di Ilaria Myr
“Qui è una situazione calda: in tutti i sensi”. Usa il suo umorismo, noto a chi ha la fortuna di conoscerlo, Luciano Assin, milanese di origine e residente nel Kibbutz Sasa dagli anni ’70, al confine con il Libano, per descrivere il contesto in cui si trova a vivere da ottobre, da quando cioè Hezbollah ha intensificato il lancio di missili sul nord di Israele.
Non che prima ci fosse la pace: sono anni che le milizie vicine all’Iran attaccano quelle zone, ma con lo scoppio della guerra fra Israele e Hamas, seguita ai massacri del 7 ottobre perpetrati dai terroristi nel sud del paese, non c’è giorno che non vengano colpite. Il 12 giugno l’esercito israeliano ha ucciso con un drone il comandante dell’organizzazione Taleb Abdallah, scatenando la reazione di Hezbollah, che ha lanciato 215 missili in un solo giorno sul nord di Israele. Uno di questi ha colpito la fabbrica del Kibbutz Sasa.
“È una fabbrica che si trova all’interno del perimetro del kibbutz e produce mezzi blindati, che serve l’esercito israeliano ma anche tanti altri Paesi, fra cui l’Italia – spiega Luciano a Mosaico -. I bombardamenti per noi che viviamo al confine non sono certo una novità, e quando vivi qui lo metti purtroppo in conto: ma quando ti bombardano in casa fa sempre un certo effetto. Questa è una guerra a molto più bassa intensità rispetto a Gaza ma è sempre guerra. Per ora Hezbollah, per un tacito regolamento, colpisce solo obiettivi militari o che considerano tali, ma se decidesse di alzare il tiro, anche tutto quello che è civile diventerebbe un obiettivo legittimo”.
Un contesto, dunque, di grande instabilità, che ha portato il governo a fare sfollare decine di migliaia di persone. A Sasa su un totale di 460 membri del kibbutz sono rimasti a vivere circa in 60, di cui la metà fa parte della squadra di pronto intervento, di cui è dotato ogni centro abitato nella zona, e l’altra metà è costituita prevalentemente da anziani che non vogliono lasciare la propria casa. “Io sto qui dalla domenica al giovedì, e poi mi trasferisco sul lago di Tiberiade, dove è sfollata la maggioranza del kibbutz – racconta -, mentre un piccolo gruppo è a sud di Haifa. Vivere in un albergo però non è semplice e alcuni hanno deciso di usare il sussidio che dà il governo per affittare un appartamento, mettendoci anche soldi di tasca propria”.
C’è poi l’impatto sull’economia del kibbutz. “Da noi c’è una situazione ibrida – continua Luciano -: si continua a lavorare, con le dovute precauzioni, cercando di non svolgere attività in zone a contatto visivo, come ad esempio i nostri frutteti e meleti (Sasa è noto per le sue mele, ndr) che sono in linea d’aria con il territorio libanese. Quest’anno siamo riusciti a raccoglierla tutta, ma non sappiamo se l’anno prossimo sarà lo stesso. E poi non possiamo mettere in pratica nuovi progetti: ad esempio, abbiamo in programma di piantare diversi ettari di viti per uva da tavola, ma per preparare il terreno abbiamo bisogno di macchinari da noleggiare. E nessuno è disposto a venire in una zona così calda”.
Eppure, come abbiamo detto, la guerra per chi abita qui non è una novità: nel 2006, durante la seconda guerra del Libano, c’erano anche lanci di missili e infiltrazioni di terroristi. Quello che però fa la grande differenza oggi è la mancanza di un orizzonte futuro. “Stiamo parlando di un conflitto che sta durando da 8 mesi – solo la guerra d’Indipendenza era durata di più – e chissà quando finirà. Quello che caratterizza questo conflitto è la sensazione dominante di insicurezza e instabilità. Questa è una guerra che non avrà vincitore”.
Ma se si arrivasse a un accordo fra Israele e Hamas per un cessate il fuoco a Gaza e la restituzione degli ostaggi, la situazione del nord cambierebbe?
“Innanzitutto dobbiamo ricordare che chi ha le fila di questo gioco è l’Iran: se decide di mantenere le cose come sono oggi non cambierà niente – commenta Luciano -. Dal punto di vista israeliano, però, essere in balia dell’altra parte non può più durare. Non dimentichiamoci che la seconda Guerra del Libano era terminata con la risoluzione 1701 che stabiliva il ritiro delle truppe di Hezbollah a sud del fiume Litani, ma ciò non è mai avvenuto. Qualsiasi accordo su base diplomatica non è una soluzione definitiva, perché dura fino a quando dall’altra parte non viene deciso di riprendere gli attacchi. La guerra è dunque inevitabile, se non nei prossimi mesi, sarà entro un anno”.
Video dei 215 missili lanciati da Hezbollah sul nord di Israele
Da parte sua, Hezbollah in questi anni si è dotata, grazie all’Iran, di armi sempre più sofisticate: si stima che abbia a disposizione fra i 150.000 e i 170.000 razzi di ogni tipo, che possono colpire Gerusalemme, Tel Aviv o la centrale atomica di Dimona. “Questo ovviamente frena il governo israeliano ad allargare il conflitto, ma allo stesso tempo, come si è visto dal 2006, più passa il tempo più hanno armi sempre più precise. E poi ci sono le sempre più strette alleanze fra Iran, Russia e Cina, che vanno a costituire un polo nemico a est. Ragionando a freddo, credo che l’ interesse israeliano sia dunque quello di agire il più presto possibile, prendendo l’iniziativa. Non vedo alcuna possibilità di un accordo diplomatico, e sono sempre più convinto che per ristabilire le regole del gioco lo si debba fare in modo fermo e duro”.
Finché la situazione non precipita, però, Luciano continua a fare avanti e indietro dal kibbutz. “Sono figlio di profughi dall’Egitto, e non ho voglia di andare da nessuna parte – dice senza mezzi termini -, non ho intenzione di lasciare la mia casa senza avere fatto una qualche forma di resistenza anche passiva. Lascerò solo se saremo costretti a farlo. Quello che ora più mi preoccupa è la condizione di disagio psico-fisico degli israeliani che stanno subendo questa incertezza dominante. Sono cresciuti gli episodi di violenza famigliare e assistiamo sempre di più all’aggravamento rapido di malattie patologiche: solo negli ultimi 8 mesi a Sasa sono morte 7 persone che avevano delle patologie pregresse, ma certamente non è un caso che i decessi siano avvenuti a cadenza mensile”.