Hannah Arendt

Hannah Arendt: alla ricerca del filo d’oro che lega ogni cosa

Libri

di Fiona Diwan

“Imparo a fare l’ebreo perché ho finalmente capito di esserlo”, gli dice Walter Benjamin durante una conversazione. C’è anche Kurt Blumenfeld, l’arcisionista, con cui Hannah ha accese discussioni, ma Kurt è diverso, è un ebreo come piace a lei, uno che non si scusa di essere così com’è in un tempo in cui essere ebreo è una disgrazia che può ucciderti se incontri i nazisti. C’è anche Gershom Sholem a cui Hannah scrive lettere, mentre le vengono in mente nuovi versi e rime. Hannah Arendt lo sa: le parole dei poeti accendono l’amore per il mondo. Per questo scrive poesie. Certo, non sono le Elegie duinesi, non è Rilke, ma pazienza. La Poesia è una ladra piena di allegria, si prende ciò di cui ha bisogno: ritmo, rima, immagini. Solo la poesia sa restituire il respiro intimo del mondo, la sua gioia e le sue lacrime. Come ci si espone alla vita? Come si sceglie di vivere? Sul “ciglio della strada”? O percorrendo “vie battute”? O ancora scegliendo il “lussureggiante mondo estraneo”? Dentro, fuori, di traverso, contro, accanto: quale la posizione giusta? Come si vive la vita?

Cullata da un sorridente disincanto, Hannah Arendt scrive versi di chi sa farsi piccolo davanti all’universo pieno di stelle: «Quel che siamo e sembriamo / oh, a chi importa. / Quel che facciamo e pensiamo / non toglie il sonno a nessuno». Con ironia, Hannah sa che alla fine tutte le vite si somigliano e si sciolgono nel rapporto tra «quel che siamo e quel che sembriamo».

Ricordi, sogni riflessioni. E poesia. Sì, la poesia è un’altra grande protagonista di questo intenso e bel romanzo di Hildegard E. Keller, germanista svizzera che insegna all’università di Zurigo: non una biografia erudita ma un romanzo storico poderoso che è un viaggio narrativo sulle tracce di una filosofa amata e attualissima, la cui storia di formidabile donna di pensiero sa lasciare ancora il segno.

Ciò che interessa Hannah Arendt è il filo d’oro che lega ogni cosa, il senso di un cammino e di un destino, che si tratti di raccontare personaggi come Rahel Varnhagen, Rosa Luxemburg, Papa Roncalli o Adolf Eichmann. Ai suoi allievi all’Università, Arendt insegna a coltivare lo spirito critico e a porre quesiti: la domanda mostra come la pensa colui che la pone, e soprattutto se pensa. Hannah detesta la psicoanalisi, quella mania di guardarsi l’ombelico, come se davvero fosse mai possibile conoscere se stessi, per poi magari dare la colpa ai propri genitori di come si è diventati, evitando così di prendersi le proprie responsabilità. O addirittura pensare che il “conosci te stesso” di Socrate sia qualcosa di simile alla psicoanalisi! Quale banalità! La scrittrice H. Keller entra e esce con mirabile pudore e sensibilità dagli aspetti più delicati o spettacolari della vita di Arendt, dal suo tumulto passionale e dagli abissi riflessivi che la attraversano.

Personaggi, eventi storici epocali, incontri, viaggi. Naturalmente ci sono Martin Heidegger, Karl Jaspers, Ingeborg Bachmann, Israele e il processo Eichmann, quando Arendt è reporter per il New Yorker e scrive articoli che poi diventeranno il suo saggio più celebre e controverso, La banalità del male. Un romanzo che ne ripercorre la vita e le intuizioni, che è la parabola intellettuale ed esistenziale di un personaggio polifonico, libero, anticonformista: gli amori, i libri e l’affioramento del pensiero che si produce mentre Hannah scrive, viaggia, incontra amici. Il respiro intimo di una vita spericolata.