di Ilaria Myr
Oskar Tanzer, 90 anni, riuscì a salvarsi, con la sua famiglia, grazie all’aiuto dell’intero paesino di Bozzolo, nel mantovano. Fu soprattutto Don Primo Mazzolari, il parroco, che dettò la linea di comportamento per salvare gli ebrei
«La mia è una storia di salvezza in mezzo a un uragano, da cui io e la mia famiglia siamo usciti sani e salvi. Spesso mi domando come mai sia andata così, e la mia unica risposta è: siamo stati immensamente fortunati. Sono un sopravvissuto, sono un testimone: non dei campi, ma della persecuzione». Parla con estrema lucidità e pacatezza Oskar Tänzer, 90 anni nascosti dietro alle sembianze di un settantenne, con la memoria ancora fresca di un ragazzino. E la fortuna di cui mi parla, nella sua casa di Dovera, nel cremasco, è quella di avere incontrato durante la guerra, nel paese di Bozzolo (Mantova), persone che non cedettero alla logica della violenza: quei Giusti che oggi è doveroso ricordare come esempio di umanità. La sua storia è raccontata anche nel documentario Una piccola inestimabile memoria uscito su Rai Storia, presentato lo scorso 13 settembre a Bozzolo nella piazza principale del paese, durante una cerimonia partecipata e commovente.
Oskar nasce nel 1926 a Saarbrücken, all’epoca ancora parte della Francia come La Sarre: solo nel 1936 la città, situata fra la Linea Maginot e la Linea Sigfrido, diventa tedesca, ma di fatto lo è già da tempo. «Per gli ebrei i problemi sarebbero dovuti iniziare più tardi, essendo in territorio francese, ma la solidarietà della gente con la Germania era tale che ormai la Francia era fuori gioco – spiega Oskar Tänzer -. Nel 1933 vengo espulso dalla scuola in quanto ebreo: ho solo 7 anni. Da un giorno all’altro quelli che erano gli amici con cui giocavamo nelle strade non ci salutavano più». Giorno dopo giorno le limitazioni per gli ebrei si inaspriscono, fino a quando, nel’36, diventa ormai chiaro per la famiglia di Oskar che bisogna scappare. «L’Italia era l’unico posto dove ci avrebbero accettati – spiega -. Siamo scappati di casa con solo quello che avevamo addosso, lasciando la chiave nella porta e tutto quello che possedevamo».
Agli inizi di febbraio Oskar, i suoi genitori e i due fratelli, Emil e Max, arrivano a Milano, dove iniziano una nuova vita. Paragonata a Saarbrücken, piccola città incastonata in mezzo ai boschi, Milano è enorme agli occhi di Oskar e dei sui fratelli. I genitori prendono in affitto una stanza in corso Buenos Aires, e i ragazzi cominciano ad andare a scuola. «Mi hanno messo in quarta elementare grazie alla mia ottima memoria – racconta -, ma io non parlavo una parola d’italiano! Sapevo solo dire “Buongiorno” e “Buenos Aires”, la via in cui abitavo».
Le Leggi razziali del 1938, però, interrompono la precaria tranquillità che la famiglia Tänzer è riuscita a ricostruirsi: i tre fratelli vengono espulsi dalla scuola pubblica e vanno a frequentare quella ebraica di via Eupili. «“Ci risiamo”, mi sono detto. Anche qui, da un giorno all’altro gli amici ci hanno voltato le spalle ed è iniziato un graduale isolamento. Avevo quasi 12 anni, ero maturo per capire».
Una notte, poi, la polizia irrompe a casa sua e porta il padre a San Vittore, dove rimarrà un mese e mezzo, per poi essere trasferito al campo di Ferramonti di Tarsia, in Calabria. Il pericolo cresce. I tre fratelli intanto si inventano un lavoro con cui guadagnare un po’ di soldi: recuperare gli scarti dai pellicciai e confezionare con questi altre pellicce. Il lavoro ingrana e i clienti crescono.
Ma la guerra continua, i bombardamenti si infittiscono e le notti passate in cantina sono ormai la regola. Un lavoratore del laboratorio di pellicce, che ha la famiglia a Bozzolo, consiglia loro di trasferirsi lì. Bozzolo è il paese che accoglie i profughi e rifugiati e dove già dai tempi dei Gonzaga vive una folta comunità ebraica. Ma è soprattutto il paese di Don Primo Mazzolari, parroco appassionato che durante la guerra si impegna in prima persona per accogliere le persone in difficoltà. Sue le parole: “il cristiano non deve estraniarsi dal proprio ambito con il pretesto di salvare la propria anima”. Nella piccola cittadina inizia per i Tänzer un periodo tranquillo. Prendono in affitto una casa con due stanze, in via Mazzini 71 (oggi via Matteotti 73) senz’acqua e toilette, ma c’è quanto basta per ricominciare a vivere. «Ci sentivamo al sicuro, non c’erano i rumori della guerra, potevamo vivere normalmente. Riuscimmo anche a fare tornare papà dal confino da Ferramonti, e così eravamo tutti insieme». Una curiosità: dietro alla casa c’era un grande prato, che Oskar spesso si fermava a guardare, perdendosi nei suoi pensieri. «Anni dopo ho scoperto che proprio lì, fino al Settecento, c’era un cimitero ebraico». Addirittura, la famiglia riesce a portare avanti le tradizioni ebraiche, come andare a macellare le galline a Mantova, o perfino fare il Seder di Pesach, invitando anche qualche abitante del paese. «Tutti sapevano che eravamo ebrei, anche la padrona di casa che ci affittava l’appartamento, ma mai nessuno ci ha denunciato».
Una sera però, verso la fine di ottobre del 1943, don Primo Mazzolari, il podestà Giovanni Rosa e il maresciallo dei Carabinieri Antonio Sartori bussano alla porta dei Tänzer. Il podestà ha avuto l’ordine da Mantova di segnalare gli ebrei residenti nel paese. «Ci disse: “da oggi mi do per malato per tre giorni: avete questo tempo per nascondervi o fuggire. Poi sarà il mio sostituto a doversi occupare della questione”». Oskar parte subito per Milano per raccattare i soldi in casa per le necessità, e lì accade qualcosa di molto particolare: la portinaia gli consegna un messaggio in yiddish lasciato da una ragazza, che dice “seguila che ti porterà in salvezza”. «Il suo ragazzo era una guardia di frontiera svizzera, e ci mettemmo d’accordo su come far passare la mia famiglia facendo un buco nella rete – continua Oskar -. Tornai a Bozzolo e subito partimmo tutti, perché papà aveva giudicato che così avremmo rischiato solo la nostra vita e non quella di chi ci avrebbe ospitato. Passammo per Milano, dove ormai i fascisti erano sulle nostre tracce: un membro della X Mas venne a prenderci, ma io e i miei fratelli lo disarmammo e stavamo per ucciderlo. Fu la mamma a dirci “Non uccidetelo”, e lo lasciammo libero. Avevamo pochi istanti per fuggire dall’appartamento e confonderci fra la gente in strada».
Arrivati a Ponte Chiasso come convenuto passano il confine da un buco nella rete. Ma una guardia svizzera li porta in un locale dove ci sono altre persone. «Un ufficiale ci disse: “Ho ordini precisi di non accettarvi, siamo pieni. O tornate dalla strada da cui siete arrivati, oppure vi riportiamo al confine dove vi aspettano i tedeschi” – racconta -. E qui la fortuna ci venne ancora in soccorso. La mamma dalla porta a vetri vide un conoscente che passava davanti alla porta: lei picchiò sulla porta a vetri, e lui capì. Mezz’ora dopo ci avevano accettati in Svizzera. Molti però non hanno avuto la nostra fortuna».
Dopo la guerra Oskar e famiglia tonano a Milano, e si ricostruiscono una nuova vita. Purtroppo sono i soli della famiglia a tornare vivi. La famiglia frequenta via Unione, dove si raccolgono i sopravvissuti della guerra. In questo periodo il padre costituisce anche un fondo di aiuti per i sopravvissuti. «La cassa serviva ad aiutare chi non aveva niente, con la promessa che, una volta migliorata la propria situazione economica, avrebbe restituito la somma, in modo che servisse ad altri». Nel ‘48 Oskar segue la nascita dello Stato d’Israele: «Eravamo tutti felici, ma anche così intimoriti per la sorte del nuovo Stato, circondato solo da Paesi nemici». Qualche anno dopo prende una decisione: fare una scuola di volo e andare in Israele. Ma un incidente lo costringe per molto tempo a letto, e sfuma così il suo sogno.
Nascono poi i due figli, Denise e Benny, a cui nel tempo man mano racconta la sua storia, consapevole di essere stato salvato da persone uniche: fra tutti Don Primo Mazzolari, il cui processo di beatificazione è attualmente in corso e per il quale Oskar ha chiesto allo Yad Vashem il riconoscimento di Giusto fra le Nazioni. «La richiesta è stata però rifiutata perché dicono che questo titolo viene dato solo a chi ha messo concretamente in pericolo la propria vita salvando degli ebrei, mentre in questo caso per loro fu diverso – commenta Oskar -. Lui però, insieme a Giovanni Rosa e al podestà Sartori ci salvò davvero la vita. Se non fossero venuti ad avvisarci, saremmo rimasti lì, e ci avrebbero presi. Ho anche scritto al Vaticano la mia storia, e spero che ciò aiuti nel processo di riconoscimento di Giusto».
Ma ciò che preme a Oskar oggi è raccontare ai giovani che cosa successe in quei terribili anni, e come delle persone misero in pericolo la propria vita per salvare degli ebrei. Oskar lo fa spesso con le scuole e con altre realtà che vogliono divulgare la sua storia. Ma soprattutto lo ha fatto con suo nipote David, che gli ha chiesto di raccontargli la storia della sua famiglia e di portarlo a Saarbrücken e a Bozzolo, per vedere i luoghi della sua vita. «Quando ho detto che volevo entrare in una Chiesa, mio nipote non capiva. Ma quando mi hanno visto davanti alla tomba di don Primo Mazzolari hanno capito, e non volevano più venire via».