“Nelle università in Israele arabi ed ebrei sono parte di un percorso comune, anche dopo il 7 ottobre”. Intervista a un esperto di dialogo interreligioso

di Cosimo Niccolini Coen *
Sempre di più, in Italia come nel resto dell’Occidente, prende piede l’idea secondo la quale Israele costituirebbe uno Stato di Apartheid. Da diverse parti, inoltre, viene sostenuto che nel mondo accademico israeliano non vi sia libertà di espressione o che, se vi era prima dell’attacco di Hamas del 7 Ottobre, essa sia stata sacrificata in nome dello stato di emergenza. Allorché si portano questi argomenti si fa riferimento ad alcune normative che sanzionano quanti esprimano sostegno alle azioni terroristiche. Per affrontare tali questioni, a partire dall’attualità e fino a toccare il tema del pluralismo nella società israeliana e il rapporto tra pensiero ebraico, etica e politica, abbiamo parlato con Hanoch Ben Pazi, professore al dipartimento di Filosofia ebraica di Bar Ilan, di cui è stato a capo per diversi anni, specialista del pensiero di Martin Buber e Emmanuel Levinas, e impegnato nel dialogo interreligioso. Tra le sue molte pubblicazioni scientifiche, si ricordano i volumi: Zionism: A Levinasian view. Identity. Ethics. Responsibility (Hakibbutz Hameuchad, 2017), Interpretation as an Ethical Act. Levinas’ Hermeneutics (Resling, 2012) e il suo ultimo libro Hebrew Humanism – Humanistic Judaism (Idra Academic, 2023). In questa intervista gli rivolgiamo alcune domande sulla situazione nelle università israeliane.

Ben Pazi

Professore, come risponderebbe a queste accuse, su cui si basano le campagne di boicottaggio alle università israeliane?

Le Università israeliane sono completamente aperte a tutti, cittadini ebrei e non ebrei, arabi e di ogni altra minoranza, in modo eguale. Ogni dipartimento, ogni progetto universitario, è accessibile a ogni cittadino di Israele, senza distinzione, così come agli studenti, di ogni nazionalità e religione, provenienti dall’estero. Questo è vero anche nel nostro dipartimento: uno dei membri del corpo docenti è il Dottor Khalid Abu Ras, che insegna la filosofia islamica, così come abbiamo studenti musulmani che si interessano di filosofia ebraica. Più in generale, l’indagine e la valorizzazione del rapporto tra pensiero ebraico e islamico fa parte delle nostre attività e vocazione: vi sono infatti diversi progetti condivisi tra il nostro dipartimento e quello di cultura e lingua araba.

Esprimendomi ora a livello personale, posso dire di aver avuto un grande timore, successivamente al 7 ottobre, rispetto a cosa sarebbe successo una volta riaperti i campus e rincominciati gli studi [l’anno accademico è iniziato con diversi mesi di ritardo a causa della guerra, ndr]. Vi era molta paura e tensione nell’aria. E posso dire di esser stato molto stupito, in positivo. La vita nel campus è rincominciata come prima: se giri per il campus di Bar Ilan vedi, proprio come prima, studenti ebrei e arabi, tra cui vi è un clima convivale. Le università forniscono supporto agli studenti arabi che, provenendo da un sistema scolastico la cui lingua prima è arabo, necessitano poi, nel prosieguo degli studi in Accademia, di un supporto logistico. La dimensione di vita accademica condivisa è qualcosa di reale, non retorico, e sono stato stupito dell’assenza di tensione.

Khalid Abu Ras

All’inizio di ottobre era esploso il caso, in particolare nei diversi canali social e mezzi di informazione, riguardo ad alcuni studenti che avrebbero o non avrebbero espresso il loro sostegno all’attacco di Hamas. Non so cosa ne sia seguito, dal punto di vista penale, in questi casi, ma posso dire che è stato un aspetto in prevalenza mediatico: nella pratica, nella vita reale, gli studenti arabi ed ebrei erano e sono parte di un percorso comune.

Ora, se si domanda se il ministro dell’istruzione pubblica un certo tipo di post o si esprime in un certo modo, questo, certo, può avvenire. Nella mia attività di docente non ho incontrato neppure un solo studente che sia stato allontanato dall’università per via di una sua determinata posizione – e questo è vero con riferimento ai diversi schieramenti. È quindi un fenomeno che ha più a che fare con ‘il rumore’ dei social media che non con la vita reale. Lo Stato di Israele è di fronte a sfide importanti e difficili. Il 7 ottobre è stato uno shock per tutti in Israele. Ebrei e arabi. E devo dire che la comunità arabo-israeliana ha reagito con grande rispetto. C’era il timore per quello che sarebbe potuto accadere nelle diverse città [a popolazione mista], come Lod, Akko e altre. Invece, sorprendendo molti, non è accaduto nulla. Sono da ricordare, inoltre, le storie di aiuto reciproco, nel giorno dell’attacco di Hamas: beduini che hanno nascosto ebrei, ebrei che hanno nascosto beduini. Sul piano accademico, alcune settimane fa abbiamo avuto un incontro all’università di Haifa a cui hanno partecipato ebrei e arabi, provenienti da diverse parti del Paese. E proprio in tale occasione, nella quale ci siamo confrontati con esponenti della comunità arabo-mussulmana come l’Immam Sheikh Samir Assi, si è ricordato come spetti alle università e al mondo della cultura il compito di creare le condizioni per il dialogo nella società israeliana. Un compito al quale non ci sottrarremo. So che da fuori le cose possono apparire ancor più difficili, ma nella pratica la vita ha una sua dimensione, una sua energia. Non sono ingenuo, quello che ci aspetta è un lavoro duro, la paura si annida in ogni luogo, tra gli ebrei come tra gli arabi, ma io penso, sono convinto, che la vita condivisa sia più forte.

Ha parlato del dottor Abu Ras di Bar Ilan. Era stato lei, negli anni del suo incarico a capo del dipartimento, a chiamarlo a insegnare? Ci può dire qualcosa di più del rapporto con lui dopo l’attacco del 7?

Sì esatto l’avevo chiamato io. Con Khalid vi è un rapporto molto intenso. Mi ha scritto immediatamente dopo l’attacco, l’8 ottobre, un’email personale. Mi ha espresso il suo sdegno e la sua più ferma riprovazione, in nome dell’Islam, di fronte al massacro compiuto dai miliziani di Hamas e delle altre fazioni in nome di Allah. Khalid è una figura stimata nella sua comunità, e lì è impegnato per il dialogo. Non sempre è possibile prendere posizioni pubbliche. Ma io so che il suo impegno e convincimento è in questa direzione e il suo insegnamento, presso il nostro Dipartimento, riveste per me un’importanza essenziale.

Ci diceva della piena libertà di espressione in ambito accademico. Nella mia esperienza ricordo, negli anni in cui ho partecipato al Forum Matanel di pensiero ebraico-francese – dove la discussione filosofica necessariamente tocca aspetti legati alla vita pubblica – una grande diversità di vedute, che poteva esprimersi anche a livello politico. Alcuni membri del Forum, vicini a posizioni della sinistra post-sionista, altri le cui visioni erano associabili a quelli della destra tradizionalista. Come si è mantenuto questo dialogo nei mesi successivi il 7 ottobre?

Al Forum Matanel abbiamo un dialogo vivace e intenso. Abbiamo un membro del Forum che si riconosce nelle posizioni della sinistra più radicale, e che ha espresso delle critiche forti rispetto ad alcuni aspetti della guerra. La sua famiglia viene dall’Otef (la regione adiacente la striscia di Gaza, le cui città e kibbutzim sono state oggetto degli attacchi e dei rastrellamenti di Hamas, ndr). Nello stesso Forum, però, vi sono persone che portano avanti una lettura prossima a quella di Sha’as (il partito tradizionalista-sefardita, alleato con il Likud, ndr) e che hanno una lettura completamente differente. Da questo punto di vista il Forum Matanel esemplifica perfettamente il pluralismo di idee, la possibilità che opinioni non solo differenti ma anche tra loro in netto contrasto, possano essere espresse, articolate. Naturalmente, non si deve nascondere la difficoltà della situazione: ma questa situazione, per quanto complessa, non lo è a tal punto dall’attenuare il confronto e dall’impedirci di credere nel dialogo. In questo senso ci tengo a ricordare il progetto, che portiamo avanti a Bar Ilan, di “pensiero ebraico e società”: un progetto dove ci confrontiamo con persone che si trovano in carcere, tra le quali vi sono anche arabi, proponendo dei percorsi di studio condivisi. Proprio l’altra sera, si è tenuto il primo incontro del progetto da dopo il 7. Avevo timore di come si sarebbe potuto svolgere: invece, è stato un incontro fruttuoso, svoltosi in un clima sereno. Da questo punto di vista Bar Ilan è una realtà che può stupire, essendo un’università identificata come maggiormente tradizionalista, e che è, senza che ciò rappresenti una contraddizione, aperta al dialogo tra ebrei e arabi, così come tra ebraismo, Islam e cristianesimo.


Abbiamo parlato dell’università. Volevo chiederle la sua visione più generale, personale e politica, rispetto agli eventi: l’attacco del 7 ottobre, con cui Hamas ha infranto ‘a sorpresa’ la tregua vigente, la guerra che ne è scaturita e i suoi effetti.  

Anzitutto, dal punto di vista dei criteri con cui stabilire se una guerra giusta, ossia legittima, o non giusta, non potrebbe esservi una guerra più legittima di questa, senza dubbio. Anzitutto, dal punto di vista politico e nazionale. Ci siamo trovati di fronte a una minaccia esistenziale per Israele, al tentativo di attentare all’esistenza dello Stato. Ciò che è successo il 7  va al di là di questa dimensione politico-nazionale: è stato un attacco, una ferita, inferta all’umanità dell’uomo, all’eticità dell’essere umano.
Da questo punto di vista ci siamo trovati qui in Israele, senza averlo scelto, non solo in una guerra volta alla difesa dello Stato, ma in una battaglia volta a difendere la stessa immagine dell’uomo, della sua moralità. In effetti, per quanto sappia quanti nel mondo si dissocino da ciò, ci troviamo impegnati in una battaglia universale, di fronte a una della minacce più gravi a cui ha dovuto far fronte l’umanità: l’attacco del 7 ottobre, nel suo tentativo di cancellare il volto umano, attraverso atti di una violenza inaudita, dallo stupro allo smembramento, dal levare il feto di donne ancora in vita a bruciare vive le persone: questa violenza non era rivolta solo contro gli ebrei e Israele ma contro l’uomo in quanto tale, mostrando una malvagità fuori da ogni categoria immaginabile. Noi non abbiamo il permesso, abbiamo il dovere di combattere contro tutto questo.
In parallelo, non vi è dubbio che sia nostro dovere rispettare i limiti del diritto di guerra, che trovano prima espressione nel dovere di evitare il più possibile di colpire i civili. Vi è la possibilità, domattina, di finire questa guerra. La gente di Gaza può dire: “ora basta”, costringere i dirigenti di Hamas a uscire dai loro tunnel, restituire gli israeliani rapiti e consegnarsi a istanze della giustizia internazionale: non dico a Israele, ma a un ente internazionale, per essere giudicati delle loro azioni. La guerra finirebbe in quello stesso istante. Personalmente, sono decisamente lontano dal pensiero che tutti gli abitanti di Gaza siano responsabili delle azioni di Hamas: al contrario, penso che molti di essi soffrano della stessa condizione imposta da Hamas, del sistema educativo volto a inculcare, fin dalla più tenera età, l’odio verso Israele e verso gli ebrei. Una parte di questa guerra, è volta a mettere fine a questo regime, a permettere agli abitanti di Gaza di ritrovare un futuro, scopo per la cui realizzazione servirà l’impegno internazionale.

Lei sottolinea come l’attacco del 7 ottobre sia stato un un’offesa, una ferita inferta all’immagine dell’uomo, dell’umanità che è in noi. Tuttavia, sempre ricordando la presenza di cittadini arabi, drusi e asiatici, uccisi dai miliziani palestinesi, è chiaro che in quegli atti esprimesse l’odio coltivato contro la presenza ebraica, l’odio specifico verso il popolo ebraico.

Sì, ma quando cerco di guardare e comprendere gli eventi di quel giorno, vi riconosco certo l’aspetto che ne fa un attacco scagliato contro Israele, l’aspetto che lo qualifica come espressione dell’odio verso gli ebrei, ma vi riconosco anche l’aspetto in cui si esprime l’odio verso l’umanità. Un evento che, nella sua crudeltà, va al di là delle categorie del male, raccogliendo e andando al di là dell’odio nazionale, religioso, esprimendo il disprezzo verso l’umanità. Questa è la mia lettura.

L’attenzione al pluralismo è un spetto centrale nel suo insegnamento. Quando parliamo di pluralismo possiamo intendere un aspetto culturale e politico – il pluralismo all’interno del popolo ebraico e il pluralismo nella società israeliana, comprensiva delle sue minoranze – e un aspetto filosofico, ricorrente nelle sue lezioni, che si affianca alla responsabilità verso l’Altro, tema centrale nel pensiero di Levinas. Di fronte a questi eventi, alla violenza dell’attacco, alla guerra con le sue conseguenze, come si conciliano questi aspetti?

Se vi è un messaggio che il pensiero ebraico ha trasmesso all’umanità questo è l’attenzione riposta alla responsabilità che si ha verso l’altro uomo. Questo è un aspetto che va ben al di là della sola esistenza di una pluralità di idee differenti, riguardando invece il dovere che vi siano, che vi possano essere, opinioni differenti, ovverosia il dovere di permettere all’altro di essere differente rispetto a me. Questo aspetto costituisce sempre, di per sé, una sfida, e lo è a maggior ragione da un punto di vista politico. La sfida di declinare politicamente una condizione in cui hai il dovere di garantire la possibilità che vi sia la differenza, l’eterogeneità, e dove quindi sei chiamato a rispondere della tua responsabilità verso gli altri, e in cui allo stesso tempo si è chiamati a garantire le condizioni proprie al vivere collettivo in una società, le necessità della difesa e dell’economia.

Ora, quando pensiamo alla guerra, questa sfida diviene straordinariamente difficile, e non voglio in alcun modo celarne la complessità. È difficile, poiché si è di fronte a una minaccia, a un pericolo per il sussistere stesso dell’identità di sé, della società, che è dunque chiamata a difendersi. E allo stesso tempo – e questa simultaneità è per me decisiva – è necessario prestare attenzione alla responsabilità che incombe su di noi verso i civili che sono a Gaza, così come verso gli altri palestinesi e le diverse componenti della società israeliana che si trovano in condizioni di difficoltà. È una sfida impegnativa, poiché quando ciascuno è minacciato e si trova in pericolo, la tensione aumenta inevitabilmente, le persone tendono agli estremi, e si creano le condizioni per una radicalizzazione del linguaggio.
Questa sfida, si esprime in due aspetti. Uno riguarda l’oggi, e può esser sintetizzata nell’interrogativo: cosa sta avvenendo in questa fase, in questo preciso momento, e come posso trovare le condizioni per parlare su un doppio livello, ‘in un doppio linguaggio’: da un lato, rispondendo alla necessità della difesa, dell’altro ricordando le responsabilità che ci si impongono nei confronti degli ‘altri’, chiunque essi siano, e per quanto ciò possa essere difficile. Il secondo aspetto, che oggi è un po’ più facile da affrontare, riguarda ciò che costituirà ‘il giorno dopo’ la guerra. Dal momento che, in quel giorno, dovremo vivere con tutti coloro – uomini e donne, bambini, anziani e malati – che hanno attraversato questi mesi, e con tutto ciò che in questo periodo è avvenuto, in termini di paure, traumi e pericoli. In entrambi i lati. Anzitutto, gli israeliani che hanno attraversato un trauma terribile, a prescindere dalle rispettive collocazioni politiche, e che provano paura, non in modo retorico, ma effettivo, concreto. Ma anche dall’altro lato, al di là del confine, in luoghi in cui è divenuto estremamente difficile vivere. La nostra responsabilità sarà di costruire un nuovo orizzonte.

Nell’apertura di Totalità e infinito, Levinas parla delle guerre, della situazione in cui la ‘pace’ è intesa come una mera pausa tra due guerre: come quando non si è ancora terminata una guerra, e già si pensa alla successiva, al ‘prossimo round’. Invece, il pensiero religioso ebraico delinea un orizzonte messianico, un altro tipo di prospettiva, che ci permette di pensare all’esistenza di un’altra possibilità. In tal senso io penso che il pensiero ebraico abbia, proprio in questo contesto, da fornire un contributo dirimente: non tanto al mondo quanto, anzitutto, alla stessa Israele. Anche Israele è chiamata ad imparare dagli insegnamenti che vengono dal pensiero ebraico, da Buber e da Levinas. Certo, è un processo laborioso, di cui non voglio assolutamente sminuire la complessità. Ma, a tal proposito, dirò qualcosa che potrà stupire le persone che si trovano fuori da Israele. Negli ultimi mesi sono stato inserito, senza averlo necessariamente scelto, in molte chat whatsapp, di gruppi differenti. Si passa da gruppi che si rifanno all’idea della Malkhut Israel HaShlishit, del terzo regno di Israele e alla ricostruzione del Tempio (dopo la distruzione del Secondo Tempio da parte dell’Impero Romano nel 70 e. V., ndr), a gruppi impegnati nel portare aiuto ai cittadini sfollati dal Sud e dal Nord, ad altri che si spendono per la pace e così via. Ora tra questi gruppi, ve ne è uno dedicato a promuovere progetti di mutuo soccorso, e ogni giorno è possibile leggere di una nuova iniziativa, in particolare promesse dai gruppi ebraico-arabi attivi in Israele: si tratta di gruppi che promuovono il confronto tra i soggetti provenienti dalle diverse comunità, e che divengono di fatto attivi per un futuro di pace. Con mia grande gioia, proprio l’altro giorno ho ricevuto un messaggio di una mia ex allieva, Dottoressa Yael Admi, che promuove il progetto Nashim Ossot Shalom: si tratta di un collettivo che realizza incontri tra donne ebree e arabe, tra donne israeliane, anche degli Insediamenti (Giudea e Samaria/West Bank) e palestinesi. Admi si è completamente dedicata a questo progetto, basato sulla convinzione che sia necessario coinvolgere il più possibile le donne nel dibattito politico, al fine di cambiarlo, e proprio di recente è stata indicata dal Time Magazine come una delle donne dell’anno 2024. È stata una notizia davvero emozionante, che dà speranza. E io credo che progetti come questi siano legati alla riflessione filosofica ebraica. La situazione è complessa, difficile, ed è impossibile renderla semplice. Ma questo non impedisce di rispondere all’appello della responsabilità, e attorno a noi, ogni giorno, vedo persone impegnate in progetti che, in modi differenti, vanno in questo senso.

Lei ha parlato del contributo del pensiero religioso, del pensiero ebraico, dove si accostano riferimenti alla Tradizione e alla filosofia, come chiave di lettura della realtà: si sarebbe portati a pensare alla prospettiva della Zionut HaDatit – del cosiddetto sionismo religioso – se non fosse che dalle sue parole emerge un quadro differente a quello cui siamo abituati quando sentiamo questo termine con riferimento allo scacchiere politico israeliano.  

Qui vorrei astenermi dall’esprimermi politicamente, ma dirò questo: non vi è dubbio che vi siano molte persone che fanno uso della ‘religione’ a scopi puramente politici, e non ha importanza se li si vuole chiamare Zionut HaDatit o con un altro nome. Sono persone che usano il Tanach, la Bibbia ebraica, per promuovere una determinata agenda identitaria. Sotto questo aspetto mi sento molto più vicino a Levinas: quando questi parla della dimensione religiosa dello Stato di Israele, ne parla nell’accezione secondo la quale lo Stato deve essere in funzione della Giustizia, e non questa subordinata alle esigenze dello Stato. Una volta che assumo questa posizione, allora sono portato a dire che l’obiettivo politico del sionismo di garantire la sicurezza, la difesa, non è nato per caso, come se fosse qualcosa di fine a sé stesso, bensì per rendere possibili nuove forme di giustizia. Perciò, per quanto oggi ci troviamo in una situazione difficile, io vedo anche il bene e la responsabilità che si manifestano proprio in questa fase, e che potranno portare a una condizione migliore: un aspetto che dà speranza.

In tal senso, nel modo in cui lei intende il termine ‘religione’ e il suo accostamento con il sionismo, possiamo dire che lei porta avanti quanto Levinas intendeva allorché parlava di “Politique monothesite”, dove si pone il problema del rapporto tra politica ed etica 

Sì, in merito a questo è necessario spiegarsi. Tutto il discorso sionista è, in quanto tale, tanto un discorso composto dal sogno, dalla visione, quanto segnato dalla paura e dalla minaccia. Da un lato, costituisce la fuga dall’antisemitismo, dai pericoli esistenziali – in tal senso, il rapporto tra la creazione dello Stato e la Shoah non è eludibile –, volendo costruire quello che nel movimento sionista veniva denominato Miklat Batuah, un rifugio sicuro: oggi ci guardiamo attorno e ci dobbiamo dire ‘forse è un miklat, un rifugio, ma sicuro non lo è’. In tal senso vengono in mente le tragiche metafore, di quanti, al sud, nel giorno dell’attacco di Hamas, hanno stretto a sé le porte dei rifugi delle abitazioni, cercando di non esser presi. Questa, del rifugio sicuro, fa parte della questione che ci troviamo ad affrontare.
D’altro lato, il sionismo costituiva anche un sogno, una visione, di un’umanità e di un mondo migliore. Ai miei occhi, lo Stato di Israele si ritrova, in ogni momento, a portare su di sé da una parte la paura, dall’altra la speranza – e penso che ciò che Levinas può dirci, in questo contesto, è di volgere e tener fermo il nostro sguardo verso la ‘visione’ e la speranza, proprie al sionismo, per un futuro migliore. È da questo che, nella nostra esistenza, dipendiamo. È guardando a tali nodi, e volgendoli al contesto attuale, che cerco di portare avanti, nel mio insegnamento e nella scrittura, precisamente questa duplicità, questo doppio livello: da una parte affrontare il male, dall’altra custodire il bene. Io penso che la nostra responsabilità verso il bene sia qualcosa di reale, senza di cui non avremmo neppure ragione di combattere il male: se questo Stato non ambisse ad essere un modello di giustizia sociale, allora, perderebbe ragione di sussistere. E penso che la difesa faccia parte di questo stesso discorso, ossia di come noi realizziamo questo sogno e visione. Credo fermamente nel dialogo tra le diverse religioni – non solo le tre religioni monoteiste – e penso che sì, la religione può costituire la cosa più pericolosa ma anche, voglio credere, la più grande speranza.  Rav Sacks, nel suo libro Non in nome di Dio, affronta il dilemma rappresentato dagli atti efferati compiuti in nome di D.o, sia nominato Allah o in altro modo, e della religione. Eppure Rav Sacks, gradualmente, delinea una differente prospettiva, venendoci a dire che sì, tutto ciò è vero, ma non è necessario: è possibile che il nome di D.o conduca l’essere umano ad essere maggiormente aperto e tollerante, e ciò proprio grazie al riferimento al Nome. Dunque, non abbiamo a nostra disposizione alcuna garanzia che il bene persista, che le persone si attengano alla morale, e la storia ci insegna senz’altro molti fallimenti in tal senso. Ma abbiamo la speranza.

Lei parla di questo doppio livello – presente nel sionismo, e che si esprime nel suo insegnamento – la necessità della difesa e della speranza. Come Alain Finkelkraut ha avuto modo di ricordare, in una certa fase, durante la guerra del Libano, Levinas aveva tuttavia parlato, con riferimento a Israele, di État nécessaire, in qualche modo attenuando l’idea della “politica monoteista”: lo ‘Stato necessario’ ci rimanda infatti all’elemento della difesa e della sicurezza di cui ci parlava…

L’espressione Stato necessario rimanda a una innegabile necessità. Ma devo dire che ai miei occhi, di israeliano, alcune di quelle espressioni di Levinas, che si trovava, da ebreo della diaspora, a dover rispondere a degli attacchi volti a delegittimare Israele, sono problematiche. In questo senso preferisco guardare al pensiero e concezione levinassiana in quanto tale, che fornisce una prospettiva più ampia, rispetto ad alcune affermazioni dello stesso Levinas. Ci sono degli eventi che devono essere evitati e che io, in quanto israeliano, ho dovere di criticare. Dopo la strage di civili in Libano tutta la società israeliana si è indignata e mobilitata. Lo Stato è necessario, ma deve saper agire in accordo a certi limiti e assumendosene le responsabilità.

Questo ci riporta alla politica, ai limiti nei quali la guerra legittima richiede di esser condotta.

Certo. In tal senso, quando si parla di questo, bisogna saper avere una visione complessiva. Vi possono essere persone che esprimono posizioni che vanno al di là di tali limiti. Ma Za’al, l’esercito, in quanto tale è impegnato ad agire in questi limiti, a preservare per quanto possibile i civili dall’essere obiettivi di guerre. Per me, proprio quanto accaduto di recente, con la terribile morte dei gazawiti che si accalcavano verso i camion degli aiuti umanitari, ne è una drammatica dimostrazione. L’esercito si era adoperato per predisporre l’ingresso degli aiuti umanitari, agendo appunto in accordo a quei limiti di cui dicevamo, e il suo intervento, nel contesto dell’arrivo dei camion, era finalizzato ad evitare che vi fossero dei gruppi di persone che si accaparrassero illegittimamente dei beni primari. L’immagine uscita all’esterno, ovviamente, è stato del tutto differente, ed invece Za’al era lì precisamente per garantire che gli alimenti pervenissero ai civili. Da un lato, si è trattato della dimostrazione che agiamo precisamente come abbiamo dovere di fare. Dall’altro lato, mi sono detto in quelle ore, ‘abbiamo fallito’. Avremmo dovuto pensare alla possibilità di tale accalcamento e dovremo fare in modo che non si ripeta.

Ritornando al legame tra politica e riflessione di più ampio respiro, ricordo che una volta aveva detto di aver iniziato a leggere le ‘letture talmudiche’ di Levinas proprio nei giorni successivi all’assassinio di Rabin, trovandovi un riferimento nei giorni di crisi…

È vero. Pensi: proprio prima di ottobre avevo ultimato un libro dedicato a un ‘esame filosofico’ dopo l’assassino di Rabin. Avevo ricevuto le ultime bozze dalla case editrice proprio a Sukkot. Poi, l’attacco di Hamas. Avevo deciso di rinunciare, pensando: dopo il 7, tutto e cambiato. In questi giorni, mi trovo a scrivere una nuova prefazione, nella quale dico: “avevo pensato che questo libro fosse oramai superfluo: mi ero sbagliato”. In questo senso: l’assassinio di Rabin pone delle domande fondamentali sull’identità israeliana, sulla nostra società. È in questa prospettiva che per me il riferimento a Levinas è, di fronte alla sfide attuali, essenziale, costituendo parte di quel ‘differente pensiero’, sul piano etico, politico, spirituale e sociale, di cui abbiamo bisogno per il nostro futuro, qui.

 

*Cosimo Nicolini Coen sta svolgendo una ricerca di dottorato, sotto la direzione del prof. Ben Pazi, all’università Bar Ilan, ed è assegnista all’Università Kore di Enna, nell’unità di ricerca diretta dalla prof.ssa Lucia Corso.  Ha curato l’edizione italiana del volume di Abraham Melamed Dat: da legge a fede (Giappichelli, 2023).