Stato ebraico. Ma ciò alla lunga si rivela molto difficile. E quando ci sono situazioni di conflitto, i cittadini, la società in generale, tendono a sottolineare l’aspetto etnico della loro nazione dando meno peso ai valori liberali e democratici. In tutti i Paesi occidentali chi non è cittadino ha meno diritti e subisce più discriminazioni, qui in Israele invece capita a chi non è ebreo, pur essendo cittadino”.
Sionismo e democrazia
Una simile concezione di cittadinanza sta causando veri e propri paradossi.
Diversi centri abitati israeliani rifiutano nuovi residenti non ebrei a meno che essi non si impegnino a dirsi fedeli ai valori del sionismo e della democrazia.
Di fatto discriminano e segregano altri concittadini per motivi etnici, in nome dei valori democratici. “Credo -conclude Klein-, che un elemento di grande forza del popolo ebraico, durante la diaspora, sia sempre stato quello di interagire con l’esterno, con le culture che lo circondavano.
Ciò ha consentito agli ebrei di esprimere personalità di altissimo livello che hanno fatto la storia della cultura europea e mi riferisco anche a religiosi come Shmuel David Luzzatto, senza arrivare ad Einstein, Freud ecc.
Qui in Israele invece ora è come se vivessimo in un grande ghetto, solo tra ebrei, circondati da arabi ostili. E i risultati si vedono. È per questo che abbiamo un grande bisogno della presenza degli ebrei nella diaspora, della loro capacità di interagire con l’esterno e di ricondurci ai veri valori liberali e democratici”.