di Nathan Greppi
A differenza di molti intellettuali del suo tempo, i quali erano alla costante ricerca di apparizioni nei talk show televisivi per diventare delle celebrità, lei preferiva restarsene appartata, concentrandosi sui suoi studi e sull’insegnamento ai propri studenti.
A dispetto del suo carattere apparentemente schivo, la filosofa Judith Nisse Shklar (1928 – 1992) ebbe una vita assai movimentata: nata da genitori ebrei a Riga, in Lettonia, ancora bambina dovette fuggirne con la famiglia a causa del clima politico instabile, che di lì a poco vide i sovietici invadere il paese. Con lo scoppio della guerra, ebbe inizio una fuga che li portò dalla Svezia all’Unione Sovietica, dal Giappone agli Stati Uniti, giungendo infine in Canada.
La Shklar subì delle discriminazioni in quanto ebrea: all’Università McGill di Montréal, dove si laureò, negli anni ‘40 gli studenti ebrei dovevano raggiungere un punteggio più alto per essere ammessi rispetto ai non ebrei. In seguito proseguì la propria formazione ad Harvard, dove nel 1971 divenne la prima donna ad ottenere una cattedra presso il Dipartimento di studi politici, diventando infine docente ordinaria nel 1980.
Per riscoprire il suo pensiero, è stato recentemente ripubblicato il suo libro I volti dell’ingiustizia, in un’edizione curata da Spartaco Pupo, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria. Pubblicato per la prima volta nel 1990, il volume raccoglie i testi degli interventi che l’autrice tenne in tre conferenze alla Yale Law School nell’ottobre 1988.
Legata alla corrente filosofica dello scetticismo, la Shklar sosteneva che vi fosse una crescente tendenza nelle democrazie occidentali a simpatizzare per chi commette dei torti a discapito di chi ne è vittima. Riprendendo il pensiero di Cicerone, lei vedeva l’autore di un torto non solo in chi lo commette in prima persona, ma anche in chi, per indifferenza o per non doversi assumere delle responsabilità, si volta dall’altra parte: chi assiste ad un crimine ma non lo denuncia, chi si rifiuta di testimoniare, chi non presta soccorso ad un ferito.
La filosofa metteva anche in guardia da coloro che, a fini di propaganda politica, strumentalizzano opportunisticamente il dramma di chi subisce un’ingiustizia. Inoltre, era convinta che lo status di vittima non vada attribuito con criteri uguali per tutti, perché ogni individuo vive il proprio dolore in maniera diversa.
Nel libro si ritrovano anche alcuni cenni al mondo ebraico: in particolare, rifletteva sulla condizione delle donne nelle comunità ebraiche ortodosse, dove il loro status sociale risulta essere inferiore rispetto a quello degli uomini.
Nell’opera di Judith Shklar si possono trovare tanti spunti di riflessione importanti, che risultano essere attuali ancora oggi. Cambiano i tempi e i luoghi, ma la condizione umana rimane sempre la stessa.
Judith N. Shklar, I volti dell’ingiustizia. Uno sguardo scettico, traduzione e curatela di Spartaco Pupo, Mimesis, pp. 194, 18,00 euro.