di David Zebuloni
Da anni si dedica al dialogo tra arabi (musulmani e cristiani) ed ebrei nello Stato di Israele. Dopo il 7 ottobre il suo impegno si è rafforzato. Perché, spiega, «la minaccia terroristica ci ha ricordato ancora una volta quanto siamo fortunati a vivere in un Paese democratico e libero»
In molti non lo sanno, ma su dieci milioni di cittadini israeliani, due milioni sono arabi. Proprio così. Camminando per le vie dello Stato ebraico, si ha la probabilità di incontrare un arabo, musulmano o cristiano, ogni cinque passanti. Una statistica importante per uno Stato continuamente accusato di apartheid. Gli arabi israeliani esistono, esistono eccome, e dal 7 ottobre vivono una crisi identitaria che mette in dubbio il loro io più interiore. “Chi sono? A chi appartengo? In cosa credo?” si domandano e, spesso, non trovano una risposta. A sciogliere i loro (e i nostri) dubbi è Yoseph Haddad, un giornalista e attivista arabo-israeliano che dal 2018 si prodiga a favore del dialogo tra i due popoli, esprimendosi apertamente, con grande coraggio, contro il regime totalitario di Hamas e condannando ogni forma di terrorismo di matrice islamica in Israele. Così, nell’ultimo anno, Yoseph è diventato uno dei volti più amati e conosciuti in Israele: colui che riesce a mettere d’accordo tutti pur non assecondando mai nessuno, se non se stesso e la sua integrità morale e intellettuale.
Da un anno a questa parte, infatti, Yoseph impiega le sue piattaforme sociali, con centinaia di migliaia di followers, a favore della causa israeliana, raccontando lo Stato ebraico così come nessun altro è riuscito a fare prima e dopo di lui. Forse, anche perché considerato obiettivo rispetto alla causa, non essendo ebreo. Il suo volto è presto diventato noto in tutto il mondo. Yoseph è apparso sugli schermi di Sky News, Fox News, CNN, BBC, difendendo sempre il diritto di Israele a esistere e creandosi così molti amici, e anche una bella dose di nemici.
Nessuna paura: nonostante riceva decine e decine di minacce di morte al giorno, nulla e nessuno può fermare Yoseph Haddad. Lo incontro a Tel Aviv per intervistarlo e scoprire i conflitti interni che affliggono gli arabi israeliani, ma scopro invece che parlare con lui è pressapoco impossibile. Ogni cinque minuti, qualcuno ci interrompe. Le parole pronunciate dai suoi ammiratori, poi, sono sempre le stesse. Come se leggessero tutti dallo stesso copione. “Sei il mio eroe Yoseph. Grazie di tutto quello che fai per Israele. Mi dai speranza per il futuro. Possiamo farci un selfie?”, sento ripetere una dozzina di volte in un’ora. All’inizio sbuffo infastidito, poi mi commuovo anch’io. Sentendolo parlare, non riesco proprio a trattenere le lacrime.
Dopo un anno privo di speranza, Yoseph riesce a convincermi che andrà tutto bene. E per un qualche inspiegabile motivo, nonostante non sia un politico, o un esperto militare, o un’autorità spirituale, io gli credo. Gli credo davvero. Quando finiamo l’intervista, ci casco anch’io: lo abbraccio, lo ringrazio, gli chiedo un selfie proprio come hanno fatto tutti i suoi ammiratori estasiati e inopportuni prima di me. Lui mi abbraccia, mi ringrazia a sua volta, sorride al selfie. Tuttavia, quando pronuncio la parola “coesistenza”, Yoseph mi ammonisce come se avessi detto una parolaccia. “Non parlare mai di coesistenza”, mi spiega con fervore. “Siamo seduti al bar da un’ora, già coesistiamo perfettamente. Ora dobbiamo solo imparare a dialogare e a fidarci l’uno dell’altro. Tutto qui”.
Yoseph, quanto è difficile essere sia arabo che israeliano?
La dissonanza fa parte della mia vita da sempre. Pensa: ho tre identità io. Sono arabo, sono cristiano e sono israeliano. Non è facile conciliare tre mondi a tratti contrastanti, eppure ci sono riuscito. Ci riesco ogni giorno. Un tempo pensavo che le mie identità si indebolissero a vicenda. Oggi invece so che si danno forza l’un l’altra.
Perché oggi sei adulto e consapevole, trovi una risposta a ogni domanda, ma mi immagino il Yoseph bambino. Chi rispondeva alle sue domande?
Quando ero bambino mi ponevo meno domande. Andavo a giocare a calcio a Haifa con gli amici e tutto ciò che mi interessava era fare gol. Poco importava se il portiere fosse arabo o israeliano. Eravamo una squadra. Amici. Fratelli. A volte discutevamo, certo, ma eravamo sempre d’accordo su un punto fondamentale: Israele è casa nostra. Di tutti noi. Una casa che ospitava tante culture diverse. A tredici anni conoscevo alla perfezione tutte le tradizioni ebraiche e i miei amici conoscevano alla perfezione tutte le tradizioni cristiane e la cultura araba dalla quale provengo. Io andavo a casa loro a fare il Seder di Pesach e loro venivano a casa mia a festeggiare il Natale. Loro erano fieri di essere ebrei, io ero fiero di essere arabo e cristiano. Tutti eravamo orgogliosi di essere israeliani.
Descrivi un mondo ideale, in cui tutto avviene in modo naturale, facile, spontaneo. Nella realtà, tutto è difficile.
Ti sbagli. Gli estremisti da entrambe le parti ci fanno credere che tutto sia difficile, nella realtà arabi e israeliani desiderano vivere insieme. Su una questione sono d’accordo con te: potremmo essere molto più uniti. Siamo ancora troppo distanti. Gli israeliani non conoscono abbastanza bene l’arabo e gli arabi non conoscono abbastanza bene l’ebraico. Abitiamo in quartieri lontani. Quando ci incontriamo per la prima volta? All’università, in maggiore età, quando ormai è troppo tardi per unirsi attorno a un pallone e dimenticarsi di appartenere a culture diverse.
Eppure anche tu hai iniziato la tua carriera di attivista quando ormai eri un uomo, e non più un ragazzino.
È vero, e sai perché? Perché avevo paura. Questa è la verità, avevo paura. Non è facile esporsi. Sapevo che gli arabi estremisti mi sarebbero venuti contro. E così è stato. Fino ad oggi vivo sotto minacce. Aggrediscono me e la mia famiglia. Hanno rotto a mia madre il braccio. Ma credimi, sono solo la minoranza. Fanno tanto baccano perché faticano ad accettare che Israele è la loro casa, che l’ebraico è la loro lingua, ma non rappresentano altro che la minoranza.
E questa maggioranza di cui parli, dov’è? Perché non la vedo?
La vedi eccome, vive attorno a te, ma non la senti. Gli arabi israeliani hanno paura di farsi sentire, perché non vogliono pagarne le conseguenze. Perché non vogliono subire ciò che ho subito io. Segretamente, però, in silenzio, desiderano vivere in Israele più di quanto lo desideri tu stesso. Se girassi per gli ospedali del paese, non crederesti ai tuoi occhi. Medici arabi che curano pazienti israeliani e medici israeliani che curano pazienti arabi, tutto in perfetta armonia. Lancio un appello a tutti quelli che parlano di apartheid: venite qui e visitate il paese. Se scoprite una realtà diversa da quella che descrivo, mi ritiro dalle mie attività per sempre.
Io ti credo. La realtà che descrivi, l’unione e la solidarietà, l’ho vista e l’ho vissuta anch’io. Tuttavia, fatico a ignorare l’odio e la violenza di cui sono ancora testimone.
Ti pongo una domanda e rispondimi sinceramente. Il 7 ottobre, hai temuto una rivolta da parte degli arabi israeliani? Hai temuto che si unissero a Hamas e compissero anche loro una strage nel cuore di Israele?
Sì.
Io no. Ero convinto del contrario, e avevo ragione. Il 7 ottobre ha solo accentuato la differenza tra gli arabi che vivono in Israele e quelli che vivono a Gaza. La strage di Hamas ha confermato agli arabi d’Israele quanto convenga loro vivere in uno Stato ebraico e democratico, e non sotto la dittatura islamica che vige in tutto il Medio Oriente. Credi davvero che gli arabi israeliani vogliano avere come loro leader tipi come Sinwar o Nasrallah? Certo che no. Nessuno teme e ripudia il regime islamico più di noi.
Mi stai dicendo che il 7 ottobre ci ha avvicinati?
Sì, è esattamente quello che sto dicendo. So che suona paradossale, ma un sondaggio dell’Università di Tel Aviv ha mostrato che, dopo la strage di Hamas, il 33,2% degli arabi in Israele si sono definiti israeliani e solo l’8,2% si sono definiti palestinesi.
Nonostante ciò, il 90% di loro votano quei partiti arabi che si rifiutano di condannare il 7 ottobre e il terrorismo di Hamas.
Hai ragione, ma solo perché non esiste ad oggi un’alternativa degna a questi partiti. Perché non esiste una leadership araba dichiaratamente sionista che renda giustizia alla popolazione araba locale. Perché è nell’interesse di questi politici ambigui continuare a definirsi vittime del sistema piuttosto che assumersi la responsabilità del loro destino. Tuttavia, su 120 parlamentari, sai chi è il politico con l’ufficio più grande di tutta la Knesset? Ahmad Tibi, un parlamentare arabo e musulmano. Il suo ufficio è secondo di grandezza solo a quello di Netanyahu. Ti rendi conto? Altro che apartheid.
Il fatto che tu sia cristiano, credi che influisca sulla visione che hai dell’Islam?
Sapevo che me lo avresti chiesto, me lo chiedono sempre tutti. La risposta è no, ma se non mi credi, lasciamo stare Yospeh Haddad e parliamo di Awad Daraushe, il paramedico musulmano che si è sacrificato soccorrendo le vittime del Nova. Ecco, Hamas lo ha ammazzato nonostante fosse musulmano. Parliamo di Yusuf Azayadli, anche lui israeliano e musulmano, che ha salvato più di trenta persone il giorno della strage. Quando lo hanno intervistato alla televisione, Yusuf ha detto: “Cosa importa se io sono musulmano e loro sono ebrei? Siamo tutti israeliani, tutti essere umani”. Il giovane soldato Yosef Hieb, rimasto ucciso da un drone di Hezbollah, appartiene a un’antica famiglia musulmana che ha combattuto già nella Guerra d’Indipendenza a favore della fondazione di uno Stato ebraico. Non sono casi isolati, ci sono centinaia di storie simili dal 1948 a oggi.
Scusa se insisto Yoseph, ma un arabo può sentirsi davvero a casa in Israele? Può avvolgersi nella bandiera con la Stella di David e sentirsi sinceramente di appartenere? Può cantare l’inno dell’Hatikvah e provare orgoglio?
Certo che sì, così come tu ti senti italiano nonostante tu sia ebreo. Tuttavia, io preferisco parlare di fatti e non di sensazioni. Il direttore della Banca Leumi, la banca più grande d’Israele, era arabo e musulmano. Il giudice della Corte suprema che ha mandato in carcere non uno, ma ben due presidenti israeliani, Ehud Olmert e Moshe Katzav, era arabo e musulmano. Smettiamola di far credere che gli arabi israeliani siano cittadini di serie B, sottomessi e privati di ogni diritto. Al contrario: la maggior parte di loro è fiera di vivere nello Stato ebraico, ovvero nell’unico Stato democratico del Medio Oriente.
Eppure gli arabi in Israele e gli arabi a Gaza condividono le stesse radici. Alcuni di loro sono cugini di sangue.
Sì, cugini che hanno provato ad ammazzarci il 7 ottobre. I missili di Hamas, d’altronde, non distinguono gli arabi dagli israeliani. Agli occhi dei terroristi, siamo tutti uguali. Nessun antenato comune ci rende immuni alla loro violenza.
La guerra a Gaza, dunque, non suscita negli arabi israeliani alcun sentimento di antagonismo nei confronti dello Stato ebraico?
Antagonismo? Suscita piuttosto un profondo senso di imbarazzo. Nell’ultimo anno, infatti, ho ricevuto innumerevoli messaggi da parte di arabi israeliani mortificati che mi chiedevano di condannare ciò che stava facendo Hamas anche in loro nome. “Come si può stuprare, ammazzare bambini, tenere degli innocenti in ostaggio in nome di Allah? Questo non è il nostro Dio. Questa non è la nostra religione. Questo non è ciò in cui crediamo”, mi hanno scritto in migliaia.
Come uscirà Israele da questa guerra?
Più forte di prima. Se c’è una cosa che ho imparando vivendo con voi, è che il popolo ebraico è indistruttibile. Non so di cosa siete fatti, ma so che non smettete mai di combattere per la vostra sopravvivenza e di vincere sempre. Nessun altro paese al mondo poteva sopportare un 7 ottobre e rialzarsi all’indomani. Questa volta, però, non siete soli. Ci siamo noi con voi. Insieme, siamo invincibili.
Come fai ad esserne così certo?
Semplice. Non so se ricordi, ma l’8 di ottobre l’esercito israeliano ha dichiarato di aver arruolato il 130% dei suoi riservisti. Molti più di quanti ne avesse effettivamente bisogno. Tutti volontari. Ebrei, cristiani, musulmani, drusi. Tutti uniti con un solo obiettivo: difendere la loro casa.
Credi che rimarremo così uniti anche dopo la guerra?
Ne sono convinto. Dimentichi che nel 2020 Michael Ben Zirki, ebreo e israeliano, è morto annegato per salvare tre bambini arabi e musulmani che non riuscivano a tornare a riva. Dimentichi che durante il covid il medico arabo Meir Ibrahim si è seduto accanto al letto di Rebbe Shlomo durante i suoi ultimi istanti di vita, gli ha stretto la mano e ha recitato insieme a lui lo Shemà Israel, poiché la sua famiglia non poteva assisterlo. Eravamo uniti prima della guerra, e dopo la guerra continueremo ad esserlo.
Prima del 7 ottobre sognavi una società priva di estremisti, basata sul dialogo e sulla tolleranza. Il tuo sogno è cambiato nell’ultimo anno?
Il mio sogno è sempre lo stesso, non cambia mai. Anzi, s’intensifica. Questa guerra ci ha mostrato chi sono i nostri veri nemici e contro chi dobbiamo davvero combattere.
La minaccia terroristica ci ha ricordato ancora una volta quanto siamo fortunati a vivere in Israele, in uno Stato ebraico e democratico, ma ha anche ribadito l’importanza del dialogo. Dobbiamo continuare a conoscerci a vicenda, a fidarci l’uno dell’altro. Israele è un paradiso, certo non privo di difetti, ma un paradiso.
Il nostro paradiso. E nessuno ce lo porterà via.