“L’uomo ha sempre bisogno di un nemico. Ma si deve costruire un dialogo di pace”

Silvia Vegetti Finzi (foto © Leonardo Cèndamo)

 

 

di Ilaria Myr

Intervista a Silvia Vegetti Finzi. Per la psicologa e pedagogista, Ambrogino d’Oro 2023, si deve adottare un punto di vista che faccia guardare l’umanità nel suo insieme. Oltre i traumi, anche della guerra in Medio Oriente

 

«L’uomo ha sempre bisogno di un nemico su cui localizzare le proprie paure: lo diceva anche Freud. Purtroppo l’ebreo è sempre stato il nemico perfetto: uguale ma diverso, vicino ma lontano. E quando si pensa alla ricerca del nemico finiscono tutte le ragioni, non si vogliono sentire spiegazioni». Parla con chiarezza mista a preoccupazione Silvia Vegetti Finzi, nota pedagogista e psicologa, insignita nel 2023 dell’Ambrogino d’Oro, di quella che è da sempre una pulsione umana, la ricerca di un capro espiatorio, e che oggi è ancora drammaticamente attuale. La guerra a Gaza, seguita agli attacchi terroristici del 7 ottobre da parte di Hamas nel sud di Israele, ha infatti alimentato un odio antisemita antico che si credeva sopito, e ha polarizzato le opinioni. «Non si è interessati a capire la situazione dell’altro, si ragiona per pregiudizi, ma è profondamente sbagliato – spiega a Bet Magazine-Mosaico -. Dovremmo abbandonare la logica ‘amico-nemico’ e adottare anche un punto di vista più lontano, come se guardassimo il nostro pianeta dallo spazio: non vedremmo terre e popoli, ma la Terra e l’umanità. Solo adottando una nuova geometria della situazione, che tenga conto della nostra fragilità di umani, che abitano un puntino piccolissimo perso nel cosmo, possiamo costruire un nuovo discorso di pace. Perché da donna di pace, sono convinta che la si debba fare, ovunque: ma la devono fare tutte le parti, non basta chiedere il cessate il fuoco a una delle due, israeliani o ucraini».

Il contesto attuale della guerra in Medio Oriente è però ancora profondamente drammatico: troppi sono i traumi dolorosi subiti da entrambe le parti. Come si può uscirne?
«La psicologia è molto chiara: i traumi devono trovare parole – spiega -, perché nella narrazione il trauma, l’ansia e l’angoscia si distendono. Del resto, la storia degli ebrei è sempre stata una storia di elaborazione e di narrazione, dalla Bibbia alla letteratura contemporanea. Davanti però a un trauma così grande e forte, il rischio è che si cerchi di rimuoverlo psicanaliticamente, ma è la cosa peggiore che si possa fare, perché si manifesterà in altro modo, più devastante ancora. Per questo è importante passare a un “noi” superiore, a un altro punto di vista: quello che è successo dal 7 ottobre ha colpito tutta l’umanità, e per questo bisogna riconoscere questa ferita ed elaborarla insieme».

Del resto, oltre che per averlo studiato a fondo, il meccanismo della rimozione è noto a Silvia Vegetti Finzi anche per esperienza personale. Figlia di padre ebreo e madre cattolica, bambina nell’epoca del fascismo – come racconta nel suo libro autobiografico Una bambina senza stella, edito da BUR nel 2015 – non ha conosciuto le proprie radici ebraiche se non in età adulta. «Vivevamo in provincia, andavo a scuola dalle suore, e mai mio padre ha fatto accenno alla sua identità ebraica – racconta -. Eppure sentivo un’imputazione, una diffidenza intorno a me, da parte delle maestre d’asilo o in paese, tutto senza parole: percepivo un clima persecutorio, senza sapere che anche la mia famiglia e io ne eravamo l’oggetto. Addirittura, quando, una quindicina di anni fa, ho detto alle mie zie materne che volevo scrivere la mia autobiografia, mi hanno implorato di non farlo finché fossero state in vita. “Sentiamo che non è finita, che l’odio contro gli ebrei tornerà”. E così ho fatto».

Il primo contatto consapevole con la cultura ebraica avviene a Milano, quando Silvia vi si trasferisce per lavorare negli anni ‘50. La conoscenza di colleghi professori ebrei, personalità di grande spessore, le fa apprezzare l’ebraismo come cultura e come approccio al sapere. Ma anche studiare la psicanalisi diventa per lei un terreno di comprensione di alcuni meccanismi e impronte tipicamente ebraiche. «La capacità di auto analizzarsi, insieme al non sentirsi mai appartenenti, è molto ebraico – spiega -. Ciò è evidente nel testo Il disagio della civiltà di Freud, dove lo studioso, pur inserito nella società, la guarda allo stesso tempo da lontano. E poi c’è la rimozione, meccanismo con cui vengono proiettati sull’ebreo gli aspetti negativi».

Da quando, anni fa, si è ritirata dall’insegnamento, Silvia Vegetti Finzi dedica il proprio tempo alla Casa della cultura, di cui è vicepresidente, e alla casa Vidas, in cui presta attività di volontariato. «Penso che sia per questi miei impegni personali nella città di Milano che mi hanno riconosciuto l’Ambrogino d’Oro» dice modestamente. Ma per noi l’impegno che ha profuso nella trasmissione della conoscenza di sé ha certamente avuto il suo peso.