Yehoshua: «Ai giovani dico, attenti a non perdere il senso morale»

Personaggi e Storie

di Fiona Diwan

Abraham B. Yehoshua
Abraham B. Yehoshua

Ottant’anni a dicembre, la prontezza di un giovanotto, una vita di coppia con Ika, sua moglie da sempre, ben più di un sodalizio, un legame profondo e quasi simbiotico (spesso è proprio lei, Ika, a rispondere alle domande, al suo posto, durante l’intervista, mentre lui le sorride e annuisce, complice. Non a caso il suo ultimo romanzo La comparsa, Einaudi, è dedicato proprio a lei). Verve e combattività, un successo condito da una sana dose di humour, di impegno civile e politico, tre figli e otto nipotini; tanta generosa cornucopia per uno scrittore che potrebbe essere candidato al Premio Nobel e che oggi è tra le voci più autorevoli d’Israele. A Milano per la prima edizione del Festival dei Diritti Umani e poi a Lugano, invitato dalla Fondazione Cukier Goldstein Goren e dalla sua Presidente Micaela Goren Monti per una lectio magistralis all’Università della Svizzera Italiana – Corriere del Ticino, Abraham B. Yehoshua ha la capacità di sorprenderci sempre: non indossa il proprio personaggio, non ripete mai lo stesso canovaccio di risposte (cosa piuttosto frequente in scrittori, artisti, attori…), accetta di entrare in relazione con chi lo intervista in modo spontaneo e non stereotipato.
Siamo a Lugano, Svizzera, una terrazza sul lago. Si parla di scrittura e letteratura, di politica, di impegno, delle contraddizioni della democrazia israeliana, la sola in tutto il Medioriente. L’intervista inizia in sordina, quasi una conversazione.
«Sì, è vero, siamo l’unica democrazia del Medioriente; ma la democrazia non è un attenuante, in suo nome si possono fare anche cose orribili, vedi il governo Bush in Iraq. Criticare il proprio governo è un dovere e non dobbiamo aver paura di farlo nemmeno nella golà, nella diaspora, pensando scioccamente che così facendo indeboliamo Israele o diamo altre armi in mano agli antisemiti. Non è facile essere ebrei nella diaspora, lo so, lo capisco. Voi, con la vostra doppia identità soffrite a causa della vostra doppiezza. Noi israeliani non abbiamo questo problema», spiega con vivacità Yehoshua. «Sostenere Israele è sacrosanto, aiutarlo economicamente è importante. Ma bisogna aiutarlo anche eticamente. E spesso gli ebrei della diaspora sono accecati o naif, specie rispetto alla politica di sostegno alle cosiddette colonie e ai mitnachalim. L’ebraismo americano è grandemente responsabile del deterioramento attuale. Mi spiego, anche col rischio di essere impopolare. Israele sta rischiando l’apartheid: due milioni di palestinesi mescolati ai coloni israeliani, il nostro esercito costretto non più a combattere in difesa del proprio Paese ma a fare da poliziotto, magari per scortare una classe di bambini che va a scuola di musica, il tutto nella West Bank. Ma le pare possibile? L’esercito non può diventare un corpo di polizia. Senza contare che ormai anche gente come me che credeva nella formula “due popoli-due Stati” capisce che la cosa oggi è irrealistica, impraticabile. Ormai l’unica soluzione rimasta è uno Stato binazionale, cosa che fa comodo più ai palestinesi che non a noi israeliani. E per tutto ciò chi dobbiamo ringraziare? L’ebraismo americano che sostiene la politica di Netanyahu. Come israeliano che gira il mondo, sono chiamato a un grande senso di responsabilità. E mi sento responsabile per Netanyahu. Grazie a lui avremo uno Stato binazionale, nell’interesse dei palestinesi e non a nostro vantaggio. Bel risultato. Ma vorrei essere ancora più chiaro: qui non si tratta della trita e banale divisione tra laici e religiosi, chilonim e datiim. Ho molti amici religiosi che la pensano come me. Loro, come me, trasecolano. Mai e poi mai avrei immaginato, un giorno, che avrei rischiato di non poter più sentire il canto di una donna perché considerato fonte di eccitazione del desiderio sessuale maschile, come credono alcuni religiosi. Ma vi rendete conto? Ho 80 anni, ho combattuto le guerre di questo Paese, ho servito nell’esercito, mai avrei pensato di arrivare a tanto; e la cosa triste è che questo tipo di atteggiamento si fa strada ovunque, nel mondo arabo, palestinese e israeliano. Le faccio un altro esempio: in passato, quando si inaugurava una nuova sessione alla Knesset, il Primo ministro si rivolgeva ai capi di Stato delle nazioni vicine auspicando la pace: tutto questo non esiste più, perché il mondo arabo è sprofondato nel caos, nella confusione.
Cosa pensa dell’ultima risoluzione Unesco che nega il legame del popolo d’Israele con Gerusalemme?
Mi scusi, ma a lei piacerebbe se davanti al Muro del Pianto arrivassero gruppi di arabi, muniti di Corano e tappetino, per pregare Allah? Se lo immagina? Non la prenderebbe bene, credo: un’offesa, una provocazione? Allo stesso modo, gli arabi si sentono offesi se alcuni fanatici religiosi voglio andare sul Monte del Tempio a pregare in ebraico davanti alla moschea di Al Aqsa. I tempi non sono ancora maturi per reciprocità e tolleranza. Penso che la risoluzione Unesco sia stata strumentale, un mezzo per porre un freno verso chi pensa di ricostruire il Terzo Tempio sulla spianata delle moschee.
Lei cosa propone? Israele si sta infilando in un vicolo cieco?
Il punto è fermare l’occupazione nei Territori. Oggi parlare di due Stati è diventato come parlare del Messia, qualcosa da rimandare alla fine dei tempi. Come si può pensare di stare a Gerusalemme senza trovare un accordo? Cercare di risolvere questa situazione è un dovere: vuol dire, ad esempio, pensare a una soluzione che preveda la nascita di una confederazione su modello svizzero o statunitense.
Come definirebbe il suo sentirsi ebreo e israeliano?
Mi sento israeliano al mille per mille, la mia famiglia vive qui da generazioni: se questo Paese venisse distrutto io non saprei più qual è il mio posto nel mondo. Nessuno dei miei figli ha lasciato Israele, sono grandi e vivono tutti qui. Penso che l’identità ebraica, da millenni, sia il passaporto più efficace che esista, noi ebrei possiamo sentirci a casa ovunque se c’è una casa ebraica e una comunità che ci apre le sue porte. L’identità risiede nella nostra testa e nel nostro cuore. Gli italiani d’America, in tre generazioni sono diventati americani. Lo stesso per gli ispanici. Noi no. C’è sempre un angolo della nostra testa che resta ostinatamente ebreo.
La considerano l’erede di S.Y. Agnon, premio Nobel e padre della letteratura israeliana contemporanea…
Amo Agnon con tutto me stesso, mi fa sempre piacere rileggerlo. Guardi, noi ebrei abbiamo un privilegio. Abbiamo “lavorato” con la religione e quel meraviglioso giacimento culturale che sono la Torà e il Talmud per più di duemila anni. Agnon lo sapeva. Sapeva come estrarre queste pepite, e ha intrecciato le sue storie con la vena aurea di questo giacimento, nella trama e nell’ordito di una meravigliosa tessitura spirituale. La scrittura, quella di Agnon come la mia, nasce dal desiderio universale di creare delle storie e di comprendere l’animo umano, di cercare una specie di significato. Per noi israeliani, un tempo, contemplava anche una missione politica.
Cosa pensa della nuova generazione di scrittori israeliani?
Non faccio nomi. Osservo che oggi, in Israele, i giovani scrittori sono molto attratti dal tema della Shoah. Spesso sono i nipoti e i bisnipoti dei sopravvissuti. Siamo ormai alla post memoria, alla terza, quarta generazione. Ed è come se quel trauma, quel dolore, non riuscisse a morire e trovasse nuove parole per emergere ed esprimersi, senza incontrare pace.
Noi scrittori abbiamo una responsabilità intellettuale, siamo una specie di ambasciatori di Israele nel mondo.
Netanyahu dice di volere due Stati ma poi non agisce perché in verità non lo vuole davvero, parla a vuoto. E così finisce che i nostri soldati devono fare la guardia ai coloni. Ma se sto facendo la guardia non sto più difendendo il mio Paese. Così non può più continuare. Il sistema temporaneo di occupazione ormai dura da troppo tempo. Dobbiamo stare attenti, non aver paura: la sinistra israeliana dovrebbe essere più combattiva. Israele rischia di perdere la sua coscienza e il suo senso morale.
Eppure non si direbbe. Israele sta vivendo una stagione di grande fermento…
Sì, è stupefacente. L’indiscusso fenomeno che sta rubando la scena a qualsiasi altro tema è la cultura. Un vero boom: film di qualità, teatri, danza, addirittura un revival poetico inimmaginabile fino a poco tempo fa. Tutta l’energia della gente confluisce nella cultura. La verità è che mancano sempre più le energie per la protesta e il lavoro politico. Se un tempo si cercava attivamente un dialogo con i palestinesi, oggi si preferisce farne un film, ricavandone sicuramente maggiore soddisfazione. Io non ho nulla contro l’arte, ma questa mancanza di attenzione verso quanto accade mi preoccupa.
Ai giovani, cosa si sente di dire oggi?
Di essere coraggiosi, di essere lucidi. Di preservare il loro senso morale, di coltivare uno sguardo etico sul mondo e sugli altri, di non perdere mai l’innocenza.