Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Nella Parashà di Terumà leggiamo l’ordine dato dal Signore di costruire il Tabernacolo con tutte le disposizioni inerenti alla costruzione.
Dice la nostra Parashà a proposito della costruzione del Tabernacolo: “L’Eterno parlò a Mosè dicendo: ‘Dì ai figlioli di Israele che mi facciano un’offerta. E accetterete l’offerta di ogni uomo che sarà disposto a farmela di cuore! E questa è l’offerta: oro, argento e rame; stoffe di colore violaceo, porporino e scarlatto; lino fine e pelo di capra; pelli di montone tinte in rosso, pelli di delfino e legno d’acacia… `Faranno dunque un’Arca di legno di acacia: la sua lunghezza sarà di due cubiti e mezzo, la sua larghezza di un cubito e mezzo e la sua altezza di un cubito e mezzo…’” (25,1-10).
Ad una prima lettura si resta meravigliati del fatto che la Torà si dilunghi su una descrizione così minuziosa dei minimi particolari del Tabernacolo da costruire: i materiali da usare, le misure precise da rispettare, la forma esatta di ogni oggetto che doveva essere posto al suo interno.
A una più attenta riflessione ci rendiamo conto però di molti, interessanti risvolti insiti nelle parole del Signore.
Soffermiamoci sulla frase: “E accetterete l’offerta di ogni uomo che sarà disposto a farmela di cuore!”.
Per la costruzione del Tabernacolo non vi sono imposizioni, né ordini, né tasse: il Tabernacolo sarà costruito con il materiale che “ogni uomo sarà disposto a offrire con il cuore” ed esso sarà tanto più bello, tanto più ricco, tanto più imponente, quanto più grande sarà la disponibilità, “il cuore” di chi offre.
Queste parole richiamano alla nostra memoria avvenimenti del passato lontano e meno lontano: dalla costruzione del primo Tempio da parte del re Salomone a quella del secondo Tempio costruito dagli esuli tornati dalla Babilonia; alla Scuola di Jabne, alle Jeshivoth fondate in Giudea e in Galilea e, in particolare in Babilonia; ai Battè Keneseth sorti durante l’arco dei secoli in ogni luogo dove ci fosse un nucleo ebraico. Tutti costruiti sempre con le offerte fatte con il cuore e spesso a costo di gravi sacrifici.
Ma richiamano alla nostra memoria anche gli ordini perentori, emanati dai popoli presso i quali gli ebrei avevano trovato rifugio, di “pagare” sempre, e dovunque, per acquistarsi il diritto di mantenere integra la propria identità culturale e religiosa; a volte persino per salvare la propria vita, perché erano, ed erano voluti restare, ebrei.
Per tornare alle disposizioni riguardanti il Tabernacolo, ripetiamo, ci si chiede: perché soffermarsi così minuziosamente sul modo, sui materiali, sulle misure?
E perché dedicare tanto tempo e tanta cura alla costruzione di un Tabernacolo nel deserto, luogo transitorio da cui gli ebrei ben presto sarebbero usciti per prendere dimora nella terra a loro destinata dove avrebbero potuto costruire il vero Tabernacolo, il Tempio, imponente e definitivo?
Gli uomini hanno bisogno di svolgere un’attività fisica che soddisfi la loro necessità di sentirsi utili e creativi. La forzata inattività alla quale la lunga permanenza nel deserto li costringeva poteva perciò divenire molto pericolosa.
La costruzione del Tabernacolo, oltre al suo altissimo valore religioso, appagava quindi anche una fondamentale esigenza del popolo che veniva così chiamato a compiere un’opera materiale, ma destinata all’elevazione dello spirito.
Una costruzione, inoltre, che favoriva un continuo contatto fra i suoi membri, una continua collaborazione alla quale tutti erano chiamati: gli uomini per i lavori in legno e in metallo, le donne per i ricami previsti sulle tende del Tabernacolo e, presumibilmente, perfino i bambini chiamati a collaborare in mille piccoli servizi, partecipi quindi fin dall’inizio di questa solenne opera che, pur priva di statue e di immagini, era ricca di colori e di stimoli che richiamavano continuamente l’attenzione e l’impegno a una vita nuova, improntata ad un incessante impegno morale!
Un’attività che, essi sapevano, avrebbe portato la “Shechinà”, la Maestà Divina, in mezzo al popolo come è solennemente affermato all’inizio della Parashà: “Costruiranno per Me un Tabernacolo e Io dimorerò `in mezzo’ a loro” (25,8).
Ed è importante sottolineare che la Maestà Divina avrebbe dimorato non tanto nel Tabernacolo, quanto `in mezzo ai figli di Israele’ che lo avevano costruito.
La presenza dell’Eterno `in mezzo’ al popolo, la continua vicinanza del “Santo” che si appresta a restare vicino a un “popolo santo”, non è cosa da poco. Essa richiede un’attenzione continua ad ogni particolare; ed è in questo senso, anche simbolico, che vanno interpretate le minuziose disposizioni dell’Eterno relative alla costruzione: perché all’obbedienza alle regole per la costruzione faceva riscontro l’obbedienza minuziosa anche a tutti i nuovi precetti morali a cui l’ebreo, con la consegna della Torà, avrebbe dovuto conformarsi.
È necessario tener presente che ogni frase, ogni parola della Torà come di tutta la Bibbia non ha un solo significato; ha anche un senso simbolico più ampio come si deduce dal versetto “Una parola ha detto Dio, due ne ho udite…” (Salmi 62,12).
Ricordiamo quindi che il Tabernacolo e tutte le sue suppellettili, oltre al loro significato letterale, avevano un significato simbolico e costituivano per tutti i figli d’Israele un richiamo costante ai princìpi etici, morali, religiosi dell’ebraismo.
Comprendere tale significato ci aiuterà a mettere in rilievo alcuni insegnamenti di grande valore spirituale.
La prima suppellettile descritta nella nostra Parashà, l’“Aròn”, “l’Arca”, è un esempio di quanto abbiamo affermato. Nell’Aròn erano contenute le Tavole del Patto che costituivano un continuo richiamo per il popolo di Israele, depositario della Rivelazione divina, ai suoi doveri.
Di Elia Kopciowski