di Michael Soncin
«Fino a non molto tempo fa, si sapeva poco dei partigiani ebrei e della loro partecipazione alla liberazione, del loro contributo di sangue e di quello che li ha motivati come resistenti contro l’oppressione nazifascista, poiché tutto non nasceva dall’occupazione tedesca, ma già dal 1938». Con queste parole Giorgio Sacerdoti, presidente del CDEC, ha introdotto la conferenza Resistenti ebrei d’Italia in cui è stata presentata la terza parte della ricerca a cura di Liliana Picciotto.
Oltre 200.000 le schede finora consultate
Barbara Berruti, direttrice di Istoreto (Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea) ha spiegato che la 3ª parte del progetto è relativa alle regioni di Abruzzo, Marche e Umbria, mentre nella 1ª erano stato coinvolte Campania, Emilia-Romagna e Lazio; la 2ª ha riguardato Liguria e Toscana.
«Sono state consultate per le prime due fasi del lavoro 171.312 schede Ricompart. Da questa consultazione sono emersi circa 317 nomi di resistenti a cui se ne aggiungono 70, quelli presentati oggi, numeri che danno l’idea della profondità di questo lavoro, che conta per le tre regioni più di 40.000 schede consultate: 10.000 per l’Abruzzo, 23.000 per le Marche, e 7500 per l’Umbria»
Come ha introdotto Berruti, Ricompart è l’Archivio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani, che conserva la documentazione che è stata prodotta dalle 11 commissioni, una per ogni regione d’Italia (quelle che ne avevano una), istituite nel primo dopoguerra per riconoscere, valutare le richieste e attribuire una qualifica partigiana. «I fogli riassuntivi che riguardano i partigiani che hanno avuto un riconoscimento e che erano ebrei sono stati messi sul portale del CDEC».
La Resistenza declinata nel suo termine più ampio
«Attraverso il suo lavoro – aggiunge Berruti -, Liliana Picciotto è partita da un percorso atto a ridare un’identità a tutte le vittime della Shoah, passando poi a ricostruire le vite dei salvati, spostando adesso l’attenzione ad una dimensione più attiva, che riguarda la partecipazione degli ebrei in Italia alla Resistenza, un gruppo minoritario perseguitato, che si è messo in gioco partecipando in prima persona alla liberazione italiana».
È stato inoltre precisato che molti degli ebrei che fecero parte della resistenza, non erano italiani, erano ebrei che per diverse ragioni si trovavano in Italia. «La Resistenza qui è declinata in un senso molto ampio, non si parla solo di partigiani, ma anche di resistenza civile in tutte le declinazioni. Sono inclusi in questi numeri anche coloro che hanno partecipato alla resistenza all’interno dei servizi segreti o britannici o americani», conclude la direttrice dell’Istoreto.
Più che il termine partigiano, Liliana Picciotto ha utilizzato il termine resistente: «perché mi sembrava più ampio al termine partigiano, la cui definizione è in genere di una persona in armi, anche se le armi in quel periodo erano pochisisme». Tra i resistenti cita anche l’organizzazione soccorso ebraica Delasem per l’importante contributo dal trovare i nascondigli al procurare i documenti falsi.
Gli ebrei stranieri internati tra Marche, Abruzzo e Umbria
«Le tre regioni oggetto dell’attuale studio erano piene di campi, veri e propri dove sono stati internati ebrei stranieri, anche in luoghi di ‘libero internamento’, una definizione data dal regime. A volte alcuni venivano liberati e mandati in un luogo sperduto con l’obbligo di presentarsi due volte al giorno presso i carabinieri della zona, chiamati quindi di internamento libero, perché era una forma meno acuta del vero campo».
È curioso, come ha sottolineato la storica, che in Abruzzo erano molti i luoghi di questo genere, con ebrei stranieri, in una regione come è ben noto completamente priva di ebrei; sappiamo infatti che nell’Italia meridionale erano già stati espulsi al tempo degli spagnoli.
Una delle storie menzionate è quella di Luigi Fleishmann – clicca qui per ascoltare il podcast, un ragazzino ebreo di 16 anni, libero internato a Navelli, in Abruzzo. I tedeschi non sapevano come farsi comprendere dai locali, davano gli ordini ma nessuno capiva e Luigi ha fatto loro da traduttore. Non sapevano che era ebreo, così ha potuto fare da ponte con i partigiani della zona, dicendogli dove si stavano spostando i tedeschi, in modo da poter aiutare gli altri a nascondersi. Il tutto è andato avanti per diversi mesi.
«Molti di questi stranieri erano qui in Italia per studiare, perché nei paesi dell’est, come Polonia e Romania, c’era un certo limite per gli ebrei, dopodiché non potevano più iscriversi. Così cercavano altre università europee, e molti di loro scelsero l’Italia, malgrado fosse già fascista all’epoca. La facoltà che preferivano era medicina, abbiamo infatti medici ebrei stranieri internati in tutte le università italiane. Una volta che venivano internati in questi posti remoti venivano poi usati dalla popolazione locale per fare i medici, e quando si formava una banda partigiana, loro diventavano medici partigiani. Ne ho trovati almeno 30, un grande numero rispetto a tutto il cumulo di persone», ha spiegato Picciotto.