di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Razzismo, pregiudizio, antisemitismo non sono parole necessariamente equivalenti, anche se spesso sono usate come termini intercambiabili. Ancora meno si può pensare all’antisemitismo semplicemente come al “razzismo contro gli ebrei”. Pur intersecandosi, nelle sue molteplici manifestazioni, con i razzismi, esso presenta anche – e soprattutto – delle peculiarità che lo rendono un fenomeno per più aspetti autonomo. Le società postcoloniali lamentano da sempre il pesante lascito delle potenze europee egemoni, avendo tuttavia costruito su di esso una rappresentazione di sé che si basa, molto spesso, su una diffusa convinzione, ossia di essere vittime per definizione e, quindi, di meritare un risarcimento a prescindere da qualsiasi riscontro politico.
Soffermiamoci quindi sulla saldatura tra i cascami di un antirazzismo vittimistico, su quel che residua di un terzomondismo che è oramai solo più la pallida ombra di se stesso (ma, al medesimo tempo, continua a presentarsi come ideologia della liberazione dall’oppressione) e le trasformazioni del discorso politico in mero populismo. A ciò aggiungiamo il mutamento socio-demografico, quest’ultimo fenomeno di grande rilevanza nel nostro Continente. La linea di demarcazione del “nuovo” antisemitismo si colloca all’interno di queste dinamiche, in una sorta di sistema a rete. Si tratta di una somma di elementi che, dal momento in cui entrano in contatto, costituiscono un campo di relazioni e istituiscono modi di vedere e pensare il presente che vanno poi consolidandosi e diffondendosi nella lingua e nelle percezioni di senso comune.
Troppo spesso si ritiene ancora che il pregiudizio antisemitico sia depositato esclusivamente a destra, in quella cosiddetta “radicale”, così come nel milieu del tradizionalismo cattolico più reazionario.
Oggi il campo prospettico è ben più variegato. Il rapporto con il mondo musulmano, infatti, nella sua problematicità, sta concorrendo attivamente a mutare i termini delle questioni di fondo.
Il primo punto sul quale riflettere è che l’Islam è una somma di realtà molto diversificate, in costante trasformazione e in tensione tra di loro, se non addirittura in reciproco contrasto attivo. Ragion per cui, comunque si intenda affrontare le cose, l’impossibilità di avere degli interlocutori sufficientemente legittimati costituisce lo scoglio contro cui si va inesorabilmente ad infrangersi, da subito, quando si cerca una qualche linea di confronto. Un secondo aspetto, che è tutto fuorché di lana caprina, è il sapere distinguere tra la variegata presenza musulmana in Europa, sempre più consistente, e l’ideologia del radicalismo islamista, in tutte le sue declinazioni. Non si può regalare la rappresentanza della prima alla seconda. Anche solo il differenziale demografico è tale da fare sì che qualsiasi azione di contrasto al pregiudizio debba tenere in considerazione questo aspetto, per non cadere, invece, nella trappola di attribuire a tutti quello che è invece un cavallo di battaglia di certuni. Per il fondamentalismo, infatti, non esiste migliore premio che il vedersi attribuire un ruolo che non deve in alcun modo conquistare, ossia quello di essere inteso come ideologia del riscatto. Un terzo passaggio critico è la saldatura, che si riversa nel “nuovo” antisemitismo, tra un atteggiamento di totale adesione alla “causa” palestinese, assunta acriticamente, senza che di essa se ne voglia conoscere l’evoluzione storica; la demonizzazione di Israele, intesa come la reincarnazione collettiva dell’ebreo infido e infingardo, appartenente al vecchio immaginario antisemitico, oggi rinverdito e riportato a nuovi fasti; il rigetto del “sionismo”, parificato al nazismo.
Già si è avuto modo di parlare della “leggenda nera” che chiama in causa lo Stato degli ebrei, fino all’accusa di praticare una sorta di genocidio ai danni dei palestinesi. Il fatto che tali affermazioni possano rasentare l’assurdo nulla toglie alla loro forza persuasiva e al loro moto propulsivo. Poiché si è in presenza di una vera e propria mitologizzazione del discorso antiebraico, procedura che è propria di tutti gli antisemitismi. Nell’inverosimiglianza riposa la plausibilità dell’accusa.
Gli elementi della mobilitazione sono quindi l’antisionismo radicale, la mistica della “Palestina” come terra edenica occupata dal diavolo e l’islamizzazione del discorso politico. Nell’antisionismo radicale gli ebrei non sono più avversati nella loro natura di “semiti” bensì per l’essere “sionisti” tout court. Ed i “sionisti” sono un male radicale, al quale si può emendare solo eliminando Israele, equivoco storico e soggetto abusivo nel consesso delle Nazioni. L’obiettivo può essere concretamente raggiunto esclusivamente delegittimando e criminalizzando il fatto stesso che esista, con il conferirle una veste nazista e razzista. Di fatto queste stigmatizzazioni raccolgono un discreto grado di consenso in una parte dell’opinione pubblica internazionale. Si tratta di automatismi introdotti nel tempo, soprattutto a partire dal 1967, e consolidatisi in decenni di scivolamenti di significati, idee e opinioni.
Per ragionare sull’attualità dell’antisemitismo bisogna quindi ripartire da questo orizzonte. Non è esclusivo, incrociandosi ed ibridandosi con ciò che arriva dal passato, ma riassume i termini di un mutamento in atto, dove il pregiudizio antiebraico è solo un indice di un più generale processo di mutamento sociale, politico e culturale che chiama in causa le nostre società, nell’età della globalizzazione.