di Redazione
Meno trattato del jazz afroamericano, il contributo ebraico ashkenazita a questo genere musicale è stato invece fondamentale e su questo argomento domenica 27 ottobre su Zoom si sono soffermati il musicologo e consulente artistico Gianni Morelenbaum Gualberto e il giornalista e conduttore Roberto Zadik.
L’evento organizzato da Kesher è stato introdotto oltre che dalla sua responsabile Paola Hazan Boccia anche dall’assessore alla Cultura della Comunità ebraica milanese, Sara Modena. Tutto è cominciato dalla prefazione di Zadik che ha subito sottolineato le peculiarità del Jazz ebraico americano e la sua continua fusione di elementi appartenenti alla tradizione musicale est europea, dai ritmi klezmer al retroterra classico, ai ritmi jazzistici afroamericani, da Miles Davis a John Coltrane in una vastissima serie di artisti che “continua imperterrita dagli anni Venti ad oggi”. Tre sono punte di diamante di questo genere: George Gerschwin, Benny Goodman e Stan Getz. Tratteggiando sinteticamente la figura del compositore di Rapsodia in Blu e Summertime, il cui vero cognome era Gerschowitz, Zadik ha sottolineato come egli abbia iniziato come prodigioso pianista classico per poi trasformarsi in “ricercatissimo compositore e indagatore nelle tradizioni e negli artisti più svariati, compreso il compositore del Bolero Maurice Ravel che divenne suo modello d’ispirazione, volgendosi sempre più ai temi sociali e al mondo afroamericano in un sodalizio che poi divenne sempre più forte, quello fra ebrei e afroamericani”.
Le altre due figure chiave del Jazz ebraico d’oltreoceano furono il “grintoso clarinettista Benny Goodman anche lui sperimentatore e pioniere dello swing, genere più leggero e meno impegnato del jazz. In seguito alla prematura scomparsa di Gerschwin, Goodman furoreggiò in performance memorabili come il concerto alla Carnegie Hall nel 1938, proprio mentre l’Europa era insanguinata dalle atrocità del nazismo, interpretando brani immortali come uno dei suoi classici Sing Sing Sing“. Infine, il giornalista musicale si è soffermato sul malinconico e riservato sassofonista Stan Getz, all’anagrafe Stanley Gayetzky, che ” si contraddistinse per il sound fortemente introspettivo fondendo fra loro il suo jazz contemplativo con i ritmi brasiliani della Bossa Nova, cosa che prima di lui era totalmente inusuale diventando molto frequente in seguito”. Il jazz ebraico americano oscillò quindi fra multiculturalismo e sperimentalismo, fra retroterra ebraico Est europeo e assimilazione; un esempio? il famoso film Il cantante di Jazz con l’attore Al Jolson (vero nome Yoelson) in cui il protagonista decide di abbandonare il canto sinagogale per “buttarsi nel mare del jazz e della società circostante”. “Ho scelto questi tre musicisti, accomunati da un forte retroterra ebraico russo e caratterizzati da un misto di vitalità, virtuosismo, sperimentazione e sofferenza ” ha puntualizzato Zadik “essi si rivelano ancora oggi di assoluta attualità e modernità grazie al loro multiculturalismo e al messaggio antirazzista estremamente importante, soprattutto nei tempi velenosi che stiamo vivendo”.
Successivamente è stata la volta del magistrale approfondimento di Gianni Morelenbaum Gualberto che ha trattato una serie di tematiche, dall’identità nascosta di vari musicisti ebrei che spesso occultavano le loro origini, all’antisemitismo americano di quegli anni, al complesso rapporto con gli afroamericani, ricordando l’estrema vastità di questo argomento e proponendo al pubblico una serie di brani splendidi come Echoes of Spring del musicista Willie The Lion Smith. Partendo da questo artista che era sia afroamericano che ebreo e morì come cantore sinagogale a New York, egli ha ricordato “che il tema della musica ebraica attraversò l’intero spettro del Novecento americano incrociandosi con cinema, arte e letteratura anche se rimane sempre la domanda su cosa si intenda per influenza ebraica a livello musicale e nel jazz?”. Interrogandosi su questo primo argomento e se essa sia maggiormente legata alla cantillazione sinagogale, al Klezmer o alla musica sefardita e se sia solo musica suonata da ebrei. il musicologo ha specificato come essendoci vari tipi di ebrei, dai più credenti ai più laici, il tema della musica ebraica sia “molto spinoso perché riguarda l’identità dei singoli e che non sempre il musicista ebreo compone necessariamente musica ebraica”. Nel suo discorso egli ha sottolineato il problema di cosa sia la musica ebraica anche nel jazz statunitense e di come “molti ebrei abbiano fatto musica ebraica inconsapevolmente dovendosi adattare a una società completamente nuova”.
A questo proposito egli ha ricordato come da parte di molti artisti ebrei “vi fosse la perenne ricerca di un’integrazione in cui l’elemento ebraico fosse meno presente possibile visto il terribile antisemitismo di quei tempi”. Risaltando il razzismo di quell’America in cui gli ebrei Est europei si trovarono a immigrare egli ha raccontato le varie difficoltà da loro sofferte trovando un “mondo molto particolare rappresentato dal jazz che era dominato dagli afroamericani che erano a loro volta figli di un’altra diaspora anche se molto più recente e accomunati al mondo ebraico da un bagaglio comune di sofferenza.”
Ma qual era il rapporto fra ebrei e afroamericani nella società oltre che nella scena jazz? Legati fra loro da vari punti in comune anche se c’erano non pochi casi di ostilità antiebraica, il musicologo si è soffermato sul rapporto profondamente “ondivago fra loro fino alle predicazioni apertamente antisemite di personaggi come Malcolm X” citando un libro scritto dal clarinettista ebreo Milton Mezzrow Really The Blues che spiega alcuni elementi interessanti riguardo alla relazione fra queste due realtà etniche e religiose.
Citando il testo ha poi spiegato che ” gli ebrei ashkenaziti erano spesso assai intellettuali, dediti allo studio e spesso anche alla religione” e che per questo motivo “erano affascinati dalla fisicità, dalla musicalità estrosa e dalla disinibizione degli artisti jazz afroamericani che rimarcavano coraggiosamente la loro diversità laddove invece gli ebrei non volevano farsi notare troppo vista la ben più lunga storia di persecuzioni”. Proseguendo nel suo discorso egli ha sottolineato quanto viceversa gli afroamericani fossero affascinati dalle doti intellettuali dei primi prima che “l’antisemitismo prendesse piede e le comunità si dividessero con il pregiudizio sempre più radicato che gli ebrei invece si aiutassero fra loro”. Nella sua interessante analisi, egli ha evidenziato come nel jazz americano gli ebrei siano stati enormemente presenti nel mercato statunitense, non solo come artisti ma anche come manager e proprietari di case discografiche e che uno dei compositori più dichiaratamente ebraici fosse Irving Berlin. Prolifico, raffinato e geniale compositore egli era talmente ispirato che a volte stando ai racconti di Morelenbaum “scriveva canzoni anche in taxi” e nelle sue canzoni come Blue Skies Imperial Dance si intuiscono “vistose influenze Klezmer”.
Proponendo una serie di brani e riflessioni, il musicologo ha puntualizzato come il jazz ebraico americano comprendesse una serie di influenze, dalle già citate ritmiche Yiddish fino al filone latinoamericano anche se “nessuno dichiarava la propria appartenenza all’ebraismo almeno fino a Benny Goodman che aveva imparato a suonare il clarinetto in sinagoga e che aveva un chiaro retaggio ebraico lanciando lo Yiddish swing come ben si sente nel brano And the angel sing”.
“I musicisti ebrei jazz americani – ha concluso – pur non esprimendo apertamente nessuna ebraicità spesso avevano nel Dna una loro identità nascosta anche se stranamente evidente in qualche modo fino agli anni Settanta quando nasce la Jewish Radical Music capitanata dal compositore John Zorn in cui è marcata la presenza di temi ebraici in un tipo di avanguardia che rivendicava la propria appartenenza”. Nella sua appassionante analisi il musicologo ha brevemente accennato a Stan Getz che “ha lasciato un imprinting enorme nei suoi toni melismatici che sono decisamente ebraici e nei toni ascensionali e dalle straordinarie capacità linguistiche senza mai rivendicare apertamente le sue radici ebraiche”. La sua ebraicità si espresse apertamente solamente quando suonò negli anni Settanta in una delle sue tourneè con una serie di musicisti israeliani in quello che per lui fu un “ritorno a casa”. Nel finale la postfazione di Roberto Zadik e la riflessione sulla malinconica Summertime di Gerschwin ch è stata “composta, secondo vari musicologi da una ninnananna ucraina assieme al fratello Ira e che, uscita come una delle sue ultime creazioni, prima della tragica fine, si è rivelato un successo travolgente cantata da tutti, perfino dalla ribelle icona hippie Janis Joplin”. Proponendo l’interpretazione del brano da parte di due leggende jazz come Louis Armstrong e Ella Fitzgerald, Zadik, ricordando la sua decennale amicizia con Gualberto nata col jazz ebraico nella rassegna Aperitivo in Concerto, ha dedicato il suo approfondimento a John Zorn e al cantautore ebreo newyorchese Lou Reed, scomparso il 27 ottobre 2013 a 71 anni, che con lui realizzò una versione decisamente particolare del Cantico dei Cantici.
Nei saluti finali Paola Boccia ha invitato il pubblico al prossimo appuntamento con Zadik e Morelenbaum previsto per il 16 febbraio con il Klezmer e lo Yiddish swing e la loro espansione negli Stati Uniti.