di Marina Gersony
Cibo: l’ultimo romanzo di Helena Janeczek. Gusti e suggestioni culinarie cosmopolite fanno da sfondo alla narrazione dell’autrice nella Monaco dell’infanzia e dell’adolescenza
Monaco, fine anni Settanta. Una ragazzina si appresta a fare colazione con suo padre. Prima di entrare in cucina, il genitore la esorta a infilarsi le pantofole: già, per casa si gira scalzi soltanto quando c’è un lutto, una shivah. Porta disgrazia altrimenti. La ragazzina ubbidisce e i due possono finalmente gustare le fette di pane di segale tostate, impreziosite da burro morbido e sale. «Era in quel modo che mio padre si era sfamato in Polonia, da bambino e da ragazzo, scrive Helena Janeczek nei primi capitoli del suo ultimo romanzo Cibo. Vincitrice del Premio Strega 2018 con La ragazza con la Leica, la scrittrice nata a Monaco di Baviera da genitori ebrei polacchi, dal 1983 vive in Italia. In questo suo ultimo romanzo, ripercorre la sua vita rievocando incontri, fatti e stati d’animo legati al cibo. Perché il cibo, suggerisce Janeczek, è l’ossessione del nostro tempo, il totem intorno al quale girano le nostre vite, così potente da suscitare pulsioni e manie, ma anche amore-odio e dipendenza; un’ossessione che può portare a tutta una serie di disturbi del comportamento alimentare, patologie come anoressia e bulimia, accompagnate dal terrore mortifero e costante di un aumento di peso.
Arrosti, zuppa di barbabietola polacca, Wiener Würstel, Regensburger Würstchen o Pfälzer Würstchen, le tipiche “salsicce” tedesche che si accompagnano a patate lesse rifatte in padella, in puré o in insalata; e poi frittelle di mele, Krapfen, crépe con marmellata e ricotta, come quelle che nei territori appartenuti al regno austroungarico chiamano Palačinke, ispirate anche all’antica tradizione istriana sempre viva a Trieste, la porta dell’Est… ma anche il vituperato junk food indigesto, calorico e reso ancora più appetitoso perché proibito da dietologi e nutrizionisti: merendine, snack confezionati, dolciumi e sublimi patatine fritte.
Cibi, gusti e suggestioni culinarie cosmopolite fanno da sfondo alla narrazione dell’autrice nella Monaco dell’infanzia e dell’adolescenza; una tredicenne rotondetta un po’ timida e goffa, come spesso capita a quell’età, che si sente derisa e ignorata dalle compagne di classe e per la quale il cibo e i libri rimangono l’unico rifugio. Si dipana così il racconto di Elena, l’io narrante, che una volta cresciuta, da Monaco sbarca a Milano. «Una triste giovinezza in terra straniera, inasprita dalle diete, confortata da wafer al cioccolato grandi come fette di torta, dalle porzioni generose di treccia alla nocciola vendute al caffè davanti alla scuola, dagli ovetti, le liquirizie … gli unici tuoi amici».
Per l’ennesima volta Elena fa il possibile per perdere peso e rappacificarsi con una corporatura troppo abbondante in cui non si riconosce. È l’incontro con Daniela, una massaggiatrice di Treviso, l’occasione per cercare di modellare il proprio corpo ma anche per iniziare una sorta di viaggio interiore attraverso un dialogo affettuoso e condiviso. Le due giovani donne, accomunate dal desiderio di ottenere un fisico più snello, si confidano e si sostengono a vicenda. Così, tra una seduta e l’altra, affiorano ricordi di incontri, sensi di colpa, aspirazioni segrete in una bouillabaisse di passioni e di sentimenti. Il lettore viene così catapultato in un mondo scintillante di profumi, aromi e sapori, ma anche di raptus bulimici notturni e di indimenticabili peccati di gola che danno vita a storie di amicizia e di amore, di piatti e di pietanze delle più svariate tradizioni.
Ci sono i pranzi domenicali della nonna veneta e contadina di Daniela e i Krapfen dell’amica anoressica di Monaco che rifiuta di nutrirsi e aspira a essere perfetta ma che, non sapendo come ottenere tale perfezione, rischia di morire, senza sapere per cosa. Ci sono gli gnocchi di pane alla prugna di Ružena, altra amica generosa del cuore e obesa che si autodefinisce un Fettsack, un sacco di grasso, e mangia per allontanare l’incubo dei carri armati sovietici e il dolore pungente dell’esilio praghese. Il grasso, si sa, protegge ed è un conservante. Ci sono infine le aringhe salate che risvegliano in Elena la memoria dei kiddush e le parole toccanti per un padre perduto troppo presto: «Mio padre era cresciuto con a git stikele Hering. Se non fosse stato per me, mia madre gliele avrebbe comprate più spesso, le aringhe che non mancano mai per il kiddush del sabato nelle sale di riunione delle sinagoghe e nei menu dei “deli” americani, e accanto a salmone storione, mousse e tartine varie compaiono persino sui buffet dei matrimoni e bar mitzvah celebrati negli hotel Hilton, e normalmente non tornano in cucina. Perché tra tutte le cose che potevano mangiare allora, quando erano ancora in Russia, Ucraina e Polonia e applicavano a crauti, barbabietole, orzo e patate le leggi mediterranee della kashrut, l’aringa per loro restava unica, la matjes olandese sotto sale. È il primo insegnamento postumo di mio padre».
Helena Janeczek, Cibo, editore Guanda, collana Narratori della Fenice, pp. 288, euro 17,00