di Aldo Baquis
Tre ore di corrente elettrica al giorno. Povertà, fogne a cielo aperto, gli “aratri trasformati in spade”. Poteva diventare la Singapore araba del Mediterraneo,
ma a un decennio dal colpo di stato, nella “repubblica islamica palestinese” fioriscono solo moschee, tunnel, campi di addestramento militare. Mentre la popolazione civile paga un prezzo altissimo, la leadership di Hamas precipita nel jihadismo
La “repubblica islamica palestinese” di Gaza compie dieci anni. Sono stati anni rabbiosi e turbinosi, segnati da tre conflitti (2008, Piombo Fuso – Oferet yezukà; 2012, Colonna di Nuvola – Amud anan; 2014, Margine di Difesa – Zuk eitan, secondo i nomi scelti per queste operazioni dall’esercito israeliano) in cui si sono avuti morti, feriti, distruzioni. Malgrado le sofferenze della popolazione, di round in round la leadership di Hamas è andata sempre più militarizzandosi, iniziando fin dagli asili nido la formazione di nuove generazioni di combattenti.
Nella “repubblica islamica palestinese” non c’è spazio per mollezze come cinema, letteratura indipendente, o la elaborazione di alcun pensiero politico alternativo. La leadership di Hamas non ha molto da offrire al popolo, oltre al kalashnikov e alle moschee, ai plotoni di esecuzione dei collaborazionisti veri o presunti e alla prospettiva di una lotta a oltranza contro la “occupazione”. E così facendo Hamas – le cui radici ideologiche affondano nel pensiero dei Fratelli Musulmani egiziani – si propone al mondo arabo come avanguardia dell’Islam politico e come modello da imitare. A dieci anni dal putsch militare del giugno 2007, ha brevemente avuto un solo compagno di strada: l’Egitto del presidente Mohammed Morsi (in carica fra il 2012 e il 2013), ora in carcere su ordine del suo successore, il generale al-Sisi. Fra i suoi sostenitori, spiccano Turchia e Qatar. Vista dall’esterno, la striscia di Gaza amministrata da Hamas è un luogo tutt’altro che invogliante: un vero peccato perché – sfruttando la sua collocazione geografica affacciata sul Mediterraneo e vicina alle spiagge vergini e ai mari pescosi del Sinai settentrionale – facilmente avrebbe potuto trasformarsi in un paradiso per il turismo europeo, in particolare per quello invernale dalla Scandinavia. Poteva magari essere un’altra Singapore: invece di recente Haaretz ha pubblicato un reportage su migliaia di palestinesi profughi in Grecia, dopo essere fuggiti da Gaza per allontanarsi da un regime a loro insopportabile.
Era l’estate 2005 quando il premier Ariel Sharon, cancellando con un colpo di spugna anche le sue attività di colonizzazione ebraica dei 30 anni precedenti, sgomberò il Gush Katif, la zona ebraica di Gaza dove vivevano ottomila israeliani, per lo più agricoltori. Gli aratri divennero spade, e gli appezzamenti agricoli si tramutarono in campi di addestramento militare di Hamas e della Jihad islamica. Alle elezioni dell’Anp del 2006 il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, uscì vincitore e fu eletto premier. Ma la coabitazione col presidente Abu Mazen (al Fatah) sarebbe stata ricca di frizioni. Fiutando la debolezza degli apparati di sicurezza dell’Anp, nel giugno 2007, in cinque giorni di combattimenti nelle strade di Gaza, Hamas riuscì a espugnare i centri del potere e a espellere i fedeli di Abu Mazen. Al termine della battaglia si contarono 160 morti. Da allora il presidente palestinese – che pure è di casa nelle capitali di tutto il mondo – a Gaza non è più tornato, temendo evidentemente per la propria incolumità. Per anni la sua villa privata a Tel el-Hawa è stata occupata da militari di Hamas. Anche la villa di Yasser Arafat fu allora saccheggiata dai miliziani islamici: solo di recente è tornata a fungere da museo. L’anniversario della morte di Arafat non può essere celebrato a Gaza, perché Hamas non ama la presenza nelle strade di seguaci di al-Fatah. Se si deve presentare alle nuove generazioni un padre della Patria, questi è semmai lo sceicco Ahmed Yassin: l’ideologo paraplegico che predisse la distruzione di Israele entro il 2025, che organizzò le prime cellule delle Brigate Ezzedin al-Qassam (il braccio armato di Hamas), che lanciò contro Israele autobombe e kamikaze, e che fu ucciso in una “esecuzione mirata” israeliana mentre si recava a pregare in moschea. Un mito locale, una sorta di Che Guevara islamico.
«Abbiamo resistito dieci anni, possiamo resistere altri dieci» ha detto di recente Sallah el-Bardawil, un dirigente locale di Hamas. Il suo senso di orgoglio – condiviso indubbiamente anche dagli altri leader, fra cui Ismail Haniyeh e Yihia Sinwar – deriva dal fatto indiscutibile di aver trasformato in questo periodo Gaza in un bastione fortificato dove l’esercito israeliano esita a entrare. Non solo: che è adesso in grado di minacciare a sua volta lo Stato ebraico con i suoi missili di lunga gittata; con i suoi tunnel scavati sotto al confine che si allungano nella terra del Negev; con i suoi uomini rana che potrebbero comparire a sorpresa sulla spiaggia di Ashqelon; o con i suoi droni che potrebbero montare ordigni e schiantarsi su obiettivi civili. Nei discorsi pubblici dei suoi dirigenti, Hamas si presenta come una sorta di Iron Dome: uno scudo difensivo a protezione dei due milioni di abitanti. La disponibilità di Abu Mazen a un negoziato con Israele, aggiungono i dirigenti di Hamas, si è rivelata sterile e Netanyahu ha continuato la colonizzazione in Cisgiordania. Da qui ne discende, secondo Hamas, che l’unica via “per liberare Gerusalemme e la intera Palestina dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo)” è quella della lotta armata a oltranza. Se un giorno Hamas – che può contare su un esercito di 30 mila uomini – riuscisse a trasferire le proprie capacità militari in Cisgiordania, la minaccia per Israele sarebbe grave.
In passato Hamas ha già cercato di destabilizzare il regime dell’Anp di Ramallah, che ha reagito con arresti in massa. Ma quella partita resta aperta.
Il partito di Dio
Il secondo successo di cui i dirigenti di Hamas si fregiano è quello di aver disseminato l’Islam su base capillare, al punto da potersi definire “Partito di Dio”. L’imposizione della sharya è avvenuta in forma molto graduale, col cucchiaino, quasi senza spargimenti di sangue, ricorrendo di preferenza alla persuasione e alla pressione sociale. Un po’ alla volta le donne hanno compreso che non potevano più andare col volto scoperto, che non potevano più fumare in spiaggia il narghila, che dovevano essere accompagnate da uomini. Nei negozi di libri, i romanzi di evasione sono scomparsi per fare posto a testi coranici. Le manifestazioni, anche di carattere sociale, non sono tollerate. Le attività politiche sono solo di basso profilo. Il malumore trova espressione più che altro nelle reti sociali: anche lì occorre oculatezza, perché ogni tanto intellettuali scomodi sono trascinati in commissariato e là bruscamente interrogati. Un regime, in breve, da Grande Fratello. C’è anche chi si consola: prima del putsch di Hamas, nelle strade c’era il caos, con centinaia di morti in regolamenti di conti. Ora, più o meno, si è affermata una certa sicurezza.
Ma di notte le strade di Gaza sono buie. Di giorno la corrente viene erogata per tre-quattro ore soltanto. L’acqua dei rubinetti non è potabile. Il sistema fognario è in tilt. I liquami si riversano in mare e rendono la spiaggia puzzolente. Negli ospedali le medicine scarseggiano. Così pure il gas da cucina: chi vuole una bombola, deve prenotarla con due mesi di anticipo. «Siamo tornati indietro di un secolo», ha affermato un analista. Come mai tanto disastro? Le Ong internazionali sono concordi nell’attribuirne la responsabilità al blocco imposto a Gaza da Israele (e magari anche dall’Egitto). Ma esso, va ricordato, è una conseguenza del putsch del 2007: ossia della espulsione dai valichi del personale di Abu Mazen e degli osservatori europei di Eubam, a Rafah. Hamas allora respinse le condizioni avanzate dal Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu): il riconoscimento degli impegni dell’Anp verso Israele (ossia un implicito riconoscimento dello Stato ebraico) e la rinuncia al terrorismo. Condizioni che ancora oggi Hamas respinge.
Da anni, da più parti, si cerca di sanare la frattura politica fra Hamas e al-Fatah. Vari accordi di “riconciliazione” sono rimasti sulla carta. Hamas si oppone al ritorno a Gaza di funzionari di Abu Mazen, non vuole consegnare loro le chiavi dei ministeri, di certo non vuole delegare ad Abu Mazen il controllo dell’ordine pubblico nelle strade né tanto meno vuole consegnargli le chiavi dell’immenso labirinto di tunnel e di bunker scavato a fini militari sotto i rioni residenziali di Gaza. «Le Brigate Ezzedin al-Qassam non si toccano, non possono rientrare in alcun accordo con l’Anp», hanno chiarito a più riprese i dirigenti del cosiddetto Hamas politico. Nella loro visione, il presidente della Palestina non potrebbe mai, in alcun modo, chiunque esso sia, controllare le attività di un mini-esercito islamico dotato di missili. Il modello è analogo a quello, disastroso per il Libano, degli Hezbollah.
Hamas, che mette i balzelli sui prodotti contrabbandati dai tunnel provenienti dal Sinai. Hamas, che vende le medicine ricevute gratis dal ministero della sanità dell’Anp. Hamas, che raccoglie le bollette della elettricità degli abitanti di Gaza, ma non ne inoltra gli incassi a Ramallah. La popolazione di Gaza – che di certo non nutre simpatia né verso il governo di Netanyahu né verso l’Anp di Abu Mazen, spesso accusata di corruzione e di dilapidazione di fondi pubblici – sa che il suo problema principale resta Hamas. Le cose, viene detto, migliorerebbero se almeno Hamas normalizzasse le relazioni con Ramallah e con il Cairo (il quale sospetta che esso abbia legami con i gruppi filo-Isis del Sinai).
Le sofferenze provate dai due milioni di palestinesi a Gaza sono indiscutibili. Ma nel trarre un bilancio di dieci anni di esperienza islamica, se fossero liberi di esprimere un giudizio, dovrebbero chiedersi se l’aver intrapreso la strada della lotta a oltranza piuttosto che il “modello Singapore” – ossia se la politica adottata da Hamas del “per noi niente burro, ma cannoni” – fosse ineluttabile. Dovrebbero anche chiedersi se i tre conflitti con Israele fossero necessari, magari conseguenza di una aggressività tutta israeliana, oppure se la escalation sia stata favorita dall’ala militare di Hamas per forgiare nel sangue una Nazione di combattenti. Eletto democraticamente nel 2006, l’anno seguente Hamas ha rovesciato a Gaza le strutture dell’Anp. Da allora la sua propensione ad adattarsi alle regole della democrazia rappresentativa è evaporata. È dunque dubbio che agli abitanti di Gaza sarà mai offerta alcuna opportunità di esprimere una valutazione ragionata sulla performance dei loro dirigenti attuali.
@aldbaq