di Angelo Pezzana
Chi invoca la fine di Israele non riflette abbastanza sul valore della sicurezza: il poter pregare in pace e raccoglimento sulle proprie sacre pietre, nessuno escluso.
A differenza di quanto avviene in Italia, dove quotidiani e settimanali non pubblicano mai le lettere che ricevono dai lettori se mettono in discussione la linea del giornale, in Israele avviene il contrario. Sono proprio le opinioni critiche dei lettori ad essere stampate nelle apposite rubriche, mentre sono quasi inesistenti i complimenti. Ci sono anche smentite o richieste di informazioni, ma la maggioranza esprime in vari modi disaccordo con un editoriale o le analisi riguardanti soprattutto la politica, che è, come tutti sanno, lo sport più praticato dagli israeliani. Sono questi gli argomenti che meglio esprimono il dissenso verso il giornale di cui però continuano ad essere affezionati lettori. Qualcuno sostiene che vedersi pubblicata la propria critica accresce la fedeltà del lettore che l’ha inviata, una interpretazione sicuramente più che accettabile. Tutti criticano e nessuno ha paura delle critiche.
Sappiamo tutti che il Premier Netanyahu è oggetto di malevola attenzione da parte di tanti israeliani, non solo da chi critica il governo – da troppi anni è alla guida del Paese e gli israeliani amano il cambiamento, si dice – eppure quando c’è da rinnovare la Knesset, Bibi fa il pieno di voti. Perché? Perché gli elettori non hanno dimenticato da quale parte politica provengono i paragoni tra Israele e i nazisti, chi è che diffama il Paese con accuse di apartheid e neo-colonialismo. Tutti sanno quanto, a volte, i media internazionali siano ormai allineati con la delegittimazione di Israele. Stare col BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) è una chiave in grado di aprire molte porte, non solo quelle della politica e delle istituzioni internazionali, dalla UE all’ONU, e oggi è in grado raggiungere un pubblico vasto e disponibile a manifestare contro qualsiasi avvenimento che abbia una qualche connessione con Israele.
Molti elettori riluttanti e anche critici verso Netanyahu, non riescono a dimenticare il silenzio che copre le responsabilità del mondo arabo, i media occidentali che evitano di scrivere che subito dopo il cessate il fuoco nella Guerra dei Sei Giorni, la risposta della Lega Araba fu “No al riconoscimento di Israele, No a qualsiasi negoziato, No alla pace”. Non è forse oggi molto più facile discutere sui territori “occupati” da Israele che non ricordare chi quella guerra aveva scatenato? C’è ancora qualcuno che crede ancora nello slogan “terra in cambio di pace”, ma pochissimi ricordano che Israele l’aveva già messo in pratica quando si ritirò da Gaza. All’epoca, la speranza di aver contribuito a creare una entità statuale indipendente e in pace con Israele, si trasformò subito in un incubo. Che dura tuttora. E allora, perché chi identifica la pace con la prosperità, il benessere, con la possibilità di incrementare gli affari, non riflette su ciò che potrebbe determinare la fine di Israele se venisse a mancare la sicurezza? Gli israeliani danno a questa parola l’importanza che merita, per questo sono più attenti ai fatti che alle ideologie. Perché non farlo anche noi? Dopotutto, oggi, se fiumane di pellegrini possono visitare il Santo Sepolcro in pace e raccoglimento non lo devono forse alla sicurezza che Israele riesce a garantire per tutti, nessuno escluso?