“Dio voleva che vivessi”, ripete spesso rav Isaak Mizan. Nel corso della recente intervista che il rabbino capo della comunità di Atena ha rilasciato al nostro Bollettino, ci ha voluto raccontare anche la storia di come lui e tutta la sua famiglia riuscirono a salvarsi dalla deportazione.
“I miei genitori, comincia rav Mizan, vivevano a Larissa. Si erano sposati lì e si erano costruiti una casa; non era grande, c’erano tre stanze, ma era accogliente e aveva un bel giardino. Quando gli italiani occuparono la Grecia, arrivarono naturalmente anche a Larissa, dove però non c’erano case vuote dove sistemarsi. Un giorno vedemmo fermarsi nel cortile della nostra casa, una jeep: era quella di un militare italiano che ci chiedeva una stanza dove poter dormire. E i miei genitori lo accolsero”.
“Io avevo 6-7 anni, racconta ancora rav Mizan, ma ricordo quel soldato, era un colonnello. Un bel giovane, elegante; faceva il medico. Rimase nella nostra casa per tutto il periodo dell’occupazione italiana; era diventato come uno di famiglia. Noi parlavamo spagnolo e quindi era facile capirsi”.
La gente di Larissa, spiega rav Mizan, non ha un cattivo ricordo degli italiani. “Quando facevano i controlli nelle piazze, erano gentili; ogni tanto chiedevano le sigarette alla gente del posto. Alcuni avevano l’immagine della madonna nel taschino…”
“Una sera, come sempre, aspettammo Giovanni – così si chiamava il giovane colonnello che ospitavamo – per la cena. Ma non arrivò. Rientrò quando ormai era notte fonda e in fretta e furia preparò le sue cose. Ci disse che anche noi dovevamo fare lo stesso, che dovevamo andarcene al più presto da Larissa, che dovevamo andare sulle montagne”. L’Italia aveva appena firmato l’armistizio e i tedeschi sarebbero arrivati presto a cercarli.
Rav Mizan racconta che il giorno dopo suo padre prese un carro, ci caricò sopra tutto quel che poteva servire, tutto quello che sapeva non avrebbero trovato in montagna – sapone, alcool – e partirono. “Di Giovanni non avemmo più notizia. Lo cercammo alla fine della guerra ma probabilmente, come lui stesso temeva, fu catturato e ucciso dai tedeschi”.
La storia della famiglia Mizan, però non finisce qui.
Quando giunsero sulle montagne, trovarono ospitalità presso una famiglia. “I comunisti, spiega rav Mizan, avevano ordinato alla gente del posto di nascondere gli ebrei. Così, per un pò rimanemmo nascosti nella casa di una famiglia. Poi arrivarono i tedeschi – cercavano da mangiare, avevano fame, come tutti. Trovarono un maiale, lo ammazzarono e chiesero a mio padre – proprio a mio padre! – di macellarlo. E così fece, pur di non farsi scoprire. Alla fine, in cambio, ci diedero del sapone e dell’olio…. Pochi giorni dopo, però, per non mettere in pericolo la famiglia che ci ospitava, ce ne andammo”.
La famiglia Mizan tornava sulla strada. I racconto del rabbino prosegue con l’animosità e l’ironia che l’ha contraddistinto sinora. “Dovevamo trovare un altro posto in cui rifugiarci, ma non sapevamo dove andare” dice. “Lungo la strada, in piena notte, ci fermammo in un campo di spinaci. Avevamo fame, sete…. Vedemmo in lontananza una casa e mia madre andò a chiedere dell’acqua. Spiegò che eravamo ebrei e che cercavamo un posto dove riposarci…allora subito il padrone di casa, disse a mia madre: “Ebrei? Io ogni mattina, davo degli spinaci a un ebreo!’ esclamò. ‘E come si chiamava questo ebreo?’, chiese mia madre. ‘Menahem Salem’, rispose l’uomo. Menahem Salem era il padre di mia madre!”
“Così quell’uomo – Barbajannis si chiamava, ricorda rav Mizan – ci diede ospitalità. ‘Sei la figlia di Menahem Salem? ‘Rimani qui con noi!’, disse. E così facemmo. Di giorno andavamo a raccogliere la frutta sugli alberi e gli spinaci nel campo e la notte dormivamo nell’ovile. Ricordo che faceva un gran caldo là dentro”, dice ridendo rav Mizan. “Una sera era così caldo che ottenemmo il permesso da mia madre di andare a dormire fuori, all’aperto. E proprio quella notte, non so bene cosa accadde, ma crollò il tetto dell’ovile. Ci eravamo salvati ancora! Dio voleva proprio che vivessi!”.