“Ci sentiamo soli”. Il tempo dell’incertezza e dell’isolamento

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Questi giorni, questi mesi, questi ultimi due anni saranno ricordati, nell’ebraismo di ogni luogo e tempo, come tra i peggiori rispetto a quelli vissuti dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ad oggi. Ossia, dalla “scoperta” della Shoah in poi. Non solo, si intende, in Italia. Semmai, piuttosto, nel mondo intero.

Molte cose sono infatti accadute. Non stiamo a farne il riepilogo. Non è questo che ci interessa. Semmai ci importa dire che tante di esse sono letteralmente precipitate sulla testa delle persone, così come della famiglie. Quindi, delle comunità ebraiche. Queste ultime, peraltro, non sono organismi separati dalle società circostante. In America, poi, si parlerebbe soprattutto di congregazioni. Semmai costituiscono l’organo collettivo rispetto al quale ci si riferisce nel momento della condivisione così come dello smarrimento, quindi della speranza al pari della delusione. Ci si cerca reciprocamente e quindi ci si trova nella gioia, così come nell’angoscia, nell’enfasi al pari del momento del dolore.

L’ebraismo non è in nulla e per niente un soggetto compatto, unitario, quindi una sorta di falange di potere che si ripete inesorabilmente nel tempo, come invece i suoi detrattori fingono di sapere che sia. L’ebraismo – infatti – non contrassegna una “razza” (cosa vorrebbe dire, a conti fatti, tutto ciò?) come neanche una rigida appartenenza di campo. Non è un mero sodalizio endogamico (tutti eguali poiché omologhi). Come tale, allora, non si risolve neanche in una qualche improbabile ibridazione (tutti “plurali” e, quindi, ancelle della “differenza”, qualsivoglia cosa ciò intenda indicare). Alla favola di un ceppo incontaminato non si può affiancare la fiaba di una finzione, ossia la convinzione che il perdurare di un gruppo nel tempo sia il prodotto dell’adesione ad un cliché astorico, basato sull’ossessiva ripetizione di un medesimo canone. Se tutto ciò può eventualmente valere per i suggestionati – di ogni genere e risma – da un’idea di sé stessi statica, monumentale, sacralizzante, fondata sull’ossessione dell’uniformità, la realtà dei fatti da sempre ci dice che quello che muta nel tempo, adattandosi alle trasformazioni del mondo, è alla radice stessa dell’essere umano. Posto che la sopravvivenza dell’ebraismo, nel corso del tempo, è stata semmai garantita proprio dal fatto di essere “poroso”, ovvero capace di confrontarsi alle condizioni date senza per una tale ragione annullarsi, così come dalla destrezza nel navigare tra fondamentalismo e assimilazionismo, quindi tra i richiami al proprio annichilimento del pari ai rimandi ad una “tradizione” che, nel momento stesso in cui viene pronunciata, non esiste mai come un mero monolito. Semmai, si materializza come una sorta di ancora di mosaico fatto di tanti tasselli. Ognuno di noi, affrontando la propria esistenza, cerca ciò che ritiene essergli più prossimo. Ossia coloro che possono ascoltarlo. Anche per questo non esiste l’ebreo, inteso come una sorta di immutabile cliché, bensì gli ebrei, una pluralità di individui, pensieri, atteggiamenti, condotte alla perenne ricerca di un comune denominatore.

Ad oggi, quest’ultimo è divenuto il duplice rimando all’incertezza e alla solitudine. Incertezza dettata da un tempo, quello corrente, che sembra contrassegnato dall’imponderabilità di quello in divenire così come dall’estrema fragilità di quei già precari equilibri che hanno retto la vita degli ebrei dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi. Un tale quadro pare infatti essere contrassegnato dalla facile reversibilità, dalla repentina revocabilità di quel che si era faticosamente costruito nel mentre. Gli scenari del conflitto israelo-palestinese, a tale riguardo, vanno ben oltre i protagonisti regionali, allungando la loro ombra, in un gioco di cerchi concentrici, sull’esistenza di persone, gruppi e società molto differenti e distanti. Le rifrazioni di quel conflitto irrisolto sono tossiche, inquinano come delle scorie radioattive qualsiasi discussione, qualsivoglia dibattito. Alimentandosi d’ira e generando furore frantumano ogni forma residua di comunicazione e scambio. Anche per questa ragione subentra allora il senso della solitudine. Una condizione assai poco romantica, per nulla estetizzante. La solitudine è soprattutto il risultato dell’isolamento sociale per via della ricorrente stigmatizzazione. Se non c’è alcuna interlocuzione possibile, rimane solo la sconsolante immagine di sé dinanzi a uno specchio appannato. Qualcosa, per l’appunto, che si consuma nella più assoluta estraneità da parte degli “altri”. Con un non so che dall’eco minacciosa.

Anche per questo motivo, francamente non importa quale sia stato il passato. Non almeno in maniera esclusiva. Poiché chi pensa solo a ciò che fu, non sarà mai capace di intendere quello che potrà essere. Semmai, detto tutto ciò, conta l’incerta navigazione nel presente. Essere minoranza, a tale riguardo, non rimanda in alcun modo al privilegio di una qualche “elezione” bensì alla cognizione della transitorietà degli ordinamenti umani.