La lezione di Giacomo Debenedetti

Personaggi e Storie

Giacomo Debenedetti (1901-1967) è stato uno dei maggiori critici letterari del Novecento italiano. Fu tra i primi a comprendere il ruolo della psicanalisi e delle scienze umane in generale nell’interpretazione dei testi, oltre a scoprire, in Italia, un autore come Proust. Amico ed interlocutore di tutti i più importanti scrittori italiani del secolo scorso, tra i suoi moltissimi saggi ricordiamo il Romanzo del Novecento, tratto da una serie di lezioni tenute a Roma negli anni Sessanta. Per ricordarlo a quarant’anni dalla morte e per studiare questa figura sotto diversi aspetti, Giulio Ferroni e John Butcher hanno organizzato alla Sapienza di Roma il convegno “L’Università di Debenedetti: il critico e la sua scuola quarant’anno dopo”, a cui prenderanno parte tra gli altri Raffaele La Capria, Walter Pedullà, Alessandro Piperno, Filippo La Porta, Jacqueline Risset, Paola Frandini ed Enzo Golino.
Ecco un’intervista realizzata da Tobia Zevi per il quotidiano l’Unità ad Alfonso Berardinelli, critico e saggista, tra i relatori del convegno dedicato a Giacomo Debenedetti nel quarantesimo anniversario della morte. Del grande critico ha curato l’edizione dei “Saggi” per i Meridiani, ed è autore, tra l’altro, del volume “La forma del saggio” per Marsilio. Segue un denso saggio dello stesso Zevi che approfondisce il significato di un testo fondamentale per tutti gli ebrei italiani, “16 ottobre 1943”, in cui Debenedetti ricostruisce la deportazione dal ghetto di Roma.

Qual è, secondo lei, l’eredità più importante di Giacomo Debenedetti?

L’eredità di un critico come lui è sempre un problema. Anzitutto chi lo ama deve evitare di imitarlo, cosa peraltro impossibile. Ma non si tratta solo della sua straordinaria originalità e del suo stile inarrivabile. Dalla prima alla seconda metà del Novecento sono stati notevoli anche i mutamenti di situazione della critica. Oggi la letteratura occupa forse un posto meno importante e centrale nella cultura. Dominano, mi sembra, i filosofi, che brillano per intemperanza nel parlare di tutto sempre con categorie universali. L’eredità maggiore di Debenedetti, credo, è il suo senso della concretezza, del limite, della circostanzialità biografica e storica degli eventi culturali.

Il convegno ha luogo nella facoltà di Lettere della Sapienza, a Roma; sono le aule in cui Debenedetti, originario di Torino, insegnò. Lei era presente a quelle lezioni, poi pubblicate nel celebre Romanzo del Novecento. Quali sono i suoi ricordi?

Noi che frequentavamo le sue lezioni (ricordo Franco Cordelli, Nicola Merola, Paolo Mauri) ci sentivamo quasi una carboneria, nell’ascoltare un maestro della critica che aveva vissuto la letteratura del Novecento così dall’interno; a fianco degli artisti e degli scrittori, come scrittore lui stesso e compagno di strada, più che nella prospettiva dello studio universitario. Era emozionante starlo a sentire, anche perché lui stesso, parlando, non era certo privo di emozioni e la sua tensione intellettuale era sempre ai più alti livelli. Gli chiesi la tesi di laurea, ma purtroppo non feci in tempo ad averlo come relatore.

Debenedetti era di Torino. Che ruolo ha avuto questa città nella sua formazione e nel sviluppo successivo della sua ricerca?

Si potrebbe dire che Debenedetti fu e restò un torinese (nell’etica intellettuale, nell’apertura alle scienze esatte, alla letteratura francese ecc.) che sentì il bisogno di “tradire” un po’ Torino, i suoi rigori e le sue chiusure, per affrontare una realtà vitale, magari più caotica, a Roma. I rapporti con Gobetti e con Sergio Solmi, con cui fondò la rivista “Primo tempo”, furono però decisivi per tutta la sua vita.
Quali furono gli incontri che lo influenzarono maggiormente? Oltre a quelli già menzionati, certamente quelli con Bobi Bazlen e con Saba, che restò, con Proust, l’autore della sua vita; più tardi con Savinio e, anche per il lavoro al Saggiatore, con Alberto Mondatori… Senza dimenticare che gli scrittori del Novecento li ha conosciuti quasi tutti personalmente, da Pirandello e Svevo a Montale, Ungaretti, la Morante ecc. Questo dialogo diretto con gli scrittori è stato fondamentale per tutto il suo modo di fare critica.

Nel suo intervento lei si occupa del “metodo di non avere un metodo” nell’indagine letteraria di Debenedetti. Cosa si intende?

È per questo che il suo stile critico somiglia più ad un dialogo, ad una conversazione impegnata e serrata con gli autori in persona, piuttosto che presentarsi come analisi metodica di testi. Pasolini osservò che la forza intellettuale di Debenedetti nasceva anche dall’ansia conoscitiva di chi non ha, e non può avere, un metodo di analisi, perché la sua analisi coinvolge continuamente innumerevoli piani di interpretazione.

La letteratura, se ho capito bene, impedisce di ottenere uno sguardo d’insieme, evolvendosi ogni volta che un’ opera viene pubblicata.
Il suo modo di procedere era quello di chi affronta il problema letterario globalmente, ogni volta che legge un autore. In un certo senso Debenedetti ha sempre l’aria di dover risolvere il “caso” degli scrittori di cui parla: da Svevo a Saba a Tozzi…

In un suo recente articolo, lei dice che Debenedetti mette al centro della sua critica i personaggi. Che significa?

In un certo senso anche gli autori per Debenedetti erano personaggi di cui sarebbe toccato a lui, come critico, raccontare la storia segreta e il destino. In quest’ottica è stato il narratore-critico della letteratura novecentesca

Siamo a pochi giorni dalla Giornata della Memoria. Secondo alcuni studiosi, la guerra, e la deportazione degli ebrei, ebbero un ruolo decisivo nella sua evoluzione culturale. Lei è d’accordo?

Senza dubbio l’appartenenza ebraica è stata in lui consapevole e presente, in forme magari non sempre manifeste, fin dall’inizio: come dice George Steiner, i maggiori critici e studiosi del linguaggio nel Novecento sono ebrei perché il popolo ebraico è il popolo del Libro e quindi la conoscenza della verità per essi passa attraverso la lettura e l’interpretazione… Certo è però che la tragedia ebraica in Italia dal 1938 al 1945 non poteva che trasformare profondamente la sensibilità morale di Debenedetti, sempre così bisognoso di trovare una “patria”, una comunità a cui appartenere, un’ intesa col mondo… Il trauma della persecuzione determinò una svolta che è stata anche all’origine della sua adesione, per certi versi fideistica, al Partito comunista.

La vicenda accademica di Debenedetti non fu fortunata. Per tre volte respinto ad un concorso, solo alla fine della sua carriera riuscì a divenire professore incaricato. Come mai l’università non gli fu amica?

Le sue dolorose disavventure accademiche furono dovute, purtroppo, anche all’ostilità o all’incomprensione di intellettuali che Debenedetti riteneva politicamente solidali e a lui vicini. Il fatto è che non era facile, evidentemente, anche per accademici di valore, valutare a pieno la qualità, l’eccezionalità letteraria e intellettuale di un critico sempre al limite del virtuosismo come Debenedetti. La sua prosa è tra le più raffinate e complesse del Novecento italiano, e fa di lui uno dei maggiori scrittori del secolo scorso.

Qual è il rapporto, in Debenedetti, tra critica letteraria e storia. Lo studioso deve impegnarsi nella realtà?

Ricordo di aver fatto una volta una semplice distinzione fra critici che vedono autori ed opere dentro la cornice di un contesto d’epoca, e critici che invece sembrano, preliminarmente, non voler sapere nulla prima di leggere i loro autori, perché è solo attraverso questi, nel loro microcosmo, che cercano di vedere la storia. Credo che Debenedetti appartenga a questa seconda categoria. Per lui storia e cultura esistono davvero solo quando vengono lette in un’opera letteraria e nella vita di un artista.

Cosa rimane oggi, nelle università, nella ricerca e nel modo di leggere un romanzo, della lezione di Giacomo Debenedetti? Esiste, ad esempio, un gruppo di critici che possono considerarsi suoi allievi?

Essendo tramontati ormai da circa due decenni i dibattiti teorici e metodologici sull’essenza della letteratura e sul modo “scientifico” di studiarla, oggi i critici più giovani, mi sembra, hanno ritrovato un rapporto più libero (benché rischioso!) con la critica classica, con l’arte della recensione e con la saggistica. Per questo la scrittura critica di Debenedetti diventa un modello a cui fare riferimento, sapendo che una “scuola critica Debenedetti” è impensabile e impraticabile. Ogni critico in fondo deve reinventare la sua problematica attività…

Memoria e testimonianza a due generazioni da “16 ottobre 1943”
di Tobia Zevi

Accelerazioni e rallentamenti, cronaca e racconto. È una dinamica complessa, quella disegnata da Giacomo Debenedetti in 16 ottobre 1943; molto utile, a distanza di più di 60 anni, per porsi alcune domande importanti. Che ruolo ha la letteratura precipitata nella tragedia? Come si modella la lingua di fronte ad esigenze-limiti? Può il nostro scrittore essere considerato realmente un testimone? E quale è oggi, dopo molte esperienze, il rapporto instauratosi tra memoria, testimonianza e storia?
Sono, queste, questioni capitali per un sistema culturale – il nostro – che da Auschwitz in poi è profondamente mutato; e sono quesiti che interrogano precocemente già Debenedetti, a pochi mesi dalla deportazione degli ebrei del Ghetto di Roma. Ma che oggi vanno declinati concentrando la nostra attenzione sui giovani: bambini, o ragazzi, che leggono questo testo attraverso delle lenti di cui proveremo a comprendere la qualità.

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Pare opportuno ripercorrere brevemente la fabula del libricino, per mettere a fuoco gli avvenimenti nella loro successione cronologica: inganno dell’oro (26-28 settembre) e prima visita a via Tasso (28 settembre); sequestro dei documenti della Comunità ebraica da parte delle SS (29 settembre); ispezione del filologo delle SS nella biblioteca della Comunità (11 ottobre); arrivo di Celeste “la matta” ed il suo avvertimento inascoltato (15 ottobre, sera); spari nella notte (15 ottobre, mezzanotte); inizio della razzia (16 ottobre, 5-5.30); storia di Laurina S.; attraversamento della città sui carri tedeschi (16 ottobre, mattina); al Collegio Militare; partenza e viaggio verso Auschwitz.
La ricostruzione dei fatti è sostanzialmente aderente alla realtà: pur basandosi in gran parte su testimonianze orali, infatti, Debenedetti sfruttò la sua capacità di indagine scientifica per verificarne l’attendibilità. Lo statuto della cronaca viene quindi salvaguardato, e il testo si configura come una testimonianza di un osservatore attento e documentato. Nel contempo è l’autore stesso a metterci in guardia sui limiti delle testimonianze: “Dice che i passi cadenzati, lui cominciò a sentirli verso le 5 e mezzo (sulle ore non è stato possibile mettere d’accordo i testimoni; quel tempo di sciagura deve essere stato terribilmente elastico, soggetto a valutazioni soltanto psicologiche)”; “Verso le 5 (ora psicologica, ripetiamo)”; “È più probabile che quel nero ce lo abbiano visto gli occhi del dolore e dello sgomento…”; e addirittura: “Continuiamo a seguire la signora S. Il suo racconto, senza dubbio ripetuto molte volte nel corso di questi mesi, sarà certo un po’ ricostituito, con un ordine nell’incastro dei fatti e nella sequenza dei tempi, che forse la vita non ebbe…”.
Questi accenni ci proiettano in un dibattito di grande attualità. È lecito, e fino a dove, scrivere la storia a partire dalle testimonianze? E quale rapporto sussiste tra le memorie e l’indagine scientifica dello storico? Ne L’era del testimone, Annette Wievorka propone una serie di considerazioni su cui dobbiamo soffermarci. Si parte da due assunti: 1) “la testimonianza (…) esprime, oltre all’esperienza individuale, il o i discorsi proferiti dalla società, nel momento in cui il testimone racconta la propria storia, sugli eventi vissuti dal testimone ; 2) “lo studio delle testimonianze è interessante anche per arricchire la nostra conoscenza dei meccanismi messi in atto dagli uomini nelle situazioni estreme”. Nessuna testimonianza può perciò essere del tutto attendibile, valere come prova e ricostruzione materiale dello svolgersi dei fatti. Essa va invece considerata nella sua dimensione evolutiva e contestuale: si trasformerà nel corso degli anni, attraverso le ripetizioni, in virtù di meccanismi fisio-psicologici e a seconda delle correnti culturali e delle situazioni politiche.
“Per Primo Levi” scrive David Bidussa “(…) si trattava non di elencare prove, ma di costruire a un tempo quel racconto e, possibilmente, di onorarlo, nonché di delimitare o di governare gli effetti stessi di ciò che si racconta”. E ancora: “La questione, dunque non si riassume schematicamente nell’opposizione memoria/oblio. Chiama in causa come si costruisce il racconto di memoria (tanto per le vittime come per gli oppressori) e come esso si definisce nel tempo”. Questa serie di considerazioni non si riferisce direttamente a 16 ottobre: risulta però utile a definire il contesto odierno di ricezione del libro. E per affermare che, in virtù di quanto si è detto, le testimonianza è racconto, è letteratura, e come tale ha bisogno di uno stile che ne plasmi il contenuto e ne consenta la trasmissione.
Subito dopo la guerra, in ogni caso, vengono redatti moltissimi libri di ricordo, personali o collettivi, insieme a documenti che descrivono la prigionia e l’orrore. Le varie nazioni europee, tuttavia, non sono pronte ad accoglierli: in quest’ottica andrà vista, ad esempio, la politica editoriale di Einaudi, che rifiuta Se questo è un uomo, il Diario di Anna Frank, e anche 16 ottobre 1943, pubblicato su un periodico. Il quadro cambia sensibilmente dopo una decina di anni. Tra il 1958 ed il 1959 si assiste ad un incremento delle pubblicazioni di deportati, insieme ai primi memoriali della Shoah. L’Europa ha nel frattempo risolto i problemi più urgenti: il dramma dei profughi e la questione delle riparazioni. Ma è con il processo Eichmann che si ha la rivoluzione definitiva: rispetto a Norimberga, a Gerusalemme si fa perno sulle testimonianze; queste non sostituiscono la verità silenziosa dei documenti, ma muovono le coscienze, e diventano protagoniste. Contestualmente si sviluppa lo statuto sociale del reduce: per Primo Levi la testimonianza “è percepita come un bisogno primario, liberatorio, e come una promozione sociale (…): se morremo qui in silenzio, come vogliono i nostri nemici, se non ritorneremo, il mondo non saprà di che cosa l’uomo è stato capace, di che cosa è tuttora capace: il mondo non conoscerà sé stesso…”. Parlare dunque equivale a tornare, a vincere la barbarie e a perpetuarsi. Rappresenta addirittura un “bisogno primario”. Ma a fianco di questa necessità, che muove dalla vittima, viene a delinearsi una richiesta sociale al testimone, cui non viene solamente demandato di esporre la propria vicenda, ma anche di riprodurla senza modifiche sensibili negli anni e attraverso il procedere della propria esistenza .
In questa evoluzione si colloca la distinzione tra memoria e testimonianza, che dà anche il titolo a questo intervento. Testimonianza, oggi, è sì memoria nella sua dimensione evolutiva ed errante, ma cristallizzata nel riconoscimento sociale e dall’attendibilità garantita dal patto testimoniale.
Un accenno meritano il rapporto tra la testimonianza e la storia, e quello tra le testimonianze dei sopravvissuti e lo Stato d’Israele. Portare testimonianza non è scrivere la storia. Lo storico sperimenta di fronte al testimone una condizione di debolezza, privo della forza emotiva dell’esperienza diretta ma consapevole del limite oggettivo e scientifico di quest’ultima. Egli “…può procedere in un altro modo. Può leggere, ascoltare, o guardare le testimonianze, senza mai cercarvi ciò che sa di non potervi trovare: dei chiarimenti sugli eventi precisi, sui luoghi, le date, sulle cifre, tutti elementi che nelle testimonianze sono, con assoluta regolarità, falsi. Ma sapendo anche che esse racchiudono una straordinaria ricchezza: l’incontro con una voce umana che ha attraversato la storia e, indirettamente, non la verità dei fatti, ma quella più sottile eppure altrettanto indispensabile di un’ epoca e di un’ esperienza”. Con questa impostazione viene adeguatamente definita la relazione tra i due piani.
A questo si collega il tema dell’utilizzo della testimonianza in un’ aula di tribunale, che a suo tempo portò Hannah Arendt a criticare il processo ad Eichmann: “La questione della memoria non riguarda così ciò che è materialmente avvenuto, e dunque sottoponibile a procedura penale, ma le forme e i modi in cui noi costruiamo la storia di ciò che è avvenuto funzionalmente a una consapevolezza pubblica di che cosa sia la storia e il passato”, dice ancora Bidussa. In ciò risiede la differenza tra il revisionismo dello storico, che aggiusta la sua narrazione arricchendola continuamente di nuovi documenti, e l’intollerabile revisionismo politico, che propone una verità diversa opposta retoricamente ad una presunta vulgata dei vincitori.
In secondo luogo va ricordato che, inizialmente, il racconto dei reduci era mal tollerato anche in Israele. Si doveva forgiare una nuova gioventù, modellata sul mito del pioniere (socialista o no) e dell’uomo che sa coltivare la propria terra, che non si riconosceva nei milioni di fratelli trascinati supinamente al macello. Per le classi dirigenti del paese il processo ad Eichmann serviva essenzialmente alle nuove generazioni, troppo concentrate su altre faccende per occuparsi del loro passato. Lo Stato d’Israele diventa dunque, a partire dagli anni Settanta, catalizzatore della memoria. In seguito, poi, il rompersi del consenso unanime da parte del mondo ebraico attorno alla nazione, divenuta anche stato occupante ed aggressore, favorisce negli Stati Uniti, e nel mondo occidentale, un’ ulteriore crescita della dimensione politica e sociale della Shoah.
Va tenuta presente, la frattura rappresentata dallo Stato d’Israele, nel parlare di 16 ottobre 1943; alle orecchie di un giovane ebreo di oggi, alcune pagine scritte in quei mesi del 1944 suonano irrimediabilmente distanti, proprio in ragione di Israele.

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A partire da queste considerazioni, occorre interrogarsi su quali siano la lingua e lo stile che Debenedetti usa per dipingere la tragedia. “Non possiamo fare a meno di ammirarne la straordinaria forza dello stile, trasparente come il vetro. Sembra che a parlare (…) sia la stessa realtà. Le frasi si susseguono alte, nitide, disadorne, severe, e su ciascuna di esse grava il peso di una pietà immensa” , afferma Natalia Ginzburg nella sua prefazione al testo. Da queste righe possiamo risalire ai poli contrapposti entro cui si muove una possibile analisi linguistica: cronaca/racconto, adesione/distacco. Elementi di natura diversa e per certi versi in conflitto, che nel testo si fondono armonicamente grazie alla maestria dell’autore Debenedetti è assolutamente consapevole delle responsabilità che scrivere questo libro comporta: per questa ragione la sua scrittura si muove tra esattezza e commozione. Lo scrupolo di attenersi alle vicende realmente accadute, e la commozione dell’osservatore che assiste impotente. Tra le righe rintracciamo la carità religiosa e la pietà umana, con tutta l’angoscia che l’uomo di cultura prova di fronte alla distruzione del proprio complesso di valori. Evidenti sono le analogie con Primo Levi, con il suo atteggiamento illuministico verso la vita; ma c’è, se possibile, sgomento ancora maggiore.
Si è detto che lo stile, la letterarietà, è un mezzo per costruire il racconto, uno strumento per veicolare la memoria. Esso muove però da esigenze diverse nei due autori: per Levi, che mirava a quell’ “italiano marmoreo” di cui parla Pier Vincenzo Mengaldo, gli squarci e la patina letteraria hanno una triplice funzione: servono a dar conto di una realtà che la lingua più pura e razionale, nonostante tutto, non è in grado di comprendere; salvaguardano il testimone dal pericolo di scadere nel vittimismo; e consentono allo scrittore-chimico di provare il piacere della scrittura, in un’ operazione che era pur sempre “bisogno primario”. Queste motivazioni agiscono solo in parte per Debenedetti. In lui lo stile, invece, favorisce la commozione. Come ha potuto infatti, si chiede Moravia, un saggista colto e razionale come Giacomo produrre un testo dalla così alta tensione emotiva? “In primo luogo, grazie alla letteratura”. La letterarietà ha in Debenedetti soprattutto due ragioni d’essere: permette di articolare il racconto, e veicola la commozione, il dolore e la partecipazione.
Vale la pena pertanto analizzare specificamente i procedimenti utilizzati dallo scrittore per plasmare la retorica del proprio discorso. Innanzi tutto l’analessi: il testo si apre con l’arrivo in Ghetto di Celeste/Cassandra, che annuncia la tragedia imminente senza essere creduta. Un inizio rapido, che fa alzare il livello dell’attenzione, e che si allarga poi nell’ampia ricostruzione del precedente inganno nazista; la richiesta dell’oro, la raccolta fruttuosa degli ebrei, l’ingenuità degli ebrei romani. Un lungo flashback che si chiude drammaticamente con le ore notturne prima della deportazione, contraddistinte dagli spari. È qui che compaiono due lunghe digressioni sugli ebrei del Ghetto di Roma: quella sulla loro “diurnità”, e quella sulla loro ingenuità.
Entrambe mi paiono, però, inattuali. Suonano estranee ad un giovane ebreo di oggi. Lontane anche per un ebreo di sinistra. Due sono essenzialmente le ragioni: in primo luogo, come detto, lo Stato d’Israele ha trasformato l’autorappresentazione degli ebrei; essi non vogliono essere percepiti come deboli (e non vogliono esserlo), e rifiutano il compatimento. Rifiuterebbero, dunque, il tono di Debenedetti. Al tempo stesso è mutato l’approccio alla religione: se è vero che la comunità ebraica italiana è nella sua sostanza una comunità largamente secolarizzata, oggi non possiamo però considerare la dimensione spirituale un fatto eminentemente privato. Essa viene anzi (non sempre per fortuna) sovente sbandierata, vissuta come motivo d’orgoglio in un’ epoca di esaltazione (anche in questo caso non sempre auspicabile) delle identità. Molto diversa è la condizione di Debenedetti, nel quale il forte senso di appartenenza all’ebraismo non si esplicitava pubblicamente, a causa, anche, di una distanza ineliminabile nei confronti dei propri correligionari. Forse non del tutto aderenti alla realtà, oggi, sono persino queste parole della Ginzburg: “Gli ebrei chiedono invece l’assenza di ogni discriminazione. Chiedono «il diritto di non avere speciali diritti»”.
La scena si riapre, comunque, nelle case degli ebrei risvegliati dagli spari incomprensibili dei nazisti; l’accelerazione è enorme. “Ma quegli spari abituali rimanevano isolati, come i rintocchi dell’ora, e di rado giungevano così vicini, e mai così insistenti. Questi invece si intensificano, si stringono, si sovrappongono, diventano una vera sparatoria”. E poco dopo: “Ora i jorbetìm si sono messi anche a urlare e schiamazzare: voci e grida squarciate, colleriche, sarcastiche, incomprensibili. Che vogliono? Con che ce l’hanno? Dove vanno?”. La drammaticità del momento viene resa con una serie di espedienti retorici: la climax, la sintassi accumulativa e frantumata (con frasi nominali), il punto di vista interno ai personaggi. Ma uno dei tratti più salienti è certamente il passaggio dalla sfera del passato al presente: “L’uso del presente, la frantumazione del periodo rendono quasi tangibile la concitazione del momento. Il narratore si immerge nella folla, ne registra le azioni, ne capta i sentimenti, li interpreta” (Visone). Il presente è dunque, in 16 ottobre, il tempo dell’ansia. Anche a questo proposito è interessante un confronto con Se questo è un uomo. Mengaldo nota come i capitoli centrali della prima opera leviana, i capitoli del Lager, siano “…il regno del presente storico, o meglio attanziale, e dei suoi necessari satelliti”. Il presente serve dunque a dipingere “…il sempre uguale, il non tempo del Lager, la ripetizione dell’esistere degli schiavi…”. Inoltre, l’utilizzo di questa struttura (e collateralmente dell’avverbio presentativo “ecco”, dei vari deittici, dei richiami ai lettori, del passato prossimo forse variante settentrionale del presente storico, del condizionale presente, del congiuntivo imperfetto d’ipotesi irreale, del futuro semplice d’attesa) è funzionale per tre ragioni: “1) Ribadire l’influsso dell’oralità, in un libro che Levi ci dice essere nato in seguito a colloqui avvenuti oralmente; 2) la possibilità di articolare sottilmente i piani del racconto; 3) l’effetto di attualizzazione e drammatizzazione dei fatti narrati, “quasi un portare l’autore, e il lettore, sul luogo”.
Attraverso l’alterità nell’impiego di questo procedimento misuriamo dunque la distanza tra le due esperienze, quella dell’osservatore coinvolto emotivamente e quella della vittima. Se per Debenedetti il presente accresce intensità e pathos, in Levi questa struttura contribuisce alla risoluzione del racconto in saggio. Del resto, citando ancora con Mengaldo: “Questa tendenza a risolvere il racconto e la rievocazione in saggio, tanto più notevole perché praticata a immediato ridosso di quell’esperienza, è uno degli aspetti che più garantiscono il rango del libro, la sua peculiarità o unicità ma insieme il suo valore fondativo”.
Dobbiamo ora concentrarci sul narratore, per scorgere l’atteggiamento dell’autore nei confronti della vicenda e dei suoi personaggi, sempre all’interno del binomio adesione/distacco. Dopo l’8 settembre Debenedetti si era rifugiato con la famiglia a Cortona, ospite di Pietro Pancrazi. L’intellettuale fino ad allora distaccato si impegna in questi mesi in una serie di studi in cui l’interesse letterario sconfina nella passione civile. Il 16 ottobre la mutazione è già avvenuta: essa è imperniata, soprattutto, sulla riscoperta dell’ebraismo e sull’adesione al comunismo . I due aspetti non sono, peraltro, disgiunti nella sua ottica, fideistica, della fine delle persecuzioni e di un’ umanità liberata e unita. L’intellettuale ambisce ad agire, a prendere le sue responsabilità attraverso la scrittura.
In questo senso va la breve introduzione scritta per l’edizione del 1961: “Io sono un critico, questo è il mio unico mestiere letterario. Il 16 ottobre è stato scritto da chi l’ha vissuto direttamente. Meglio attribuirlo a un nuovo Anonimo Romano, come quello che ci ha lasciato la Vita di Cola”. In realtà questo atteggiamento è costruito con una serie di espedienti che mimetizzano il narratore. Vediamoli nel concreto. In primo luogo l’utilizzo di quella che Visone definisce “cinepresa a mano”: il narratore, per descrivere l’intera vicenda, sceglie esemplarmente una signora, Laurina S., che segue entrando nella sua casa prima dell’arrivo dei nazisti, attraversando l’orrore assieme a lei; questo meccanismo viene corroborato in tutto il testo con ripetuti cambi di focalizzazione interna ai personaggi. A questo processo contribuisce anche l’inserimento di alcune parole prese dal giudaico-romanesco (haham, cheilà, rascianìm, jorbetìm, resciud, manhòd, nharèl), italianizzate dal punto di vista grafico e fonetico, per “la sua scarsa conoscenza della comunità romana, (ma anche) per timore di scadere nel bozzettismo”. In ultima analisi, l’insistito gioco sul punto di vista, con l’intento di rendere la narrazione polifonica, viene reso con ripetuti esempi di discorso indiretto libero. Solo per fare alcuni esempi: “Qualche madre accendeva la lampada sabbatica – non quella bella che era stata nascosta ai primi furti tedeschi -; “E poi si sa che in famiglia sua sono tutti un po’ tocchi;…); “La verità? Chi sa cosa le avranno detto, chi sa cosa avrà capito” (significativamente senza il punto interrogativo); “Con la loro forza così schiacciante, con la loro autorità così assoluta, avrebbero potuto fare assai di peggio”; “Facessero qualche cosa, sfondassero una porta, una saracinesca, una bottega, almeno si capirebbe il perché”; “E poi, a ripensarci, non era capitato niente”; “E le valigette, dove trovarne una per ciascuno? I bambini ne vogliono una tutta per loro”.
Abbiamo dunque che fare col sapiente sforzo di un grande prosatore che vuole entrare nella storia, viverla con gli occhi dei suoi personaggi. “Tuttavia il miracolo della materializzazione non può dirsi compiuto”, argomenta Visone “la voce resta quella di un fantasma, che in parte sembra nascere, salire, prendere forma dalle strade e dalle case degli ebrei romani, in parte sembra librarsi sopra di esse, diverso da esse, distaccato”. Quali sono, però, i filtri che separano il narratore, nonostante tutto, dai personaggi? Innanzi tutto le digressioni, di cui abbiamo già parlato. Il tono compassionevole che ne emerge, di sincera e genuina compassione umana, crea tuttavia una distanza incolmabile: così gli ebrei del ghetto sono designati con il deittico “questi” (“Forse la memoria di un antico coprifuoco è rimasta loro nel sangue (…). Così questi ebrei, accusati di tramare nell’ombra contro l’ordine e la sicurezza del mondo, sono invece delle creature diurne (…). Ma questi ebrei amano la vita da cui la notte li ha esclusi…”), sono chiamati “ebrei di piazza Giudìa” (questo appellativo suonerebbe ancora oggi come velatamente discriminatorio all’interno della comunità), sono addirittura “quella brava gente”: in questa espressione si racchiude la pietas dell’intellettuale e la sua irriducibile alterità.
Ma c’è, al di là di tutto, un ulteriore diaframma: la cultura. Debenedetti rimane, in definitiva, un intellettuale di fronte alla tragedia, seppur “gravato di una pietà immensa”. Se ne ha la prova, ex opposito, dalle righe dedicate all’ufficiale delle SS, filologo semitico di formazione, incaricato di visionare i testi da prelevare dalla biblioteca della comunità. Le parole sono, in questo caso, lame. Ponderate come più non si potrebbe, esse raccontano l’intellettuale che guarda la propria aberrazione nello specchio:

“Una strana figura, sulla quale si vorrebbero avere più ampi ragguagli, appare l’11 ottobre nei locali della Comunità (…). Tutto divisa anche lui, dalla testa ai piedi: quella divisa attillata, di un’ eleganza schizzinosa, astratta ed implacabile, che inguaina la persona, il fisico, ma anche e soprattutto il morale, con un ermetismo da chiusura-lampo. È la parola verboten tradotta in uniforme: proibito l’accesso all’uomo e all’individuale passato che vive in lui, che è la sua storia e la sua più vera “specialità” di creatura di questo mondo: proibito vedere altro che questo suo “presente” rigoroso, automatico, intransigentemente reciso” .

Una descrizione chiara, sembra quasi di vederlo, quest’uomo ligio nel suo lavoro criminale; che non ha bisogno di un solo aggettivo descrittivo, neanche una parola sui colori o sui materiali del suo abbigliamento (l’unico riferimento concreto è “attillata”). Debenedetti sta qui parlando di sé, del suo alter ego degenerato insieme alla cultura tedesca, alla sua Bildung, al suo rigore scientifico (si tratta di un filologo), spogliato ormai di qualunque senso di responsabilità. “Un colpo secco della chiusura-lampo, e la divisa ha rinserrato il semitologo, che è ridivenuto ufficiale delle SS. Ordina: se qualcuno tocca, o nasconde, o asporta uno solo di questi libri sarà passato per le armi, secondo la legge di guerra tedesca”. La sintassi si spezza, le parole sembrano pugnalate. Dolorose sono le righe, dal ritmo lento, in cui si dipinge l’esame attento dei testi da parte dello studioso militare: “… con mani caute e meticolose, da ricamatrice di fino, palpa, sfiora, carezza papiri e incunaboli, sfoglia manoscritti e rare edizioni, scartabella codici membranacei e palinsesti. La varia attenzione del tocco, la diversa cautela del gesto sono subito proporzionate al pregio del volume. Quelle opere, per la maggior parte, sono scritte in remoti alfabeti. Ma ad apertura di pagina, l’occhio dell’ufficiale si fissa e si illumina, come succede a certi lettori particolarmente assistiti, che subito sanno trovare il punto sperato, lo squarcio rivelatore” . Assistiamo allo stupro del libro, simbolo e rito della nostra cultura, cui attenta la barbarie sgorgata da una delle culle della nostra civiltà. 5 verbi indicano l’azione del “leggere”, e 3 di questi sono attinenti al campo semantico della sensualità; 6 termini per indicare, con la massima precisione possibile, l’oggetto “libro”. Fino alla chiusura del passaggio, con la tortura dei libri: “Tra quelle mani signorili, come sottoposti a una tortura acuta e incruenta, di un sottilissimo sadismo, il libri hanno parlato”.
E la distanza dell’autore dagli ebrei del ghetto, se ancora ce ne fosse bisogno, viene ribadita poco dopo: “…Perché non pensare a salvarsi? Ebbene, il furto dei libri non era un’ angheria per la gente del Ghetto, che di libri non se ne intendeva”. Ed ancora in un punto, l’autore segnala inconfutabilmente lo spazio che lo divide dai luoghi della tragedia: “Il tragico, l’intensità, la complicazione dei movimenti che stanno per avvenire su questo pianerottolo, potrebbero far pensare a uno spazio adeguato, si starebbe per dire eschileo: il che non risponderebbe al vero. Si tratta di un ripiano di pochi palmi, nemmeno due metri quadri, che interrompe una scala avvolgentesi a spirale, con i gradini di pietra sporchi e ingommati di decrepita spazzatura, tra due muri soffocanti”. A separare il narratore dalla scena c’è la cultura (quel “si starebbe per dire”, segno quasi di pudicizia), ma anche la classe sociale.
C’è un piano, però, in cui l’identità tra narratore (e autore) e personaggi è totale: l’incapacità di comprendere ciò che sta per avvenire; gli “ebrei di piazza Giudìa” che non riconoscono la sciagura che sta per schiantarli, sono il simbolo di tutti gli ebrei che non seppero e non vollero vederla nel suo approssimarsi. Ma sono anche un’ immagine dell’uomo non in grado di spiegare l’irrazionale ed il tragico che irrompono sulla Storia: “Ma a quelli di “piazza Giudìa”, a una gran parte almeno, successe come quando portano un parente dal medico, che fa loro una diagnosi senza speranza. Per parecchio tempo ripetono il nome di quella malattia, ci fanno i commenti, quasi ci prendono confidenza, come fosse già il nome di una delle tante malattie che già conoscono, che sono già state in casa. Solo più tardi capiscono che cosa ci sia dentro quel nome”. E d’altronde, come scrive Natalia Ginzburg: “Chi ha vissuto quei giorni, e chi ha vissuto allora la paura della persecuzione, ricorda bene come al terrore dei nazisti si mescolasse un roseo ottimismo, e l’idea che forse, in definitiva, la realtà fosse più mite, più ragionevole dell’immaginazione”. A questo tema, cui Hannah Arendt ha dedicato pagine fondamentali, Debenedetti si sente particolarmente vicino.

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Il libro di cui si è parlato è un testo meraviglioso. Più efficace di qualsiasi analisi, forse, sarebbe stata una semplice lettura. Nel finale strozzato del libricino (di “apocope drammatica” parla il tante volte citato Giovanni Visone) il pathos si acuisce e si prolunga nella cronaca. Ma restano, nella cristallina solennità, le semplici parole con cui Debenedetti saluta per l’ultima volta, per mezzo di un volto che affiora dal vagone piombato, i suoi personaggi: “…accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare di rimetterli più nel consorzio umano, è l’ultima parola, l’ultimo segno di vita che ci sia giunto di loro”. Il testo si chiude con un’ invocazione al silenzio, di fronte all’incommensurabilità di ciò che sta davanti ai propri occhi. E anche oggi, a fronte del grande numero di dibattiti ed iniziative sulla Shoah, “permane tuttavia il dubbio che (…) solo il silenzio sia capace di dare conto dell’immensità del male”.