Erez Tadmor, Lior Raz e Rotem Sela incontrano il pubblico durante l’anteprima mondiale di “Soda” a Venezia

Spettacolo

VENEZIA – dal nostro inviato Pietro Baragiola

Martedì 3 settembre il Cinema Giorgione ha ospitato l’anteprima mondiale di Soda, il nuovo film di Erez Tadmor presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.

All’incontro hanno partecipato il regista insieme alla figlia, Sivan Tadmor, e ai due protagonisti principali del film, Lior Raz e Rotem Sela, che hanno risposto alle domande del pubblico con eleganza e riconoscenza, raccontando i propri legami personali con il progetto.

“Mia nonna ha perso i fratelli e i genitori durante l’Olocausto e la sua esperienza di sopravvissuta è diventata una parte molto importante della nostra storia famigliare” ha raccontato Sela. “Ritengo che questo film sia un dono per tutti gli ebrei e tutti gli israeliani la cui famiglia è stata colpita dall’Olocausto perché, nel bene e nel male, racconta la storia dei nostri sopravvissuti.”

Raz ha portato la sua esperienza di soldato nel progetto, affermando di aver imparato molto dal suo personaggio. “Non c’è niente di più importante del combattere ogni giorno per la nostra verità e per coloro che amiamo e Shalom ne è un chiaro esempio” ha spiegato con fierezza l’attore.

Lo stesso regista è stato molto emozionato nel presentare il nuovo film che, non solo vede sua figlia Sivan tra i protagonisti, ma racconta una vicenda personale della sua storia famigliare: “Soda parla di mio nonno e di mia madre che, negli anni ’50, conoscevano la figlia di una kapò. Vedere la mia piccola Sivan che interpreta la mia amata mamma mi regala una grande soddisfazione. Il cerchio si è chiuso.”

 

La trama

Ambientato negli anni ‘50, Soda racconta la storia di Shalom (Lior Raz), ex membro della Resistenza e coraggioso leader di una comunità di sopravvissuti dell’Olocausto.

Il protagonista e i suoi compagni sono costantemente impegnati ogni giorno a tenere al sicuro il loro vicinato, andando a caccia dei civili ebrei che, durante la guerra, avevano collaborato con i nazisti.

Questo clima carico di traumi e violenza trova finalmente una pausa con l’arrivo nella comunità di due nuove presenze: la bellissima sarta Ewa e sua figlia Hanna.

Shalom si innamora subito di Ewa e i due instaurano una relazione clandestina che però non sfugge allo sguardo attento della moglie e della figlia del protagonista.

Il vero dramma scoppierà quando, durante uno dei pranzi della comunità, alcune donne riconosceranno Ewa come una delle ex kapò di Auschwitz, stravolgendo la vita di Shalom che si vedrà combattuto tra il proteggere l’amata e il rispettare i suoi doveri verso il vicinato.

“Non tutti i kapò erano colpevoli di crimini contro gli ebrei e spero che questo film lo ricordi al pubblico” ha spiegato il regista durante l’incontro. “Alcuni erano semplici prigionieri che si sono adeguati in modo da sopravvivere o garantire la sopravvivenza dei loro cari, aiutandoli come meglio potevano, ma dopo la guerra sono comunque dovuti fuggire in Australia, in Sud America o in Africa pur di ricostruirsi una vita lontano da chi potesse riconoscerli.”

 

L’intervista a Lior Raz

A poche ore dall’anteprima abbiamo avuto modo di intervistare di persona Lior Raz in merito alla sua esperienza di protagonista del film.

Di seguito le domande e risposte tradotte dall’inglese.

Il suo personaggio, Shalom, è un ex combattente della resistenza conteso tra l’amore che prova per Ewa e lo scandalo del suo passato da kapò. Secondo lei, quando ci innamoriamo di qualcuno, dobbiamo tener conto del passato di questa persona o vederla solo per chi è in questo momento?

Ritengo che il passato di una persona sia importante ma sono anche convinto del fatto che in amore non esistano regole ben precise. A volte ti innamori talmente tanto di una persona che tutto il resto che credevi importante fino a quel momento svanisce, come se la tua vista si fosse offuscata e tu riuscissi a vedere solo la tua amata.

Parlando di Shalom, è importante ricordare che attorno a lui c’è solo morte, violenza e rimorso. Tutte le persone a lui vicine stanno soffrendo in un modo o nell’altro di depressione per i traumi patiti durante l’Olocausto e l’arrivo di Ewa nel vicinato porta con sé gioia, risate e un vento di vita che a Shalom mancava da molto tempo.

Il mio personaggio si innamora di una donna per la persona che è in quel momento, senza sapere che fosse una kapò, ma semplicemente per quell’amore nei confronti della vita che lei gli sta facendo riscoprire. Per questo motivo è disposto a lottare con i suoi amici, con sua moglie e con chiunque altro pur di stare con lei.

Il passato è un tema davvero complicato in questo film perché, quando si parla di Olocausto, è difficile giudicare qualcuno per ciò che può aver fatto pur di sopravvivere. Ewa potrà anche essere stata una kapò, ma oggi non lo è e per Shalom solo questo conta.

 

Pensa dunque che la redenzione sia possibile?

Certamente! Ognuno di noi ha fatto cose che rimpiange o che non sono moralmente giuste. Persino cose che non si vogliono più ricordare. Nessuno ha la coscienza completamente pulita quindi è fondamentale che esista una redenzione.

Bisogna però ricordare che questa incomincia sempre perdonando noi stessi. Se non ci riusciamo non potremo mai andare avanti e cercare il perdono altrui.

 

È interessante il fatto che il nome “Shalom” in ebraico significa “pace” e il protagonista cerca di mantenere la pace nella sua comunità. Ritiene che il nome di una persona possa contribuire al suo carattere?

Secondo me sì. In Israele, in ebraico, ogni nome ha un significato preciso.

Io sono “Lior”, che tradotto vuol dire “Mia luce”, e cerco sempre di essere la luce per chi mi sta vicino. Ognuno di noi ha un nome e questo porta con sé un passato ma anche un futuro che emerge subito quando si presta attenzione.

Per farvi un esempio: io ho quattro figli e tutte le volte che li ho presi in braccio per la prima volta mi sono reso conto che il nome che avevo in mente per loro fino a quel momento non era giusto e, semplicemente osservandoli, ho capito subito quale sarebbe stato il loro nome.

 

Lei e Rotem Sela avete lavorato a stretto contatto. Cosa pensa di aver imparato da lei sul set?

Io e Rotem siamo ottimi amici. Lei è straordinaria ed ogni giorno imparo qualcosa di nuovo grazie a lei. Siamo attori con metodi completamente diversi ma io ho l’ADHD e lei riesce sempre a tenermi concentrato sulla scena in atto.

Spesso, per via della mia reputazione e della carriera che ho alle spalle, molti attori sono intimiditi dal lavorare con me, ma Rotem no. Lei è un’ottima partner.

 

Questo film è tratto dalla storia famigliare del regista. Ha avvertito maggiori responsabilità sul set?

Non è facile interpretare qualcuno che è davvero esistito ma quando mi calo in un personaggio cerco sempre di non avanzare pretese su di lui, bensì di immedesimarmici completamente. Cerco di capire il tempo e il luogo in cui ha vissuto e cosa lo ha portato a comportarsi in questo modo.

È un processo molto intenso ma incredibilmente stimolante per un attore.

 

Cosa significa per lei portare questo film a Venezia durante il clima di forte antisemitismo causato dal conflitto tra Israele e Hamas?

È innanzitutto un grande onore, come artista, quello di partecipare alla Mostra del Cinema di Venezia ma è importante ricordare che non siamo qui solamente per noi ma per il popolo d’Israele.

Per questo motivo indossiamo le spille con il fiocco giallo: stiamo rappresentando il nostro popolo e non intendiamo dimenticare quello che sta succedendo a casa. È molto difficile al giorno d’oggi essere ebreo o israeliano fuori da Israele ma è nostro compito parlare anche per chi non può.