di Cyril Aslanov
[Ebraica: letteratura come vita] Con Neshamot/Anime, pubblicato nel 2020 nell’originale ebraico e nel 2023 in traduzione italiana, Roy Chen riprende la formula dell’affresco storico Mar Mani (Il signor Mani) di Abraham B. Yehoshua, introducendoci due innovazioni che trasformano profondamente questo genere letterario.
La prima innovazione consiste nel supporre che i protagonisti si reincarnino di generazione in generazione guardando dei ricordi delle loro vite precedenti e preservando persino l’iniziale dei propri nomi come segno di riconoscimento. E così che Ghetz, un ragazzino ebreo della regione di Kyiv che visse nel periodo della dominazione polacca, cioè 28 anni prima dei pogrom di Chmielnicki, e la sua sorellina Ghittel si ritrovano a Venezia nel 1720 con i nomi di Ghedalia, giovane ebreo levantino, e Gheyle, un’ashkenazita di Verona. Gheyle ha conservato le stigmate dei morsi fatali che hanno ammazzato la piccola Ghittel, attaccata da un cane di gente antisemitia che cercava di castigare degli ebrei dopo la morte accidentale di un ucraino. Ormai Ghedalia e Gheyle non sono più fratelli ma due giovani che si piacciono a vicenda.
Nella tappa successiva, il lettore ritrova queste anime erranti a Fez nel 1856 con un’inversione interessante dei sessi: Ghetz/Ghedalia è diventato Gimol, una giovane ebrea costretta ad esercitare il mestiere più antico del mondo, mentre Ghittel/Gheyle è rinata nel corpo di Gavriel, un ebreo gibilterriano che lavora come traduttore al Consolato britannico di Fez. L’ultimo avatar è macabro e abbastanza assurdo poiché la coppia G-/G- si ritrova nel campo di concentramento di Dachau nel 1943 reincarnata come Gretchen, nome tedesco stereotipato, e Golia, appellativo ironico ed antifrastico di una pulce addestrata a fare delle acrobazie in un piccolo circo improvvisato.
La secondo innovazione è l’idea di mettere in scena il processo di produzione del libro. L’autore Grisha Tsirulnik sembra un doppio narrativo dell’autore Roy Chen, e sua madre Marina è una donna russa non ebrea diventata custode di un museo a Tel Aviv. Questa madre, il cui ebraico approssimativo viene trasposto in un italiano deliberatamente sbagliato, legge di nascosto il manoscritto del figlio ed esprime le sue critiche acerbe nei confronti di quest’opera in fieri. Le sue riflessioni metaromanzesche si inseriscono in vari episodi della trasmigrazione delle anime: fra l’Ucraina polacca e la Venezia dei Dogi, fra quest’ultima e Fez, fra Fez e Dachau e fra quest’ultimo avatar e la presa di parola di Grisha stesso che pretende anche lui essere la reincarnazione dei suoi protagonisti.
Che questo romanzo sulla metempsicosi che poi si trasforma in metaromanzo sia l’opera di un drammaturgo si percepisce attraverso la distanza che il narratore mantiene nei confronti degli universi descritti: a proposito della vita nell’Ucraina polacca all’epoca barocca, il narratore descrive da una prospettiva esterna alla narrazione come in quei tempi la luce del giorno e il buio della notte fossero diversi della nostra esperienza sensoriale di questi fenomeni fisici (pp. 20 e 54 della traduzione italiana).
Nel capitolo dedicato a Fez il narratore fornisce forse in modo un po’ troppo didattico la ricetta del tè alla menta marocchino. Solo nell’episodio veneziano e negli intermezzi metaromanzeschi il narratore cancella la sua presenza.
Un’altra evoluzione nello sviluppo di questa narrativa è la presa di coscienza progressiva dei protagonisti di essere reincarnazioni di anime vissute nei secoli precedenti. Nella borgata ucraina non c’è tale consapevolezza poiché Ghetz e Ghittel sono probabilmente all’inizio delle loro trasmigrazioni. A Venezia solo Ghedalia capisce di aver incontrato Gheyle in una vita precedente, ma lei non ne è così sicura. A Fez sia Gimol che Gavriel sanno chi siano stati nelle loro esistenze anteriori. Solo l’ultima reincarnazione (o la penultima se consideriamo l’autore Grisha come parte del ciclo) sembra opaca per i protagonisti, probabilmente perché ha luogo durante la Shoah in un campo di concentramento.
Il drammaturgo Roy Chen ha una relazione particolare e paradossale con la Russia e l’universo degli ebrei o semi-ebrei dell’ex-Unione Sovietica. Nato nel 1980 (un anno prima del suo protagonista-autore Grisha) ha imparato il russo da solo nonostante non avesse nessun legame biografico con la Russia o il mondo ebraico est-europeo. Per le sue origini è più vincolato al sefardita veneziano Ghedalia e ancora più agli ebrei marocchini di Fez. Eppure, ha capito con una rara capacità di empatia quale fosse stata la condizione degli ebrei russi nell’Unione sovietica e poi, in Israele, dopo la loro emigrazione nella terra ancestrale. Per di più, Roy Chen lavora da drammaturgo nel famoso teatro Ghesher (“Ponte”) che venne fondato nel 1991 a Giaffa, la città dove vivono Grisha e sua madre. Come lo accenna il suo nome di “Ponte”, questo teatro è concepito come una passerella fra il palcoscenico russo e quello israeliano. L’inizio della storia del teatro nella Palestina mandataria coincide infatti con l’arrivo a Tel Aviv della compagnia teatrale ebraica Ha-Bima, nel 1928, due anni dopo avere lasciato Mosca dove per 8 anni (1918-1926) era stata formata dal discepolo di Konstantin Stanislavski, Ievgheni Vahtangov. In questo senso Anime, sceneggiatura del tema cabalistico della trasmigrazione delle anime, può essere letto come un’allegoria della società israeliana, dove ogni ebreo porta in sé il ricordo spesso traumatico delle diaspore da dove proviene o da dove è emigrata la sua famiglia.