di David Zebuloni
Parla l’attivista, attrice, “ambasciatrice” di compassione e verità.
«L’odio contro Israele è diventato insopportabile». Un’intervista esclusiva
Moran Atias è senza dubbio uno dei volti israeliani più noti e apprezzati al mondo. Modella e attrice di fama internazionale, Moran è nata a Haifa, ma ha trascorso parte della sua vita a Milano, dove ha imparato perfettamente la lingua, la cultura italiana, ed è diventata il volto delle più grandi case di moda italiane quali Gianni Versace, Roberto Cavalli e Dolce e Gabbana. Stufa di posare, ha oggi trovato la sua vocazione nel cinema, recitando in film e serie tv e comparendo sui piccoli e grandi schermi di tutto il globo.
Tuttavia, anche la carriera di attrice acclamata non ha soddisfatto tutti i suoi bisogni. Negli ultimi anni, infatti, la bella Moran si è data all’attivismo sociale, coniugando il successo nel mondo dello spettacolo a un impegno umanitario di grande rilievo. È diventata così ambasciatrice di pace a sostegno delle comunità più vulnerabili, ma dopo il 7 ottobre tutto è cambiato. L’attacco terroristico di Hamas ha stravolto l’esistenza dell’attrice, che ha deciso di mettere in pausa la sua vita e la sua carriera, per dedicarsi interamente al suo popolo e alla sua patria. Nell’ultimo anno Moran si è esposta in prima linea a favore delle famiglie degli ostaggi, fornendo loro supporto psicologico e fungendo da megafono per chiunque volesse far sentire la propria voce, ma non ne avesse i mezzi o le forze.
All’81esima Mostra del Cinema di Venezia, l’impegno dell’instancabile attivista israeliana è stato finalmente premiato. Moran Atias è stata insignita del prestigioso riconoscimento “Diva e Donna” per essersi distinta per talento, impegno sociale e capacità di influenzare positivamente la società attraverso il proprio lavoro. L’ennesima dimostrazione che la bellezza che conta davvero, è quella dell’anima.
Moran, ti abbiamo vista il mese scorso sul red carpet della Mostra del Cinema di Venezia. Come sei stata accolta?
Ho ricevuto abbracci sinceri e critiche di ogni tipo. Gli abbracci sono stati meravigliosi, risanatori, poiché mi hanno permesso di liberare quelle lacrime che ho trattenuto troppo a lungo. Le critiche, invece, ho cercato di tramutarle in dibattiti costruttivi. Ho provato a spiegare ai miei interlocutori che la guerra che sta combattendo Israele non è politica, ma esistenziale. Che non importa chi ci sia al governo in questo momento, la destra o la sinistra, poiché Hamas vuole distruggere tutti indistintamente.
Ti sei sentita ambasciatrice di Israele, date le circostanze?
Sì, questa volta però non un’ambasciatrice di bellezza, ma di compassione, che è la capacità di trovare il bello nell’uomo. L’odio a cui stiamo assistendo è diventato insopportabile. Oggi più che mai abbiamo bisogno di essere uniti. Di cercare il bello che è dentro di noi e che ci accomuna.
Il vestito che hai indossato, ha un significato particolare?
Certamente. Il vestito era bianco, perché volevo trasmettere un messaggio di pura speranza. Lo strascico era particolarmente lungo, come a rappresentare il periodo infinito nel quale gli ostaggi israeliani si trovano in cattività nei tunnel di Hamas. E poi la collana, simile al simbolo degli ostaggi, stretta stretta alla gola, quasi a soffocarla. D’altronde si sentono così gli israeliani da un anno a questa parte: senza aria.
Dopo aver trascorso un anno in un paese in guerra, hai visto Venezia con occhi diversi?
Venezia è un sogno. Una favola. Mi sono ricordata del mondo meraviglioso che abbiamo e nel quale meritiamo di vivere. Un mondo fatto di bellezza e di cultura. Il sogno, tuttavia, è presto diventato un incubo. L’incubo che sta vivendo Israele dal 7 ottobre ad oggi. La tragica notizia delle esecuzioni di Eden, Carmel, Hersh, Uri, Almog e Alex mi ha ricordato contro quale nemico stiamo combattendo.
Moran, ricordi dov’eri il 7 ottobre?
Ero a casa dei miei genitori, a Haifa. Mi sono svegliata prestissimo. Ero appena tornata da Los Angeles con la mia bambina, esausta dal fuso orario. Non ho capito subito cosa stesse succedendo. Chi come me è cresciuto in Israele conosce il terrorismo in tutte le sue sfumature, ma quel giorno la sensazione era diversa. Fortissima. Quello di Hamas non è stato l’ennesimo attacco terroristico, ma una vera e propria dichiarazione di guerra.
Dopo un anno di combattimenti su fronti diversi, come credi che sia cambiata Israele?
I nostri soldati – i nostri fiori, così li chiamiamo – continuano a morire per difenderci. Gli ostaggi non sono più stati liberati. Un anno dopo il 7 ottobre, Israele è ancora in lutto. Perciò è difficile parlare di cambiamento con una certa prospettiva. Io, tuttavia, credo di essere cambiata molto: come madre, come donna, come attrice, come ebrea, come israeliana. Ho soprattutto capito che, nonostante io abbia abitato in molti paesi, Israele è la mia unica casa.
Credi di concepire la guerra in modo diverso da quando sei diventata mamma della piccola Lia?
Credo di essere diventata più nostalgica. Provo nostalgia per persone che non ho mai conosciuto e che non ci sono più. Mi mancano gli ostaggi. Appena mi allontano dalla mia bambina, anche se per pochi istanti, mi manca in modo viscerale. Lo sento dentro, nello stomaco.
A lei come spieghi la guerra, le sirene, le perdite, il dolore?
Lia ha solo un anno, non le ho ancora spiegato nulla, ma mi vede spesso piangere e quando ciò accade, preferisco allontanarmi. Nell’ultimo anno sono venuta in Italia molte volte, per partecipare a diverse manifestazioni, anche per questo motivo: quando non riesco a tenere il dolore dentro, parto. Non voglio che mi veda triste.
In effetti sei stata tra i primi, dopo il 7 ottobre, a capire che Israele deve essere raccontata in modo diverso. Hai girato il mondo, hai incontrato migliaia di persone. Ti sei sentita capita?
Nessuno può capire la tragedia, se non l’ha vissuta. Il mio obiettivo, dunque, non era quello di trasmettere un’emozione o raccontare un frammento di vita, ma di spiegare una realtà in tutta la sua complessità. Ho cercato di spiegare che Hamas non è un gruppo terroristico proveniente da un pianeta lontano, ma un movimento palestinese figlio della cultura jihadista e musulmana. I terroristi non sono extraterrestri, ma comuni palestinesi che hanno deciso di agire nel modo più meschino che esista. Finita la guerra contro Israele, cercheranno altre vittime, e questo gli europei lo capiscono bene, ma non vogliono crederci.
Credi che abbiano paura?
Sì, hanno molta paura. Ho avuto un importante incontro in Vaticano con un gruppo di vescovi. Non posso fare i loro nomi, ma alcuni di loro avevano paura di esprimersi a proposito della guerra. A condannare il terrorismo di Hamas. E sai perché? Perché sono stati minacciati dai musulmani estremisti, e non vogliono che le loro chiese vengano bruciate.
Forse mi sbaglio, ma credo che l’argomento a te più vicino sia quello delle violenze sessuali che hanno subito le donne israeliane il giorno della strage. Ne hai parlato in ogni forum al quale sei stata invitata, ricordando la loro doppia sofferenza: quella di israeliana e quella di donna.
L’argomento a me più vicino è quello degli ostaggi. Di tutti gli ostaggi. Uomini e donne. Che madre e che donna sarei se non mi battessi anche per i diritti degli uomini? Io soffro a pensare che i nostri figli, i nostri mariti, i nostri padri, i nostri nonni, siano lì, a Gaza, tenuti in cattività. Tuttavia, le donne sono vittime anche dell’ipocrisia, oltre che del terrorismo. Chi grida per i loro diritti? Nessuno, allora lo faccio io.
Da donna, come ti spieghi questa ostilità, questa ipocrisia delle organizzazioni femminili mondiali come MeToo o il Dipartimento per i Diritti delle Donne dell’Onu nei confronti delle donne ebree e israeliane? Come ti spieghi questo doppio standard?
Doppio standard? Non c’è nulla di doppio qui. Il loro non è uno standard. Non hanno più standard. Da donna, provo solo vergogna.
Tutti gli slogan come quelli di MeToo, oggi non valgono più niente. Si annullano di fronte alla loro incapacità di condannare gli atti barbarici di Hamas.
Sei ancora ottimista circa il futuro che ci attende, oppure, dopo il 7 ottobre, non possiamo più permetterci di essere ottimisti?
Io sarò sempre ottimista. Se perdiamo la speranza, perdiamo tutto ciò che ci rende umani.
D’altronde esistono ancora gli antisemiti, ma il nazismo come movimento non esiste più. Credo che ciò accadrà anche con il terrorismo. Esisteranno i fanatici, ma non esisterà più una leadership terrorista. Israeliani e palestinesi possono convivere, la condizione è una sola: i palestinesi devono accettare che Israele continuerà a esistere. Che nove milioni di abitanti, non solo ebrei, non se ne andranno da nessuna parte. From the river to the sea, Israele rimarrà qui. Punto.
Come immagini il giorno successivo alla guerra?
Da mamma voglio immaginare che mia figlia andrà in spiaggia, a Tel Aviv, e che i bambini palestinesi andranno nelle spiagge di Gaza. E i cieli saranno pieni di aquiloni colorati. Questo è il mio sogno. Che i due popoli possano godere di questa terra bellissima che Dio ci ha dato, e che noi tutti abbiamo distrutto. In modo più concreto, immagino un accordo tra i due popoli supervisionato da un’entità che possa accertarsi che nelle scuole palestinesi non venga insegnato l’odio e la violenza contro gli ebrei. Non possiamo più aver paura di bere il caffè al bar perché un fanatico palestinese potrebbe spararci addosso. Non possiamo più accettare il terrorismo. Noi dobbiamo essere sicuri di poter vivere una vita sicura, e loro devono essere sicuri di poter vivere una vita dignitosa.
Lo slogan del Memoriale del Nova Festival è We will dance again. Torneremo davvero a ballare Moran?
Certo che sì. Mai perderò la mia voglia di festeggiare, di celebrare la vita, di essere fiera di essere ebrea. Mai. Anzi, la vita adesso ha per me un valore ancora più grande. È una scelta, quella di essere felici. Quella di essere luce.
Sì, proprio in questi giorni stavo pensando che se Dio mi darà di nuovo la possibilità di diventare madre, e mi regalerà un’altra figlia, io la chiamerò Luce. Questa sarà la mia, la nostra rinascita. Luce.