Parashat Simchat Torà e Bereshit. La libertà di scelta dell’uomo è la prova che D-o ha fiducia in lui

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Vezot Habracha è la benedizione di Mosè, impartita l’ultimo giorno della sua vita agli Israeliti, tribù per tribù. Si conclude in modo toccante con la morte di Mosè e la sua sepoltura, apparentemente per mano di Dio, nella terra di Moab, così che “fino ad oggi nessuno conosce il luogo della sua sepoltura” (Deuteronomio 34:6).

I versetti conclusivi della Torà sono un omaggio al più grande leader e profeta che gli israeliti abbiano mai avuto, eppure il riconoscimento finale che la Torà gli conferisce è commovente nella sua semplicità. Egli era “l’uomo Mosè” (Numeri 12:3), “il servo del Signore” (Deuteronomio 34:5).

La parashà, letta non come una normale porzione di Shabbat, ma in occasione della festa di Simchat Torà, è un commento profondo sulla mortalità e sulla condizione umana. Il Mosè che incontriamo nella Torà è semplicemente un essere umano reso grande dal compito che gli è stato assegnato e dall’umiltà che lo ha reso supremamente uno attraverso il quale scorrevano la parola e la potenza di Dio.

COMMENTO PARASHÀ BERESHIT

C’è una domanda profonda nel cuore della fede ebraica, che viene posta molto raramente. All’inizio della Torà vediamo Dio che crea l’universo giorno per giorno, facendo emergere l’ordine dal caos, la vita dalla materia inanimata, la flora e la fauna in tutta la loro meravigliosa diversità. In ogni fase Dio vede ciò che ha creato e lo dichiara buono.

Che cosa è andato storto? Come è entrato in scena il male, mettendo in moto il dramma di cui la Torà- in un certo senso, l’intera storia – è una testimonianza? La risposta breve è: l’uomo, Homo sapiens, noi. Solo noi, tra le forme di vita finora conosciute, abbiamo libero arbitrio, scelta e responsabilità morale. I gatti non discutono sull’etica di uccidere i topi. I pipistrelli vampiri non diventano vegetariani. Le mucche non si preoccupano del riscaldamento globale.

È questa complessa capacità di parlare, pensare e scegliere tra corsi d’azione alternativi che è allo stesso tempo la nostra gloria, il nostro fardello e la nostra vergogna. Quando facciamo il bene siamo poco più in basso degli angeli. Quando facciamo il male, cadiamo più in basso delle bestie. Perché allora Dio ha corso il rischio di creare l’unica forma di vita in grado di distruggere l’ordine stesso che aveva creato e dichiarato buono? Perché Dio ci ha creati?

Questa è la domanda posta dalla Ghemara in Sanhedrin:

Quando il Santo, benedetto Egli sia, venne a creare l’uomo, creò un gruppo di angeli ministri e chiese loro: “Siete d’accordo che facciamo l’uomo a nostra immagine?”. Essi risposero: “Sovrano dell’universo, quali saranno le sue azioni?”. Dio mostrò loro l’intero futuro dell’umanità. Gli angeli risposero: “Che cos’è l’uomo perché Tu te ne ricordi?”. [cioè che l’uomo non sia stato creato]. Dio distrusse gli angeli. Creò un secondo gruppo, fece loro la stessa domanda ed essi diedero la stessa risposta. Dio li distrusse. Creò un terzo gruppo di angeli, che risposero: “Sovrano dell’universo, il primo e il secondo gruppo di angeli ti hanno detto di non creare l’uomo, ma non è servito. Non hai ascoltato. Che cosa possiamo dire allora se non questo: L’universo è Tuo. Fanne ciò che vuoi”. E Dio creò l’uomo. Ma quando si arrivò alla generazione del Diluvio e poi alla generazione di coloro che costruirono la Torre di Babele, gli angeli dissero a Dio: “Non avevano forse ragione i primi angeli? Guarda quanto è grande la corruzione del genere umano”. E Dio rispose: “Fino alla vecchiaia non cambierò e fino ai capelli grigi sarò ancora paziente” (Isaia 46:4). Talmud babilonese, Sanhedrin 38b

Tecnicamente la Ghemara sta affrontando una sfida stilistica nel testo. Per ogni altro atto di creazione in Genesi 1, la Torà ci dice: “Dio disse: “Sia”… E fu”. Nel caso della creazione del solo genere umano, c’è una prefazione, un preludio. “Poi Dio disse: “Facciamo l’umanità a nostra immagine, a nostra somiglianza…””. Chi è il “noi”? E perché questo preambolo?

Nel loro modo apparentemente innocente e infantile (ma in realtà sottile e profondo) i Saggi risposero a entrambe le domande dicendo (per citare Amleto) che per un’impresa di tale portata Dio si consultò con gli angeli. Erano loro il “noi”.

Ma ora la domanda diventa davvero molto profonda. Infatti, creando gli esseri umani, Dio ha portato all’esistenza l’unica forma di vita, con la sola eccezione di se stesso, capace di libertà e di scelta. Questo è il significato della frase: “Facciamo l’umanità a nostra immagine e somiglianza”. Il fatto saliente è che Dio non ha un’immagine. Creare un’immagine di Dio è l’atto archetipico dell’idolatria.

Questo non significa solo il fatto ovvio che Dio è invisibile. Non può essere visto. Non può essere identificato con nulla in natura: né con il sole, né con la luna, né con i tuoni, né con i fulmini, né con l’oceano, né con altri oggetti o forze che la gente adorava a quei tempi. In questo senso superficiale, Dio non ha un’immagine. Questo, scriveva Sigmund Freud nel suo ultimo libro, Mosè e il monoteismo, è stato il più grande contributo dell’ebraismo. Adorando un Dio invisibile, gli ebrei hanno spostato l’equilibrio della civiltà dal fisico allo spirituale.

Ma l’idea che Dio non abbia un’immagine va ben oltre. Significa che non possiamo concettualizzare Dio, comprenderlo o prevederlo. Dio non è un’essenza astratta, ma una presenza viva. Questo è il significato dell’autodefinizione che Dio stesso ha dato a Mosè al Roveto Ardente: “Sarò ciò che sarò”, cioè “sarò ciò che sceglierò di essere”. Io sono il Dio della libertà, che ha dotato l’umanità di libertà, e sto per condurre i figli di Israele dalla schiavitù alla libertà.

Quando Dio ha fatto l’umanità a sua immagine e somiglianza, significa che ha dato agli esseri umani la libertà di scegliere, in modo che non si possa mai prevedere completamente ciò che faranno. Anche loro – nei limiti della nostra finitudine e mortalità – saranno ciò che sceglieranno di essere. Ciò significa che quando Dio ha dato agli esseri umani la libertà di agire bene, ha dato loro la libertà di agire male. Non c’è modo di evitare questo dilemma nemmeno per Dio stesso. E così è stato. Adamo ed Eva peccarono. Il primo figlio dell’uomo, Caino, uccise il secondo, Abele, e in breve tempo il mondo si riempì di violenza.

Alla fine della parashà di questa settimana, leggiamo uno dei passaggi più crudi di tutta la Tanach: Dio vide che la malvagità dell’umanità sulla terra stava aumentando. Ogni impulso del suo pensiero più intimo era solo per il male, tutto il giorno. Dio si pentì di aver creato l’uomo sulla terra e ne fu addolorato fino al midollo. (Genesi 6:5-6)

È questa complessa capacità di parlare, pensare e scegliere tra corsi d’azione alternativi che è allo stesso tempo la nostra gloria, il nostro fardello e la nostra vergogna. Quando facciamo il bene siamo poco più in basso degli angeli. Quando facciamo il male, cadiamo più in basso delle bestie. Perché allora Dio ha corso il rischio di creare l’unica forma di vita in grado di distruggere l’ordine stesso che aveva creato e dichiarato buono? Perché Dio ci ha creati?.

Dio ha creato l’umanità perché ha fede nell’umanità. Molto più di quanto noi abbiamo fede in Dio, Dio ha fede in noi. Possiamo fallire molte volte, ma ogni volta che falliamo, Dio dice: “Anche fino alla vecchiaia non cambierò, e anche fino ai capelli grigi, sarò ancora paziente”. Non rinuncerò mai all’umanità. Non perderò mai la fede. Aspetterò il tempo necessario affinché gli esseri umani imparino a non opprimere, schiavizzare o usare la violenza contro altri esseri umani. Questa, secondo il Talmud, è l’unica spiegazione concepibile del perché un Dio buono, saggio, onniveggente e onnipotente abbia creato creature fallibili e distruttive come noi. Dio ha pazienza. Dio ha il perdono. Dio ha compassione. Dio ha amore.

Il Talmud, immaginando una conversazione tra Dio e gli angeli, suggerisce una tensione all’interno della mente di Dio stesso. La risposta che Dio dà agli angeli è straordinaria: “Anche fino alla vecchiaia non cambierò, e anche fino ai capelli grigi sarò ancora paziente”. Cioè: Io, Dio, sono disposto ad aspettare. Se ci vogliono dieci generazioni per un Noè e altre dieci per un Abramo, sarò paziente. Per quante volte gli uomini mi deludano, non cambierò. Per quanto male facciano nel mondo, non dispererò. Una volta mi sono disperato e ho portato il diluvio. Ma dopo aver visto che gli uomini sono solo umani, non porterò mai più un diluvio”.

Da qui la domanda degli angeli, che va a toccare l’ultima questione al centro della fede. Perché Dio, conoscendo i rischi e i pericoli, ha creato una specie che poteva ribellarsi a Lui e lo ha fatto, devastando l’ambiente naturale, cacciando altre specie fino all’estinzione, opprimendo e uccidendo i suoi simili?
Il Talmud suggerisce che questa è l’unica spiegazione concepibile del perché un Dio buono e saggio onnisciente e onnipotente è stato in grado di creare creature distruttive e fallibili come noi. Dio ha pazienza. Dio è clemente. Dio ha compassione. Dio ha amore.

Per secoli, teologi e filosofi hanno guardato la religione al contrario. Il vero fenomeno centrale – il mistero e il miracolo – non è la nostra fede in Dio. È la fede di Dio in noi.