L’ebraico “interiore” di Erri De Luca: segni di un amore letterario nei racconti sull’acqua

Libri

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture]

Non esiste al mondo un libro che abbia avuto più influenza della Torà di Israele, che sia stato altrettanto tradotto, commentato, discusso, riscritto. E non c’è una lingua che abbia avuto una vicenda così straordinaria come l’ebraico, dalla sua iniziale creatività letteraria e poetica registrata proprio nella Torà, alla limitazione all’uso dotto e liturgico, fino alla rinascita attuale. Per capire la Torà, per pregare, per le relazioni con altre comunità, tutti gli ebrei hanno studiato l’ebraico anche nei molti secoli in cui parlavano yiddish o ladino o giudeo-romanesco o arabo; e per tornare alle fonti della loro stessa tradizione l’hanno studiato i dotti cristiani, a partire almeno da Gerolamo. Il doppio fascino del Libro dei libri e della sua lingua è dunque un dato comune.

Ma vi sono in questa storia degli innamoramenti fuori dal comune. Uno recente è quello di Erri De Luca, scrittore talentuoso e controverso, coerente militante politico della sinistra estrema, amante della montagna, cristiano in maniera molto personale. De Luca si è imbattuto da giovane nell’ebraico biblico, lo ha studiato con passione divorante e si è dedicato a tradurre frammenti della Scrittura ebraica: Esodo/Nomi del 1994, Poi Giona, Qohelet, Rut, Vita di Noè. Le traduzioni di De Luca sono programmaticamente “appiattite”, “schiacciate” sull’ebraico: per esempio riproducono la costruzione tipica del testo biblico che premette il verbo al soggetto, omettono il verbo essere al presente, e del tutto “avere”, riflettono “la splendida brutalità della lingua” e le sue metafore, non temono ripetizioni, anacoluti, salti grammaticali.

Un’invenzione particolare riguarda il nome divino di quattro lettere, impronunciabile per la tradizione ebraica, reso con il nome della sua prima lettera, “iod”. Il risultato è una prosa molto ispida, spesso forzata, ma insieme solenne e musicale, che dà anche al lettore non familiare con l’ebraico il senso della potenza del testo. Un ricco apparato di note è necessario per assicurare la comprensione al lettore che non conosce almeno un po’ l’ebraico e la Torà.


Nei suoi lavori recenti De Luca ha rinunciato a questo lavoro di traduzione, scrivendo con lo stesso linguaggio storie inventate da lui sulla base del testo biblico. Un esempio è Cercatori d’acqua, appena pubblicato da Giuntina. Sono otto racconti brevi, alcuni brevissimi, debolmente legati dal tema dell’acqua: nella creazione, nella memoria personale che De Luca ha dei rabdomanti, nella vita dei patriarchi con i pozzi, in una enigmatica variazione intorno al tema della chiamata di Mosè. Ma vi sono anche due storie intorno alla legatura di Isacco. Si vede che De Luca ha presente il modello del midrash, la narrazione tradizionale che integra e spiega il racconto biblico, spesso assai laconico. Ma la differenza è grande, non solo per i riferimenti cristiani che emergono ogni tanto, ma soprattutto per il fatto che questi racconti non vogliono insegnare nulla, salvo le spiegazioni che vengono date sui dettagli della Torà, non portano a una morale. Sono libere variazioni di temi biblici, che fanno pensare e immaginare. Testimonianze di un amore letterario senza pretese di verità.