di Paolo Salom
Il virus è antico ma ancora persistente. Provoca cecità selettiva, distorsioni compulsive della realtà, stati ipnotici autolesionisti. Sembra immune a qualunque cura ma non presenta pericoli immediati alle persone che ne sono colpite. Talvolta passa da solo, altre si aggrava fino a costringere chi ne è colpito a isolarsi dalla sua comunità. La buona notizia è che alcuni soggetti ne sembrano immuni, anche se i contaminati vedono questi ultimi come i veri malati. Parliamo di una sindrome piuttosto comune nel lontano Occidente. Si chiama “proiezione immaginaria benigna”. I sintomi? Prendete una giornalista e intellettuale come Amira Haas, storica firma del quotidiano Haaretz (sì, sembra che la malattia arrivi anche dove gli anticorpi dovrebbero essere più potenti). In una sua recente rubrica, pubblicata da Internazionale, settimanale italiano che traduce il meglio dei giornali del mondo, Amira spiega come sia rimasta sorpresa dalla notizia che, sì, anche i militanti di Hamas si abbandonano alle torture e agli assassini senza processo. Il riferimento è al rapporto di Amnesty International che, per la prima volta, ha certificato le barbarie commesse a Gaza da “palestinesi contro palestinesi”. Scrive la Haas: “I 21 anni di governo dell’Autorità nazionale palestinese e gli 8 anni di governo di Hamas testimoniano che le vittime di tortura non sono immuni dalla tentazione di trasformarsi in torturatori”.
Già, capite a quale stadio di malattia si trova Amira Haas? Si è accorta, ma solo dopo aver letto uno “sconvolgente rapporto di Amnesty International”, che i palestinesi non sono soltanto delle vittime innocenti dell’occupazione israeliana. Ma, appena possono, applicano i metodi di governo che, ahimè, sono tipici nelle società arabe circostanti, almeno per quanto chi non è affetto da virus riesce a comprendere leggendo la sanguinosa e disperata cronaca delle guerre civili e non che devastano il Medio Oriente. Ma tornando al lontano Occidente, chi soffre di “proiezione immaginaria benigna” continua a vedere un mondo che non c’è. Un mondo pronto alla pace con Israele, solo che Israele lo voglia. Un mondo che, magari non arriverà al punto di “amare gli ebrei”, però senz’altro è disponibile a riconoscere confini e legittimità del loro Stato (senza chiamarlo ebraico, beninteso) il giorno e il momento in cui i soldati (barbari) di Tsahal rientreranno entro la linea verde (proprio quella che Abba Eban chiamò i confini di Auschwitz…). Ecco la visione dei malati incapaci (non per loro colpa) di vedere una realtà ben più feroce e (per ora) priva di soverchie speranze: non basterà una generazione per arrivare a quella pace (che anche i sani desiderano) dignitosa per tutti che sola potrà garantire un futuro a Israele come ai palestinesi.
E allora, chiedono i soggetti ancora in preda alla febbre buonista, quella che proietta sugli altri (soprattutto sui nemici) le proprie istanze e modalità di confronto, cosa altro rimane da fare? Come possiamo andare avanti di lutto in lutto? Non è forse meglio cedere e puntare sulla pace immediata? Non è un vantaggio per tutti dare ai palestinesi quanto chiedono e metterli alla prova? Questo è anche il leit motiv delle cancellerie del mondo (tranne rare eccezioni), è quanto gli Obama e le Mogherini chiedono insistentemente a Netanyahu o chiunque sia al governo a Gerusalemme. Più che chiederlo, lo pretendono. E non capiscono (loro che sono offuscati dalla stessa malattia) che la realtà non è tanto rosea. E avere uno Stato che sogna la distruzione di Israele in un futuro prossimo come vicino non è proprio la ricetta per una pace duratura. Dunque? Dunque meglio accettare la realtà, per quanto aspra, e ricordarsi di quando gli ebrei non avevano uno Stato indipendente: allora anche chi si accorgeva della tempesta in arrivo aveva poche possibilità di evitarla. Oggi, almeno, non è così.