Iael Orvieto (Yad Vashem): “La Shoah è parte della coscienza di tutti”

Israele

di Jonathan Misrachi

Iael Nidam Orvieto, direttrice dell’International Institute for Holocaust Research dello Yad Vashem

“La Shoah deve diventare parte della coscienza umana a livello mondiale; insegnare e ricordare la Shoah è importante per costruire una società che sia più pronta ad affrontare il proprio passato e porsi domande difficili per il presente e il futuro”. Queste le parole rilasciate da Iael Nidam Orvieto, direttrice dell’International Institute for Holocaust Research dello Yad Vashem, Iael Orvieto, a Mosaico a margine del seminario per docenti organizzato dall’associazione Figli della Shoah e dallo Yad Vashem il 17 marzo.

Quali sono le principali sfide che un istituto di ricerca sulla Shoah ha oggi, a 70 anni dalla Shoah?
La memoria deve diventare necessaria agli occhi di molte società in tutto il mondo, anche se insieme a queste voci che vedono come necessaria e fondamentale la memoria, c’è anche chi non ne può più di riflettere su questa storia. È un dilemma, un processo con problemi e ostacoli, ma è indubbio che le società europee negli ultimi vent’anni siano sempre più aperte e si rendano conto che è necessario ricordare la Shoah.

Come si è evoluto, col tempo, il lavoro didattico e di ricerca in contesti diversi come quello italiano e quello israeliano?
La ricerca storica e l’educazione sono due piloni che accompagnano Yad Vashem dall’inizio della sua esperienza. La ricerca è alla base di qualsiasi lavoro e di tutto il lavoro di memoria. L’interesse di Israele c’è sempre stato essendo una nazione fondata da molti superstiti ed essendo la Shoah parte integrante dell’identità ebraica. Nei primi anni era impossibile trattare certi argomenti e c’era anche un processo di ricerca sbagliato sui colpevoli, poiché c’era chi cercava i colpevoli nel collaborazionismo (come lo Judenraat) o nella leadership ebraica come l’Yishuv. Il processo Eichmann non è stato il punto di cambiamento ma ha aiutato molto la società israeliana a capire quali sono le domande giuste da porsi.
Per quanto riguarda l’Italia, nei primi anni dopo la guerra, non c’era molta storiografia sull’argomento, la costituzione del CDEC nel 1965 porta una svolta e anche l’Italia comincia a trattare l’argomento della Shoah. Negli ultimi vent’anni c’è una nuova generazione di storici bravissimi che riescono a capire certi argomenti e darsi certe risposte, tutti aspetti molto problematici che richiedono coraggio.

Come si fa ad evitare il punto di saturazione per cui i ragazzi, in Italia come in Israele e in Europa arrivino al punto di non volere più sentirne parlare?
Bisogna ricordare e insegnare la Shoah pensando anche agli aspetti universali che essi trasmettono concentrandosi sui concetti sostanziali. La Shoah è un evento che deve essere ricordato e studiato per comprendere anche il presente e il futuro.

Non pensa che la Shoah abbia traumatizzato il popolo ebraico al punto di aver rovinato la sua essenza?
La storia ebraica è una storia di persecuzione, è un dato di fatto. Un’esperienza storica così traumatica potrebbe portare a una cultura di vittimismo ma se guardi in faccia la realtà del mondo ebraico vedi vitalità e positività. I superstiti che ritrovano la forza di vivere e riallacciarsi ai valori morali ne sono la dimostrazione. Il fatto che vi siano “sintomi” di un trauma è una reazione naturale e infatti c’è anche una piccola minoranza di sopravvissuti che non ce l’ha fatta psicologicamente ed è pieno di case di cura mentale in Israele per loro. Ma il popolo ebraico ha affrontato questo passato difficile in modo simile, parlando poco con la prima generazione che è venuta, i figli, e tanto con quella successiva, i nipoti, perché rappresentano la sicurezza di una vitalità che è continuata.

@jonnyMisra