beniamin Netanyahu e Benny Gantz

Israele ha finalmente un governo, che l’emergenza mette alla prova. Si deve cambiare rotta. Ma come?

Israele

di Avi Shalom

La crisi sanitaria e quella economica colpiscono il modello di sviluppo israeliano, come in tutto l’Occidente. Come si muoverà il nuovo Governo Gantz-Netanyahu? Starà alla Knesset decidere se dirigere il Paese verso una società sicuramente più povera ma anche più egualitaria, oppure lasciare campo libero alle spinte autoritarie. Perché il coronavirus sta mettendo a rischio anche il sistema immunitario della Prima Repubblica israeliana

Dopo oltre un anno di paralisi politica, e dopo tre tornate elettorali, Israele ha finalmente un governo. Il nuovo esecutivo, definito di “emergenza” nazionale, avrà tre anni di durata e sarà guidato in alternanza da Benyamin Netanyahu (Likud) e da Benny Gantz (Blu Bianco). Decisiva per l’intesa finale fra due partiti che si erano amaramente affrontati nelle elezioni del 2 marzo è stata la pandemia di coronavirus, che da metà marzo ha costretto tutti gli israeliani a chiudersi nelle loro abitazioni.

Dopo il voto di marzo le manovre per la formazione di un nuovo governo – pur definito di “emergenza” – avevano richiesto laboriose trattative. Il 15 marzo il presidente Reuven Rivlin aveva affidato l’incarico al leader centrista Benny Gantz (Blu Bianco) che aveva il sostegno di 61 dei 120 deputati della Knesset. Ma subito era emerso che non sarebbe stato per lui possibile formare un governo che avesse l’appoggio contemporaneo sia della Lista araba unita sia del nazionalista Avigdor Lieberman, passato adesso nel fronte anti-Netanyahu. Il 26 marzo si è così avuto un drammatico colpo di scena, che ha rivoluzionato il quadro politico.

Di fronte all’approfondirsi della crisi del coronavirus, Gantz ha accettato la formula di un governo unitario col Likud e l’alternanza alla carica di premier: prima Netanyahu, per un anno e mezzo, e poi lui stesso per altri 18 mesi. In questo modo ha lasciato di stucco un milione di elettori che in tre tornate di voto, dall’aprile 2019, avevano creduto che Gantz mai avrebbe accettato di entrare in un governo guidato da chi, come Netanyahu, era incriminato per corruzione, frode e abuso di potere. Il prezzo della sua scelta è stato immediato: Blu Bianco si è spaccato il giorno stesso in due, lasciando Gantz con appena 19 deputati e ormai alla mercè di Netanyahu.

Le settimane successive hanno poi visto la liquefazione di quanto restava dello storico partito laburista, quando il suo leader Amir Peretz ha accettato – malgrado i solenni impegni preelettorali – di entrare in un esecutivo Netanyahu-Gantz composto da 36 ministeri. Non proprio il governo di “emergenza” che c’era da aspettarsi per la lotta serrata alla pandemia che ha allora registrato un brusco aumento dei contagi. In quei giorni è stato perfino necessario imporre una sorta di coprifuoco nella popolosa cittadina ortodossa di Bnei Brak (200 mila abitanti, alle porte di Tel Aviv) dopo che al suo interno erano stati rilevati 1000-1400 contagi. Lo stesso provvedimento sarebbe stato poi adottato in 17 rioni, in prevalenza ortodossi, a Gerusalemme. Con nove milioni di israeliani chiusi in casa, con le strade deserte presidiate da polizia ed esercito, e con oltre un milione di israeliani ormai privi di lavoro, i politici hanno proseguito imperterriti a lottare per aggiudicarsi fette di influenza nel governo di “emergenza” che stentava ancora a venire alla luce.

Oltre che sulla distribuzione dei dicasteri, si sono accapigliati su una riforma volta ad indebolire ulteriormente il sistema giudiziario (dopo anni di sistematici attacchi della Destra) e sulla annessione di porzioni della Cisgiordania, nel contesto dei progetti mediorientali dell’amministrazione Trump. Mentre venivano a galla le gravi penurie di risorse (sia di strutture, sia di personale) accumulate negli ultimi dieci anni nel sistema sanitario – già denunciate l’anno scorso in un rapporto dell’Ombudsman – Gantz e Netanyahu hanno confermato alla carica di ministro della sanità Yaakov Litzman, esponente di una potente corrente rabbinica ortodossa. Nel frattempo, nel mondo politico proseguivano le manovre di assestamento, conclusesi infine il 20 aprile con l’accordo Netanyahu-Gantz; ed è apparso con sempre maggiore evidenza che la crisi sanitaria (al 20 aprile, 13 mila contagiati, 164 decessi, ospedali impegnati a liberare posti letto per accogliere moltitudini di contagiati che potrebbero ancora necessitare aiuti) è destinata ad essere affiancata da una grave crisi economica e sociale.

Il problema immediato è quello del mondo del lavoro: da febbraio il tasso di disoccupazione è schizzato da un lusinghiero 4 ad un allarmante 25 per cento. Il governo ha approvato un piano di aiuti economici immediati per 80 miliardi di shekel, che ha funzionato come boccata di ossigeno. Netanyahu e il ministro delle finanze Moshe Kahlon hanno elaborato un piano per la graduale ripresa delle attività economiche (attualmente al 15 per cento del loro potenziale) per portarle gradualmente alla fine di maggio al 50-70 per cento. La priorità sarà data all’hi-tech, all’industria, al commercio, alle istituzioni finanziarie, all’agricoltura e alla edilizia. Ma a quanto pare ancora nel 2021 in Israele ci saranno 400 mila disoccupati: in particolare quanti lavoravano nel settore turistico, nella alimentazione, nello spettacolo, nello sport. In prospettiva, occorrerà sostenere a lungo le fasce sociali medio-basse, specialmente nelle cittadine periferiche e nei rioni popolari. Anche i fondi pensione – gestiti da compagnie di assicurazione e da fondi di investimento – rischiano di essere molto ridimensionati.

Per impedire che la crisi – sanitaria prima ed economica poi – si trasformi infine in una profonda recessione sociale sarà necessario che la élite di Israele innalzi la bandiera della solidarietà. Non solo nella gratuita retorica televisiva (Netanyahu si riferisce spesso alla lotta al coronavirus come una battaglia “fatale” in cui tutti gli israeliani devono mobilitarsi) ma anche nella determinazione a colpire, quando necessario, gli interessi dei monopoli e dei gruppi organizzati di pressione a beneficio della collettività. Si tratta in sostanza – secondo un analista del giornale economico Marker – di utilizzare l’irruzione del virus per una vigorosa ridistribuzione del benessere nazionale, una sorta di “New Deal” alla Roosevelt per la riduzione del divario fra le ristrette élite economiche-finanziarie e i settori più colpiti. Ad esempio, un milione di ebrei ortodossi e un milione e mezzo di arabi. Per uscire da quella che Netanyahu definisce già come “la crisi più grave attraversata dal nostro Paese dalla sua fondazione” occorre insomma recuperare la omogeneità sociale del primo Israele, andata gradualmente perduta negli ultimi decenni.

Ora sta al nuovo Governo stabilire se dirigere il Paese verso una società sicuramente più povera ma anche più egualitaria, oppure procedere verso un modello autoritario, caratterizzato cioè da un esecutivo sempre più insofferente dell’opposizione parlamentare, del potere giudiziario e dei media indipendenti. In sintesi, uno degli effetti collaterali del coronavirus potrebbe essere l’aver messo alla prova il sistema immunitario della Prima Repubblica israeliana. Ma speriamo che non tutto il male venga per nuocere. Come nel caso di Sansone che trovò miele nelle fauci di un leone, Me-‘az Yaza’ matok: dal forte ne uscì il dolce.