Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
I dodici uomini inviati da Mosè a esplorare la terra d’Israele tornarono con un rapporto del tutto fuorviante. Dissero: “Non possiamo affrontare quel popolo, perché è più forte di noi…”. La terra che abbiamo attraversato e perlustrato è una terra che consuma i suoi abitanti; e tutte le persone che abbiamo visto hanno dimensioni eccezionali”. (Numeri 13:31-32)
In realtà, come scopriremo in seguito nel libro di Giosuè, gli abitanti del paese erano terrorizzati dagli israeliti. Quando Giosuè inviò delle spie a Gerico, Rahab disse loro: “Un grande timore di voi è caduto su di noi, tanto che tutti coloro che vivono in questo paese si stanno sciogliendo per paura a causa vostra”. Quando il popolo udì ciò che Dio aveva fatto per gli Israeliti, “i nostri cuori si strussero per la paura e il coraggio di tutti venne meno a causa tua” (Giosuè 2, 9-11).
Le spie avrebbero dovuto saperlo. Loro stessi avevano cantato al Mar Rosso: “Il popolo di Canaan si dissolse; terrore e spavento caddero su di loro”. (Esodo 15:15-16)
Le spie erano colpevoli di un errore di attribuzione, supponendo che gli altri si sentissero come loro. Dissero: “Eravamo come cavallette ai nostri occhi, e così dovevamo sembrare ai loro occhi” (Numeri 13:33). Ma come disse il Rebbe Kotzker, avevano il diritto di fare la prima affermazione, ma non la seconda. Sapevano come si sentivano loro stessi, ma non avevano idea di come si sentissero gli abitanti della terra. Erano terrorizzati dai Cananei e non vedevano che i Cananei erano terrorizzati da loro.
Ora ci sono due domande ovvie, la prima: perché le dieci spie commisero questo errore? In secondo luogo, perché due di loro, Giosuè e Caleb, non lo fecero?
La psicologa Carol Dweck (1946-…), dell’Università di Stanford, ha scritto un libro affascinante, Mindset, sul perché alcune persone realizzano il loro potenziale, mentre altre no. Il suo interesse, racconta, è nato quando ha osservato il comportamento di bambini di 10 anni a cui venivano dato dei puzzle da ricomporre. Alcuni, quando i puzzle diventavano difficili, prosperavano. Apprezzavano la sfida, anche quando si rivelava troppo difficile per loro. Altri diventavano ansiosi. Quando i puzzle si dimostravano difficili, si scoraggiavano facilmente e si arrendevano subito.
L’autrice voleva capire perché. Che cosa fa la differenza tra le persone che amano essere messe alla prova e quelle che non lo desiderano? Cosa fa sì che alcune persone crescano attraverso le avversità, mentre altre si demoralizzano? La sua ricerca l’ha portata a concludere che si tratta di una questione di mentalità. Alcuni vedono le loro capacità come date e inalterabili. Siamo semplicemente dotati o ordinari e non possiamo farci molto. La chiama “mentalità fissa”. Altri credono che cresciamo grazie ai nostri sforzi. Chi non ha successo non lo definisce un fallimento, ma un’esperienza di apprendimento. Questa è la “mentalità della crescita”.
Chi ha una mentalità fissa tende a evitare le sfide difficili perché teme il fallimento. Pensano che ciò li esporrà come inadeguati. Perciò sono riluttanti a correre rischi. Giocano sul sicuro. Quando le persone con mentalità fissa prosperano? “Quando le cose sono tranquillamente alla loro portata. Se le cose diventano troppo impegnative… perdono interesse”.
Le persone con una mentalità di crescita reagiscono in modo diverso. “Non cercano solo la sfida, ma prosperano con essa. Più grande è la difficoltà, più si allungano”. Secondo la Dweck, i genitori possono fare grandi danni quando dicono ai loro figli che sono dotati, intelligenti, talentuosi. Questo incoraggia il bambino a credere di avere un quantum fisso di capacità. Questo a sua volta li scoraggia dal rischiare il fallimento. Spesso questi bambini crescono dicendo cose come: “Sento che i miei genitori non mi apprezzano se non ho il successo che vorrebbero”.
I genitori che vogliono aiutare i loro figli dovrebbero lodarli non per le loro capacità, ma per il loro sforzo, per la loro volontà di impegnarsi a fondo anche se non riescono. Un grande allenatore di pallacanestro era solito dire ai suoi giocatori: “Potrete essere superati, ma non perderete mai”. Se darete il meglio di voi, potrete anche perdere la partita, ma guadagnerete e crescerete. Alla lunga sarete vincitori. Chi ha una mentalità fissa vive con la costante paura di fallire. Chi ha una mentalità di crescita non pensa affatto al fallimento.
Se applichiamo questa logica alle spie, vediamo qualcosa di affascinante. La Torà li descrive con queste parole: “Erano tutti uomini di spicco tra gli Israeliti”. (Numeri 13:3) Erano persone con una reputazione da difendere. Gli altri avevano grandi aspettative su di loro. Erano principi, capi, uomini di fama. Se Dweck ha ragione, le persone cariche di aspettative tendono ad essere avverse al rischio. Non vogliono essere viste fallire. Forse è per questo che tornarono indietro e dissero, in effetti: Non possiamo vincere contro i Cananei. Pertanto, non dovremmo nemmeno provarci.
Ci furono due eccezioni tra loro, Caleb e Giosuè. Caleb proveniva dalla tribù di Giuda e Giuda, come si legge nel libro di Bereshit, fu il primo ba’al teshuvah. All’inizio della sua vita era stato lui a proporre di vendere Giuseppe come schiavo. Ma maturò. La nuora Tamar gli diede una lezione. Confessò: “Lei è più giusta di me”. Questa esperienza sembra avergli cambiato la vita. Più tardi, quando il viceré d’Egitto (Giuseppe, non ancora riconosciuto dai fratelli) minacciò di tenere Beniamino come prigioniero, Giuda si offrì di passare la sua vita come schiavo affinché il fratello potesse essere libero. Giuda è l’esempio più chiaro in Bereshit di chi prende le avversità come un’esperienza di apprendimento piuttosto che come un fallimento. Secondo la terminologia di Dweck, aveva una mentalità di crescita. Evidentemente ha trasmesso questa caratteristica ai suoi discendenti, tra cui Caleb.
Per quanto riguarda Giosuè, il testo ci dice specificamente nella storia delle spie che Mosè gli aveva cambiato il suo nome. In origine si chiamava Hoshea, ma Mosè aggiunse una lettera al suo nome (Numeri 13:16). Un cambiamento di nome implica sempre un cambiamento di carattere o di vocazione. Abram divenne Abramo. Giacobbe divenne Israele. Quando cambiamo nome, dice Maimonide, è come se noi o qualcun altro ci dicesse: “Non sei più la stessa persona di prima” (Mishneh Torah, Leggi del pentimento 2:4). Chiunque abbia sperimentato un cambio di nome è stato introdotto in una mentalità di crescita.
Le persone con una mentalità di crescita non temono il fallimento. Apprezzano le sfide. Sanno che se falliscono, riproveranno finché non avranno successo. Non può essere una coincidenza che le due persone tra le spie che avevano la mentalità di crescita, fossero anche le due che non temevano i rischi e le prove della conquista del paese. Né può essere casuale che gli altri dieci, tutti portatori del peso delle aspettative della gente (in quanto leader, principi, uomini di alto rango) fossero riluttanti a farlo.
Se questa analisi è corretta, la storia delle spie contiene un messaggio significativo per noi. Dio non ci chiede di non fallire mai. Ci chiede di dare il meglio di noi stessi. Ci solleva quando cadiamo e ci perdona quando falliamo. È questo che ci dà il coraggio di rischiare. Questo è ciò che sapevano Giosuè e Caleb, l’uno grazie al cambio di nome, l’altro grazie all’esperienza del suo antenato Giuda.
Da qui una verità paradossale, ma profondamente liberatoria: la paura di fallire ci porta a fallire. È la volontà di fallire che ci permette di avere successo.
Redazione rabbi Jonathan Sacks zzl