di Davide Romano
Riunione di famiglia, due genitori si rivolgono ai propri figli: «Questo Paese non è più vivibile per noi ebrei, – abbiamo deciso che è tempo di andare via». Questa terribile scena si è ripetuta tante, troppe volte nel corso della storia del popolo ebraico. All’alba del ventunesimo secolo, in pochi avrebbero pensato potesse accadere di nuovo. Incredibilmente invece, queste situazioni che ci auguravamo fossero consegnate alla storia, tornano oggi sotto forma di drammatica cronaca in alcuni Stati della civilissima e democratica Europa.
Ma cosa spinge gli ebrei di oggi a lasciare le proprie case, il proprio lavoro, la scuola dei figli, gli amici e i parenti, per andare a vivere in Israele? Anzi, visti i continui attacchi subiti dallo Stato ebraico, la domanda può essere formulata in maniera ancora più terribile: perché gli ebrei francesi o belgi preferiscono lasciare il luogo dove sono nati e cresciuti per andare in Israele, e diventare un possibile bersaglio delle periodiche aggressioni di Hamas e Hezbollah? La risposta sta in più fattori. In primo luogo, il presente: il clima sociale in diversi Paesi europei è evidentemente cambiato in peggio e le comunità ebraiche si sentono nel mirino. Basta pensare alle recenti manifestazioni anti-israeliane colme di violenza che in varie città europee hanno come obiettivo le sinagoghe (a conferma che la teorica differenza tra antisionismo e antisemitismo è assai labile), o alle vere e proprie aggressioni fisiche nei confronti di cittadini di fede ebraica. Se a questo sommiamo i diversi attentati a centri ebraici (a cui andrebbero aggiunti quelli sventati, di cui si perde inevitabilmente memoria), ne emerge un quadro di giustificato allarme. Un altro fattore determinante è relativo al futuro che non sembra offrire speranze di miglioramenti, anzi.
Tutti questi problemi toccano diversi Paesi del nostro continente, dalla Germania alla Svezia, ma una particolare gravità va riconosciuta alla Francia, su cui ci concentreremo. Il Crif (Consiglio delle istituzioni ebraiche francesi),ha denunciato in un comunicato raggelante del 12 settembre scorso come gli atti di antisemitismo nella terra dei lumi siano raddoppiati nei primi sei mesi del 2014, 527 episodi gravi contro i 276 dell’anno 2013, una crescita del 91 per cento. E anche l’Anti-Defamation League ha recentemente pubblicato una ricerca sull’antisemitismo nel mondo. Se all’interno dell’Unione Europea il livello di popolazione antisemita è pari in media al 24%, la Francia raggiunge l’inquietante cifra del 37%. Seconda solo alla Grecia (69%), che non a caso ha portato in Parlamento i neonazisti di Alba Dorata. In questa ricerca, per la cronaca, il nostro Paese si ferma al 20%, quindi al di sotto della media continentale. È bene ricordare come questi dati siano stati raccolti prima del recente conflitto tra Hamas e Israele, che ha con ogni probabilità peggiorato la situazione.
Qualcuno potrebbe obiettare che i dati sono eccessivamente pessimisti. Ma anche a leggere i dati dall’opposta angolazione, i risultati non cambiano. Secondo un sondaggio realizzato dall’organizzazione sefardita francese Siona, il 74,2% degli ebrei d’oltralpe sta prendendo in considerazione l’idea di emigrare. Riguardo al futuro, ben il 57,5% ha dichiarato che “non c’è futuro per gli ebrei in Francia”, mentre solo il 30,6% ha manifestato ancora fiducia nel proprio Paese. Questi sondaggi trovano un riscontro nella realtà da fonti dell’Agenzia Ebraica: se nel 2013 il numero di ebrei emigrati in Israele dalla Francia era arrivato a 2.904 (il 175% in più rispetto all’anno precedente), si prevede che nel 2014 la cifra si attesterà ben oltre la quota di 5 mila. Qualche cocciuto negatore della realtà potrebbe dubitare di questi dati, ipotizzando che si tratti di una sorta di isteria collettiva ebraica che vede antisemiti ovunque. A questi inguaribili ottimisti, in buona o cattiva fede, non resta che presentare i dati del Ministero degli Interni francese relativi al 2013 (ben prima dell’operazione “margine di protezione”). Tra tutte le azioni razziste, quelle di natura antisemita ammontano al 40%, sebbene gli ebrei rappresentino solo l’1% della popolazione francese. Gli atti antisemiti sono stati 423, di cui 105 a contenuto violento (50 aggressioni personali e 55 tra incendi o vandalismi vari). Ben oltre uno al giorno, senza contare quelli non denunciati alle autorità. Per intenderci: se fino al 2000 gli atti antisemiti di varia natura erano nell’ordine dell’ottantina all’anno, dall’anno 2000 le statistiche riportano cifre che non scendono mai sotto i 400, e in alcuni anni arrivano a toccare i 900. Dal 2010 a oggi l’agghiacciante bilancio degli ebrei uccisi è arrivato a quota 8. L’evento più sanguinoso è stato senz’altro la strage del 2012 alla scuola ebraica di Tolosa, dove il franco-algerino Mohammed Merah uccise un insegnante e tre bambini dell’età di tre, sei e otto anni. Nel tragico conteggio non rientra peraltro, per motivi cronologici, il terribile omicidio del giovane parigino Ilan Halimi, avvenuto nel 2006. Il 24enne fu sequestrato dalla “banda dei barbari” in quanto ebreo, e sottoposto per 24 giorni a torture indicibili che ne provocarono la morte. Pur essendo di famiglia povera, Ilan ha pagato le convinzioni del capobanda Youssouf Fofana, che era dogmaticamente convinto che “gli ebrei hanno i soldi e sono solidali tra loro”. E neppure la strage al museo ebraico di Bruxelles di quest’anno rientra, per motivi geografici, nel conto degli otto ebrei assassinati. Sebbene sia stata opera del franco-algerino Mehdi Nemmouche.
UN ODIO ANTICO
Da dove viene tutto questo odio antiebraico in quella che una volta era chiamata la “terra dei lumi”? Principalmente da tre fattori. Il primo è quello della vera e propria cultura antisemita moderna di cui la Francia è storicamente detentrice. Contrariamente all’Italia infatti, i nostri cugini d’oltralpe hanno avuto degli intellettuali antisemiti di notevole spessore culturale, provenienti da destra come da sinistra, appartenenti sia al mondo cristiano che a quello laico: Joseph de Maistre, Céline, Voltaire (compreso il suo Dizionario Filosofico), Proudhon e Lassalle. Non dobbiamo inoltre dimenticare vere e proprie riviste e movimenti d’opinione dedicati all’antigiudaismo, come La libre parole o la Lega antisemita, che alla fine dell’800 hanno contribuito ad alimentare l’odio antiebraico anche durante il caso Dreyfus: all’epoca, non dimentichiamolo, il povero Emile Zola autore del celebre J’Accuse non poteva uscire per strada senza essere fatto oggetto di sputi e minacce. Proprio al Caso Dreyfus, il regista Roman Polanski dedicherà il suo prossimo film, talmente preoccupato dalla situazione da sentire la necessità di ricordare ai francesi i loro scheletri nell’armadio.
È doveroso ricordare, inoltre, che Theodor Herzl iniziò a concepire l’idea di fondare uno Stato Ebraico come rimedio alle persecuzioni, proprio assistendo al processo all’ufficiale ebreo e alla violenta propaganda antisemita che lo circondava. A conferma del carattere profondamente culturale dell’antisemitismo francese, ricordo tristemente quando, durante una visita a Parigi nei primi anni del 2000, ebbi modo di imbattermi per strada in una libreria che disponeva un amplissimo settore di testi antisemiti. Ricordiamo inoltre che la Francia i suoi conti con le persecuzioni antiebraiche ha iniziato a farli con gravissimo ritardo: si dovette infatti aspettare fino al 1995 per sentire un chiaro mea culpa dello Stato francese in merito alla retata dei 13mila ebrei al Velodromo d’Inverno. Un atto il cui merito va riconosciuto per intero alla presidenza Chirac, che ruppe un lunghissimo e vergognoso silenzio che durò dal Dopoguerra fino al suo predecessore socialista, Mitterrand compreso.
Un secondo importante fattore di crescita dell’antisemitismo in Francia è legato alla crisi economica. Come la storia insegna, essa crea frustrazione nella popolazione, la quale poi sente l’esigenza di trovare capri espiatori. Nel diluvio di teorie complottiste che si possono sentire nei comizi o sui media dove spesso e volentieri si urla contro i banchieri, la massoneria, le lobby, i rappresentanti di queste organizzazioni vengono spesso raffigurati con sembianze riconducibili allo stereotipo ebraico degli antisemiti: con naso adunco, avidi di denaro e altre suggestioni di chiara matrice antigiudaica. Tali immagini vengono diffuse nei diversi ambienti estremisti, religiosi (sia islamici che cristiani) e politici (in maniera trasversale da destra come da sinistra). Tutti questi gruppi di fanatici trovano nel mondo ebraico un nemico comune, considerandolo causa di tutti i mali.
Un terzo fattore è la presenza di una forte comunità arabo-islamica, che in Francia si aggira intorno ai 6 milioni di individui. Secondo la ricerca della Anti-Defamation League, nel Nord Africa le percentuali di popolazione antisemita superano il 70%. Un dato solo all’apparenza sorprendente. Si sente spesso raccontare di come un tempo gli ebrei del Maghreb andavano d’amore e d’accordo con i loro vicini di casa musulmani. Ciò accadeva anche tra famiglie ebree e cristiane in Francia o in Italia negli anni ’20 e ’30, ma questo non ha impedito le successive persecuzioni degli anni ’30 e ’40 in Europa. Purtroppo anche in Nord Africa questi legami interreligiosi si sono spezzati qualche anno dopo: negli anni ’50 e ’60 si sono diffusi i pogrom antiebraici che hanno dato luogo alla cacciata di più di 800 mila ebrei maghrebini dai propri Paesi. La cosa più tragica di questa gigantesca espulsione dal punto di vista storico è il suo legame con l’oggi. Se è vero che la maggioranza di questi ebrei sono arrivati in Francia per scappare dalle persecuzioni subite nel Maghreb, è anche vero che una parte dei loro persecutori li ha seguiti nello stesso Paese. Per questo non è affatto da escludere un’agghiacciante ipotesi: oggi, in Francia, il Mohammed che aggredisce il connazionale David, non fa altro che reiterare esattamente quello che in passato ha fatto suo nonno (a Tripoli o ad Algeri) al nonno di David. Una storia che tragicamente si ripete, insomma. E non solo per una grave mancanza di integrazione della comunità islamica in Francia, ma anche perché evidentemente l’islam francese non ha fatto i conti con le proprie responsabilità nelle persecuzioni antiebraiche avvenute un tempo nella madrepatria d’origine.
Siamo quindi di fronte a una storia che si ripete, e che non nasce all’improvviso – come qualcuno può pensare – a causa del conflitto mediorientale. A proposito di quest’ultimo, è doveroso registrare un altro elemento spesso sottovalutato: per decenni l’Europa ha pensato di potere esportare la pace tra arabi e israeliani senza affrontare il tema dell’antigiudaismo. Col risultato che nel frattempo erano proprio quell’odio antiebraico e quell’intolleranza per il diverso propagandati dai regimi arabi a essere importati nel nostro continente con i risultati che oggi vediamo. Come ha avuto modo di dire lo scrittore Marek Halter: «La benzina dell’odio è stata già versata ovunque, e adesso impregna ogni cosa. A questo punto, basta un fiammifero per scatenare un incendio devastante».
Il modello francese di integrazione
Multiculturalismo, un esperimento fallito?
Il modello francese di integrazione punta su lingua, tradizione e scuola come elemento fondamentale nella creazione dell’identità nazionale degli immigrati, cosa che fanno in maniera diversa anche altri Paesi. Rispetto agli altri modelli europei però, quello francese ha alcune peculiarità: innanzitutto afferma fortemente la propria tradizionale laicità arrivando a prevedere la cancellazione di qualunque grado di diversità culturale e religiosa espressa nello spazio pubblico. Come non ricordare, al riguardo, le note polemiche sul divieto di esposizione di qualunque simbolo religioso nelle scuole? C’è poi un altro tema, relativo ai diritti. Laddove in tutta Europa abbiamo commesso lo sbaglio di concedere diritti collettivi agli immigrati senza promuovere nel contempo la cultura dei diritti individuali, in Francia si è commesso un ulteriore errore. Pensando che gli imam fai-da-te equivalessero ai preti, che sono invece l’ultimo anello di una scala gerarchica ben ordinata e istituzionalizzata, si sono delegate loro funzioni improprie. Per esempio, concedendo loro il rinnovo dei visti o la distribuzione di alcuni servizi sociali. Così facendo, si sono portate le parti meno integrate del mondo maghrebino a contatto con moschee la cui funzione non era sempre quella di integrare e aiutare i giovani a progredire, anzi.
Gli imam più fanatici hanno approfittato di queste opportunità per predicare contro il modello di civiltà europeo basato sulla tolleranza e il dialogo, al fine di fare politica e di irretire e rinchiudere sempre più sotto la propria sfera di influenza queste masse di disperati. Fino alla creazione di veri e propri quartieri-ghetto, dove prevale la logica di clan ai danni di quella dello stato di diritto. Per intenderci: pensiamo se nei quartieri più poveri e disperati del sud Italia invece di avere quei preti che ci commuovono per il loro impegno sociale, avessimo dei predicatori fanatici che incitano alla rivolta contro lo Stato.
È facile immaginare quali sarebbero i risultati, o comunque spiegarsi meglio il motivo delle violente rivolte delle banlieu del 2005.