di Ugo Volli
[Scintille. Letture e riletture] Ci sono almeno due ragioni per cui è molto interessante leggere il libro di Israel Joshua Singer appena pubblicato da Adelphi col titolo La nuova Russia. La prima è letteraria: Israel Joshua Singer, fratello maggiore del Premio Nobel Isaac Bashevis Singer, non è scrittore minore di lui, anche se la sua fama è stata oscurata dalla morte precoce a soli 51 anni nel 1944 e naturalmente anche dalla fortuna del fratello.
Israel è più giornalista di Isaac, ma le sue narrazioni sono altrettanto penetranti e impietose, come è evidente per esempio nel suo capolavoro, La famiglia Karnowski. Negli ultimi anni c’è stata una riscoperta di questo autore anche in Italia, soprattutto per merito di Elisabetta Zevi e della casa editrice Adelphi. La nuova Russia è la raccolta delle corrispondenze scritte durante un lungo viaggio fatto dall’autore in Unione Sovietica fra il 1925 e il 1926, dunque non ha una trama sviluppata e si attiene ai dettami della cronaca, non del romanzo.
Ma le persone che Singer incontra soprattutto a Mosca, in Ucraina e Bielorussia, le conversazioni che intreccia con loro, i paesaggi umani, sociali e naturali che racconta emergono con la nitidezza e la tipicità di una scrittura non soltanto giornalistica. La seconda ragione è politica. Il viaggio avviene un anno dopo la morte di Lenin, quando l’illusoria liberalizzazione della NEP (nuova politica economica) è ormai terminata da tempo; la socializzazione forzata è imposta in campagna come in città, sradicando popoli e famiglie; i principali protagonisti ebrei della rivoluzione, da Trotskij a Kamenev, sono stati politicamente eliminati; Stalin ha vinto e sta prendendo il pieno controllo anche della vita culturale e sociale, dopo aver sradicato tutto ciò che non è perfettamente allineato alla linea del partito e dunque anche ciò che restava della tradizione ebraica dopo le tempeste della guerra civile e pure l’arte e la letteratura non conformista, spesso prodotta da ebrei che si vogliono rivoluzionari. Nato nella Polonia ridotta a provincia della Russia, vissuto qualche anno a Kiev e a Mosca, rifugiatosi poi di nuovo a Varsavia nel ‘21, Singer conosceva bene persone e ambienti della Russia ebraica e rivoluzionaria e quindi era perfettamente in grado di capire il progressivo strangolamento del mondo da cui veniva. Ma era il corrispondente di Forverts (“Avanti”), il quotidiano socialista yiddish di New York, col quale lavorò tutta la vita, ed egli stesso era stato un protagonista di quei gruppi culturali ebraici che avevano cercato la libertà dalla tradizione di famiglia e l’ideale della giustizia sociale nella militanza socialista, che non potevano guardare con antipatia l’URSS senza smentire la propria vita.
Dunque il libro spesso ha toni ottimistici, cerca di vedere un progresso anche nei provvedimenti che distruggevano la struttura sociale ebraica per sostituirla con villaggi agricoli collettivi, militanza bolscevica e rifiuto di ogni identità particolare. Ma Singer è troppo realista per non vedere il lato oscuro di questa dinamica e troppo intellettualmente onesto per nasconderla. Il libro va letto dunque come la cronaca di una verità che si preferirebbe non vedere e non dire; a guardar bene nel testo ci sono due livelli di discorso, uno che riproduce e talvolta amplifica i contenuti trionfalistici riferiti dagli intervistati e l’altro che coglie e riporta, pur senza esplicitarli troppo, i segnali di incongruenza e di difficoltà. Chi si interroga sul difficile rapporto fra sinistra ed ebraismo, certamente dovrebbe guardare a questi segnali di Singer, ormai di un secolo fa, e al disagio che tradiscono.