di Ilaria Ester Ramazzotti
A Jaffa, cuore antico della costa mediterranea dell’area di Tel Aviv, c’è un caffè ed enoteca normalmente molto affollato il giovedì sera, inizio del fine settimana israeliano. Si chiama Al Hambra Deli e si affaccia sul Jerusalem Boulevard, una delle arterie principali della città, proprio sul percorso della metropolitana leggera di Tel Aviv, recentemente inaugurata, e non lontano da uno stadio di calcio. Ma questa settimana le sue porte sono chiuse e un cartello affisso fuori recita così: “Amato quartiere, metà di noi è nell’esercito e l’altra metà sta proteggendo le sue case. Vi vogliamo bene e attendiamo di poter tornare. Lo staff”.
La testimonianza è stata raccolta dalla Jewish Telegraphic Agency cinque giorni dopo l’attacco di Hamas che ha ucciso e ferito migliaia di persone nel sud del Paese. Da allora, nelle strade di Tel Aviv e Gerusalemme è calato un silenzio agghiacciante, interrotto solo dalle sirene che avvertono dell’arrivo di missili. Le scuole sono chiuse e i residenti si danno da fare per offrire aiuto in qualche modo, affrontando le conseguenze fisiche ed emotive del massacro e della guerra che Israele sta combattendo contro Hamas a Gaza.
Nel frattempo, dall’inizio della settimana, gli scaffali dei supermercati si sono svuotati e le autorità hanno raccomandato agli israeliani di fare scorta di cibo per tre giorni. Shufersal, la più grande catena di negozi di alimentari, ha imposto limiti all’acquisto di pane, acqua in bottiglia, latte e uova. Soprattutto, continuano a emergere dettagli sulle atrocità commesse nel sud e 300.000 israeliani sono stati richiamati come riservisti nell’esercito. I razzi continuano a colpire le città israeliane e gli attacchi aerei israeliani colpiscono Gaza, mentre il Paese si prepara a quello che probabilmente sarà un conflitto prolungato.
“Viviamo in uno stato di paura permanente – ha detto alla Jewish Telegraphic Agency Inès Forman, 29 anni, scrittrice franco-israeliana, descrivendo i giorni appena trascorsi a Tel Aviv -. Sento ansia e paura nel mio corpo ogni secondo in cui sono sveglia”. Forman si è impegnata a diffondere sui social media le notizie sul massacro del sabato precedente. Molti dei post di Instagram sul suo profilo riguardano l’arte o la letteratura, ma le immagini che ha condiviso nelle ultime 24 ore sono di tipo diverso: ha pubblicato i video ampiamente diffusi dei reporter che descrivono le scene viste nelle città al confine con Gaza, oltre a foto e video che condannano Hamas e i suoi sostenitori. “Stiamo lavorando per combattere le fake news... in pratica tutto il giorno”, spiega a proposito della sua nuova quotidianità, che prevede di svegliarsi alle cinque o alle sei del mattino e di lavorare fino a tarda notte. A parte lo scorso giovedì, quando ha partecipato al funerale della sorella minore di un’amica, Shira Eylon di 23 anni, che si credeva essere nelle mani dei rapitori fino al ritrovamento del suo corpo fra i morti del massacro del festival musicale vicino al Kibbutz Re’im. “Mia bella e pura fata, oggi hai ricevuto le ali. Ti amerò per sempre”, aveva scritto per lei la sorella maggiore su Instagram, annunciando la sua dipartita.
“Non c’è nessuno che non abbia una persona cara che sia stata uccisa o qualcuno che conosce, un amico o una persona cara, che sia stato ferito o fatta prigioniero – ha sottolineato Melanie Landau, terapista australiana-israeliana di 50 anni che vive nel quartiere Baqa di Gerusalemme – Molte persone sono coinvolte in prima persona e sono in ansia per i loro cari”. Poi, ha aggiunto, ci sono anche momenti più “edificanti: la resilienza e la forza dello spirito umano sono state messe in luce durante questa settimana”. “Molte persone sono sovraesposte a molte immagini e credo che questo faccia parte della battaglia – ha evidenziato Landau -. Ma non dobbiamo perdere la fiducia nell’umanità e non dobbiamo farci trascinare da tutto questo”.
A Tel Aviv, molti residenti hanno lasciato le loro case per recarsi all’estero o in un’area di Israele più lontana da Gaza, offrendo i loro appartamenti come alloggi per i rifugiati delle aree del nord e del sud del Paese che sono state evacuate. Diverse persone hanno descritto la città, normalmente affollata, come una “città fantasma”. Alcuni altri si sono invece trasferiti più all’interno della zona di Tel Aviv. Lotte Beilin, reporter trentenne britannico-israeliana, per esempio, alloggia nell’appartamento di un amico perché il suo palazzo è più vecchio e non ha un rifugio di sicurezza. “Le strade della città – riferisce sempre alla Jewish Telegraphic Agency, che ha raccolto tutte queste testimonianze – sono così silenziose che si sentirebbe cadere uno spillo”.
In tutto il Paese sono inoltre in corso molte iniziative finalizzate a raccogliere i rifornimenti necessari alle centinaia di migliaia di soldati che sono arrivati alle loro basi privi di alcuni beni essenziali. Lee Mangoli, trentaduenne canadese-israeliana, insegnante di yoga a Tel Aviv, racconta: “Domenica scorsa ho iniziato a uscire dallo shock e ho capito che dovevo fare qualcosa per aiutare”. Così, con un’amica, ha iniziato a raccogliere cibo e altri prodotti di prima necessità, come shampoo e calze. Ben presto, il loro piccolo progetto “è esploso con l’arrivo di denaro dall’estero”. Sebbene non ci siano stati problemi nel raccogliere fondi, il suo gruppo ha incontrato difficoltà nel reperire le forniture. “Non riusciamo più a trovare la merce – evidenzia -. UPS e Fedex al momento non consegnano in Israele e alcuni articoli molto richiesti, come i coltelli multiuso Leatherman, sono quasi impossibili da reperire”.
Per altri, come Becky Schneck, 36 anni, fisioterapista e madre di quattro figli piccoli, il peso della chiamata del marito come riservista nell’esercito, oltre alla chiusura delle scuole fino a nuovo avviso, è stato troppo schiacciante per permetterle di prendere in considerazione l’idea di offrirsi come volontaria. “Sono talmente impegnata da non poterci nemmeno pensare – svela -. Non ho la capacità emotiva per gestire tutto quello che sta succedendo a casa mia e anche quello che sta accadendo nel Paese”. I vicini della sua comunità di Tzur Hadassah, fuori Gerusalemme, si sono attivati per portare cibo alle famiglie come la sua.
Non sempre è possibile portare avanti iniziative di volontariato, neppure per alcune organizzazioni. Masa Israel, un gruppo di riferimento per l’organizzazione di programmi di “anno sabbatico”, ha dichiarato poco dopo il massacro che nessuno dei suoi 5.700 borsisti è stato ferito, ma almeno uno dei suoi progetti è stato chiuso: si tratta del Yahel Social Change Fellowship, che impegna i suoi partecipanti in attività sociali e di volontariato in tutto Israele. “Con il cuore pesante, il consiglio e lo staff di Yahel hanno preso la difficile decisione di sospendere temporaneamente la Yahel Social Change Fellowship fino a quando la situazione non si sarà calmata”, ha dichiarato il direttore esecutivo Dana Talmi.
Altre e organizzazioni riescono invece ad andare avanti. All’Istituto di studi ebraici Pardes di Gerusalemme il personale “sta facendo del suo meglio per sostenere gli studenti per quanto umanamente possibile – ha detto il preside Meesh Hammer-Kossoy -. Nonostante la guerra, la Pardes è molto attiva. Ci riuniamo con determinazione per pregare regolarmente e cerchiamo di studiare nel miglior modo possibile”. Dei circa 80 studenti che studiano tutto l’anno, 18 hanno partecipato alle lezioni via Zoom dall’estero.