di Fiona Diwan
Il cortocircuito tra un signore attempato e misantropo, che ha consacrato la sua vita al lavoro e allo studio, e un bambino con un trauma gigantesco, nipote inaspettato ma così vicino
Non c’è come una storia di due orfani per parlare dell’assenza: quella della famiglia mancata, di una presenza genitoriale monca, che resta lì, sospesa, come un’amputazione, come un arto fantasma, genitori che improvvisamente scompaiono lasciando un’eredità di vuoti e voragini incolmabili. Sono orfani entrambi, sia il professor Sacerdoti, cinquantenne in crisi, sia il piccolo Noah, bimbetto haredì rimasto solo al mondo. Se l’ultima fatica letteraria di Alessandro Piperno, Aria di Famiglia (Mondadori) è forse un libro sulla paternità mancata, c’è da dire che è soprattutto una riflessione sulla forza riparatrice dell’accudimento, su come l’amore si nutra e si costruisca nel gesto di occuparsi dell’altro, nella cura di accudirlo giorno dopo giorno. Una riflessione piena di tenerezza sulle soprese che l’esistenza può regalarti obtorto collo, tuo malgrado, magari scegliendo una strada stramba, che non volevi percorrere a nessun costo.
Il romanzo è costruito intorno a un preciso topos letterario, quello del misantropo e dell’uomo scontroso e burbero che incontra qualcuno capace di ribaltarlo, in questo caso Noah di otto anni, piombato a Roma da Londra, capitatogli tra capo e collo, figlio di una parente ebrea osservante che muore improvvisamente.
Il bambino bussa alla sua porta perché lui, il professor Sacerdoti, è l’unico parente rimastogli.
“Non ho voluto figli miei ma mi sono innamorato di questo bambino, il mio personaggio, ho provato una tenerezza infinita per lui”, ha detto l’autore. Il professor Sacerdoti osserva il piccolo, ne nota atteggiamenti, sorrisi, posture e si accorge sbigottito delle somiglianze, di quell’aria di famiglia che glielo rende prossimo, vicino, parente. Quello degli atavismi è un tema molto caro a Piperno e non manca mai nei suoi romanzi, ma emerge sempre venato di quell’ironia travolgente che è la vera chiave della scrittura di Piperno. I rapporti famigliari sono sempre difficili, ti schiacciano, ci costringono a confrontarci con la parte peggiore di noi stessi, ma sono anche garanzia di bellezza e tenerezza.
“Nei romanzi amo ciò che è improbabile e poco plausibile, scelgo sempre ciò che si allontana dai clichè e dal prevedibile. È questo il sale della narrativa. Amo il romanzesco, ovvero ciò che nella vita vera può sembrare improbabile, amo far precipitare l’azione in una serie di tanti piccoli detour e inciampi, anche senza senso”, spiega Piperno che non a caso ripone nel suo scaffale preferito classici come Charles Dickens e Honorè de Balzac, e adora registi come P. T. Anderson (come francesista, Piperno è uno dei massimi esperti di Marcel Proust e Gustave Flaubert in Italia, e insegna Letteratura francese all’università di Tor Vergata).
E così scatta il cortocircuito tra un signore attempato e misantropo, che ha consacrato la sua vita al lavoro, allo studio e ai piaceri edonistici che si ritrova costretto a prendersi cura di un bambino con un trauma gigantesco. Catapultato da orfano, egli stesso, dentro il ruolo di tutore.
Piperno racconta come aveva quasi finito il romanzo quando è accaduto il 7 ottobre. Da quel momento ha iniziato ad avere difficoltà a dormire e a fare qualsiasi cosa, con il risveglio delle paure, un macigno enorme che si abbatteva sull’identità ebraica. Il 7 ottobre si è così insinuato nella trama del romanzo, riaccendendo incubi sopiti da decenni e regalando un respiro tragico alla narrazione. Il trauma comune non era forse ciò che nel romanzo univa i due personaggi, il professore e il ragazzino? Stretti l’uno all’altro di fronte all’attualità che irrompe con brutalità, il professore e il ragazzino avvertono immediatamente che il 7 ottobre è quasi un lutto famigliare, capace di far nascere dentro di loro un legame fortissimo.
Il dolore, il lutto, il mutamento: stando insieme, i due scopriranno di essere una famiglia.
Ma questo e anche molto altro è l’ultimo romanzo di Piperno: è un libro sugli effetti perversi della cancel culture e sulle derive fuorvianti dell’ideologia woke, sulla svolta esistenziale che coglie molti di noi verso i cinquant’anni, sul collasso psico-emotivo dell’Io narrante protagonista. Ecco allora che Piperno si accanisce sulle disgrazie del suo protagonista, lo fa soccombere in un’apoteosi di passività, rinunciatario, vittimista, a capo chino, pronto per il ceppo e la mannaia. E a cui solo questa paternità strana e tardiva ridarà un senso a questa vita che si sfilaccia.