di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie]
Il nome di Hannah Arendt continua a riecheggiare nelle analisi e nelle discussioni sul tragico passato dello sterminio. La determinazione della filosofa e pubblicista di inserirsi nel merito della riflessione sulla comprensione della radice del male si era rivelata già con le corrispondenze da Gerusalemme durante il processo ad Adolf Eichmann, in esordio pensate per il lettore americano, poi divenute una sorta di testo sul Novecento, rivolto ad una pluralità di pubblici, a partire da quelli europei. Arendt ha sempre rivendicato uno stile aspro e abrasivo, cercando nel confronto e nel conflitto i luoghi in cui di più e meglio potesse rendersi fertile un approccio analitico e critico. Dai tratti molto personalistici, tutta la sua lettura delle vicende emerse nei quattro mesi di processo, soprattutto al suo resoconto, si basa su questo criterio. Che da ciò derivasse fin da subito una secca divisività, era non solo prevedibile ma evidentemente voluto dalla medesima studiosa. Poiché le diverse asserzioni che sono contenute in quelle corrispondenze, poi raccolte in un proverbiale e fortunato volumetto, di ampia diffusione, sospeso tra indagine e pamphlet, tra riflessione e contrapposizione, più che costituire un resoconto sono come lame del coltello che entrano nella viva carne. Tre questioni sopravanzano le tante altre, comunque evocate da Arendt: la reazione di una parte del mondo ebraico alla catastrofe che si stava addensando all’orizzonte e le risposte fornite nel mentre questa si produceva, a partire dall’azione dei “Consigli ebraici” istituiti coattivamente dai carnefici; la figura dell’imputato ma, soprattutto, il prototipo negativo che Adolf Eichmann costituiva non solo rispetto alla Shoah, ma in quanto moderno funzionario del male; il ruolo, evidentemente successivo ai fatti in oggetto del processo, d’Israele. Altro si può aggiungere, ma questi tre passaggi rimangono capitali. Nel primo caso il giudizio è decisamente severo, non concedendo troppe attenuanti a quelle vittime che, in qualche modo, si prestarono ad una forma di concorso, ancorché del tutto indiretto e comunque estorto; nel secondo, prevale una lettura che avrà molta fortuna, il binomio tra mediocrità di Eichmann e dimensione “banale” (nel senso di superficiale: per fare le peggiori cose non occorrono motivazioni profonde) del male medesimo: una formula, nell’uno e nell’altro elemento, assai convincente per una parte dei lettori, molto meno per altri; nel terzo ed ultimo caso, è palese l’irritazione che Arendt nutre per la sovranità ebraica, anche se in alcune pagine cerca di attenuarne le manifestazioni più irruente (senza riuscirci, a nostra opinione). Ricerche e studi più recenti, a partire dal fondamentale libro di Bettina Stangneth (La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, Luiss University Press), hanno fortemente ridimensionato l’approccio di Arendt, soprattutto riguardo al secondo punto: l’imputato era un fanatico antisemita, consapevole e partecipe. Non un mero esecutore bensì un tenace ideatore. Ma il vero passaggio critico non è solo questo, rimandando semmai all’irrisolto problema dell’identità ebraica, con la quale Arendt, attraverso il processo Eichmann, intraprende un vero e proprio corpo a corpo personale. Non accetta che Gerusalemme svolga una funzione decisiva come soggetto di giustizia, tale poiché depositario di una sovranità insindacabile. Ed è qui, in franchezza, che rileggendo le sue pagine, le perplessità si fanno più dense. Poiché senza uno Stato, si rischia di tornare a morire. Che piaccia o meno, anche nell’età della globalizzazione.