di Ilaria Myr
«Perché la stella di Davide è stata presentata come una nuova croce uncinata? Perché, come ha scritto Alain Finkielkraut su Le Matin, nei confronti di Israele c’è come una “indignazione selettiva”? A leggere i giornali, osserva lo stesso Finkielkraut, si direbbe che “soltanto Israele versi il sangue nel Medio Oriente, che la guerra Irak-Iran sia stato un conflitto tutto da ridere, che fino alle ultime settimane il Libano fosse una Terra Promessa”; laddove in quel disgraziatissimo paese la guerra civile “ha fatto almeno cinque volte più vittime dell’invasione israeliana”».
Se non fosse per la citazione della guerra fra Iran e Irak, combattuta fra il 1980 e il 1988, si potrebbe pensare che questo brano sia stato scritto pochi mesi, se non addirittura, giorni fa. Basterebbe mettere al posto dei due Paesi il regime di Bashar el-Assad in Siria e i suoi crimini contro la popolazione civile – centinaia di migliaia di morti – e non sorgerebbe alcun dubbio. Invece, si tratta di un brano del celeberrimo articolo scritto da Rosellina Balbi il 6 Luglio 1982 su La Repubblica, un mese dopo l’inizio della guerra fra Israele e Libano, che aveva scatenato nel mondo e anche in Italia, grandi critiche allo Stato ebraico e al suo governo, capeggiato da Menachem Begin, e un’ondata violenta di atti antisemiti.
Era un clima tesissimo quello che si respirava nel nostro Paese, dove durante una manifestazione sindacale venne gettata una bara davanti alla Sinagoga – “sotto alle due lapidi murate sulla facciata del tempio a ricordo degli ebrei trucidati alle Fosse Ardeatine ed a quelli caduti nella Resistenza”, dichiarò l’allora Rabbino capo Elio Toaff – e che culminò, il 9 ottobre 1982, giorno di Sheminì Atzeret, con un terribile attentato alla sinagoga di Roma, in cui morì un bambino italiano ebreo di due anni, Stefano Gaj Taché.
Allora gli ebrei in tutto il mondo venivano incolpati per le scelte politiche del governo in Israele, e presi di mira con la giustificazione, pronunciata anche dall’allora segretario della CGIL Luciano Lama, che “è comprensibile come, di fronte a ciò che accade nel Libano, si sviluppi in vasti strati di cittadini e di lavoratori un sentimento di condanna politica e morale della linea brutale e aggressiva seguita dal governo Begin».
E dal 7 ottobre 2023, succede esattamente la stessa cosa, il copione è sempre uguale: agli ebrei viene chiesto di “discolparsi” per ciò che fa lo Stato di Israele, e in nome delle vittime a Gaza si giustificano attacchi fisici, insulti online, attentati. Senza alcuna empatia nei confronti di concittadini che sono quotidianamente minacciati, in nome di una “giustizia” che ragiona in termini di “vittime” e “carnefici”. Ieri come oggi.
Riproponiamo quindi qui l’articolo “Davide, discolpati!” di Rosellina Balbi, con l’obiettivo di stimolare una riflessione su quanto le accuse mosse a Israele siano le stesse da decenni, e su come ancora oggi si imputino – per ignoranza o precisa volontà? – agli ebrei le responsabilità di Israele. Con parole malate, che ormai sembra nessuno sembra preoccuparsi di voler curare. Oggi come ieri.
“Davide, discolpati!”,
di Rosellina Balbi, La Repubblica, 6 luglio 1982
PROVATE ad immaginare per un momento che, nel settembre del 1939, scendessero in piazza a Berlino centomila persone per manifestare contro l’invasione della Polonia. E che un generale, già capo di Stato maggiore della Wehrmacht, protestasse pubblicamente per lo stravolgimento fatto da Hitler del ruolo dell’esercito, destinato, a giudizio del generale, esclusivamente alla difesa del suolo tedesco. E che un gruppo di soldati inviasse una lettera aperta ai giornali (e questi la stampassero), in cui le decisioni del governo venivano aspramente criticate. E che un movimento denominato «Pace, adesso» lanciasse lo slogan «Mai più una guerra come questa», riuscendo a mobilitare migliaia e migliaia di giovani.
E che un’altra organizzazione proclamasse di voler portare «aiuto umanitario» agli innocenti abitanti di Varsavia intrappolati dalla guerra. Confessiamolo: neppure la più sbrigliata inventiva da romanziere fantapolitico riuscirebbe a rendere credibile un simile «scenario». E tuttavia, in un paese che oggi molti definiscono «nazista», e al quale si attribuisce da tante parti la volontà di perpetrare un genocidio, in questo paese sono avvenute e stanno avvenendo cose come quelle che ho raccontate prima (traggo le informazioni dalla stampa francese, non certo sospetta di tenerezza verso la politica israeliana).
Pregiudizio sfavorevole
Basta sostituire ai polacchi i libanesi e i palestinesi, alla Wehrmacht le truppe di Israele, Tel Aviv a Berlino, Beirut a Varsavia e Begin – nientemeno – a Hitler. Per quale motivo, dunque, sono state riesumate (sia pure sull’onda dell’emozione di fronte a tanta tragedia) le vecchie parole legate all’orrore di quaranta anni fa? Perché la stella di Davide è stata presentata come una nuova croce uncinata? Perché, come ha scritto Alain Finkielkraut su Le Matin, nei confronti di Israele c’è come una «indignazione selettiva»? A leggere i giornali. osserva lo stesso Finkielkraut, si direbbe che «soltanto Israele versi il sangue nel Medio Oriente, che la guerra Irak-Iran sia stato un conflitto tutto da ridere, che fino alle ultime settimane il Libano fosse una Terra Promessa»; laddove in quel disgraziatissimo paese la guerra civile «ha fatto almeno cinque volte più vittime dell’invasione israeliana».
Naturalmente non è questione di contabilità (altrimenti si porrebbero ricordare, come ha fatto sull’Observer Connor Cruise O’ Brien, i ventimila morti provocati dall’assalto sferrato alla città siriana di Hama da parte delle truppe governative, nell’intento di sbarazzarsi dei ribelli armati mescolati alla popolazione civile). È invece questione di parole: che in questo caso sono più che pietre. «La funzione di uno scrittore è quella di chiamare “gatto” un gatto. Se le parole sono malate, spetta a noi guarirle». Lo ha detto Sartre (e lo ha ricordato Finkielkraut). Ora, mai come in questi giorni abbiamo ascoltato un cosi gran numero di parole «malate».
Nel Libano sono morte molte migliaia di persone innocenti – oltre ai combattenti palestinesi. È giusto provare per tutto ciò pietà, orrore, sdegno. Ma questo non autorizza, mi pare, l’uso del termine «genocidio». Finkielkraut osserva che «se Israele avesse perseguito il genocidio, non avrebbe invitato gli abitanti a lasciare le città libanesi, prima di effettuarne il bombardamento» (avvertimento che durante la seconda guerra mondiale non venne mai dato: non dai nazisti nel caso di Coventry, e neppure dagli alleati nei casi di Dresda, di Hiroshima e Nagasaki). lo vorrei sottolineare un’altra cosa: che sarebbe stato lecito paragonare Beirut, per l’appunto, a Dresda, ma non ad Auschwitz: che era, e resta, un’altra cosa.
Credo che il nocciolo della questione sia stato messo a nudo da Rossana Rossanda in un articolo apparso qualche giorno fa sul Manifesto: la pretesa, da parte dell’opinione pubblica europea, che Israele, e soltanto Israele, sia uno Stato «giusto». Se non si comporta come tale, ecco l’indignazione (selettiva). Non è una pretesa nuova: ricordo che anni fa se ne fece portavoce sulla Stampa Natalia Ginzburg, lamentando che gli israeliani, nel prendere le armi, avessero abbandonato la nobile tradizione ebraica della non-violenza. Ma è una pretesa insensata (lo ha osservato anche Rossanda). Stati «giusti» non esistono, e ancor meno Stati «innocenti». E cosi torniamo al punto di prima: perché solo Israele non viene giudicato con i criteri che si usano applicare agli altri Stati? Perché questo pregiudizio viscerale?
Si condanna la politica di Begin. D’accordo. La si giudica negativamente sul piano morale (un «delitto») e negativamente sul piano politico (un «errore»). D’accordo. Ma, per pronunciare questa condanna, bisognerebbe avere le carte in regola. Bisognerebbe ricordare «tutti» gli elementi del quadro, non solo quelli sfavorevoli a Israele. Bisognerebbe far presente, ad esempio, che la sovranità del Libano era da tempo una finzione; che nessun trattato di pace aveva messo fine alle ostilità tra arabi e israeliani; che da anni sulla terra d’Israele piovevano missili provenienti dal Libano; che in quel paese i palestinesi s’erano strettamente mescolati alla popolazione civile; che i palestinesi, ancora, hanno sempre rifiutato il diritto all’esistenza di Israele; che è stato questo rifiuto a impedire ai progressisti israeliani di far crescere il consenso popolare intorno a un progetto di trattativa politica: come diavolo si può negoziare quando l’interlocutore non esiste? E non è forse per questa «impasse» che Begin, e le forze che egli rappresenta, hanno finito per andare al potere?
Quando si è ricordato tutto questo – «solo» quando si è ricordato tutto questo – si ha il diritto, diciamo pure il dovere, di condannare Israele. Ma il pregiudizio sfavorevole è tale, che si sono addirittura passate sotto silenzio certe informazioni e si sono evitate certe analisi. Perché nessun giornale, o quasi, ha dato notizia del ritrovamento in Libano dei campi di addestramento per i terroristi europei? Forse perché ne avrebbe sofferto la divisione manichea tra «buoni» e «cattivi»? E perché si è taciuto del linciaggio, da parte palestinese, di piloti israeliani (le orrende immagini sono apparse nel Tg2)? E perché non si è messo più vigorosamente l’accento sulle responsabilità dei paesi arabi i quali – dopo aver invitato, nel 1948, gli abitanti arabi della Palestina a lasciare le proprie case – si sono poi rifiutati di assorbirli, li hanno rinchiusi nei campi sul confine israeliano e li hanno incitati alla guerra? e tanto poco li amano, che oggi non hanno mosso un dito per aiutarli, e magari sono lieti che Israele tolga le castagne dal fuoco per loro? Perché di tutto questo si tace? Scriveva nel 1976 lo scrittore svizzero Friedrich Durrenmatt che lo Stato di Israele ha questo di peculiare: che «di fatto esiste, ma non sembra necessario a molti, anzi disturba sempre più, si vorrebbe che non esistesse; anche coloro che ne affermano l’esistenza sarebbero felici che non esistesse».
l buoni e i cattivi
Nell’articolo che ho citato più sopra, Rossana Rossanda si chiede per quale motivo, di fronte all’invasione israeliana del Libano, gli ebrei della Diaspora si sentano cosi terribilmente lacerati e coinvolti: “Io non mi sento che moderatamente responsabile di quello che fa Spadolini; e scrivere che l’Italia, oggi come oggi, un paese immondamente corrotto, non mi crea problema alcuno ( … ) perché dunque gli ebrei della Diaspora sentono una tragedia morale per quel che accade in Israele?»
Temo che la risposta sia, tutto sommato, semplice. Perché hanno paura. Perché, a «coinvolgerli», sono gli altri. Perché ogni deplorazione, ogni condanna della politica israeliana ha puntualmente provocato, in Europa, sussulti di antisemitismo. È accaduto in questi giorni in Inghilterra. È accaduto in Francia. È accaduto anche in Italia, dove – lo ha denunciato il rabbino Toaff – durante la recente manifestazione romana per lo sciopero generale «i dimostranti, sfilando o fermandosi davanti alla sinagoga, hanno gridato slogan diretti non solo verso il governo e lo Stato d’Israele, ma contro tutti gli ebrei in generale», portando addirittura una bara «proprio sotto alle due lapidi murate sulla facciata del tempio a ricordo degli ebrei trucidati alle Fosse Ardeatine ed a quelli caduti nella Resistenza».
Ed è grave che Luciano Lama, rispondendo a Toaff, dopo avere riaffermato che il movimento sindacale è nemico del fascismo e dell’antisemitismo, e dopo avere deplorato questi episodi, ha aggiunto essere comprensibile come, di fronte a ciò che accade nel Libano, «si sviluppi in vasti strati di cittadini e di lavoratori un sentimento di condanna politica e morale della linea brutale e aggressiva seguita dal governo Begin».
Guarire le parole
E questo, secondo Lama, dovrebbe giustificare gli insulti e le minacce al tempio ebraico? A quante chiese si sarebbe allora dovuto portar offesa nel corso della Storia, ogni qual volta il governo di uno Stato «Cristiano» assumeva iniziative deplorevoli? Perché confondere una religione con uno Stato? Lama non se ne è certo reso conto, ma queste sue parole sono pericolose. Sono, come avrebbe detto Sartre, «malate».
Ecco perché, amica Rossanda, gli ebrei della Diaspora si sentono coinvolti Sul tuo stesso giornale non è forse apparso un articolo in titolato «ll Dio violento di Israele»?
Il Dio degli ebrei, dunque; il Dio di tutti loro, fuori e dentro lo Stato. Mi sbaglierò, ma dietro la «dichiarazione» contro Begin pubblicata su Repubblica, e firmata quasi esclusivamente da ebrei, c’è anche il timore, conscio o inconscio, di venire accomunati nella condanna della politica di Israele; e dunque il bisogno dì dissociarsene, di far sapere che non tutti gli ebrei sono «cattivi».
Ha scritto ancora Durrenmatt: «In qualsiasi nome Israele venga condannato – in nome degli arabi, del blocco neutrale, dei progressisti, in nome della donna, dell’Unesco, forse presto anche in nome dell’Onu o addirittura anche in nome della libertà e della giustizia – sono tutti nomi di cui si è fatto un cattivo uso, scarabocchiati da giudici disonesti su documenti falsificati». Scritti, per l’appunto, con parole «malate».
Perché non provare a «guarirle», queste parole? Ci si è provato l’altro giorno il vecchio Mendès France con il suo appello, in cui si auspica che venga finalmente intavolato un negoziato tra Israele e i palestinesi. Un appello che il consigliere politico di Arafat, lssam Sartoui, ha definito «pieno di saggezza». E, come è noto, lo stesso Arafat – sia pure in modo meno esplicito – sembra averne dato un giudizio analogo. Se le cose procederanno in questa direzione, qualche novità, psicologica e politica, potrà profilarsi anche all’interno di Israele.
Ecco: quello di Mendès è un tentativo di «guarire» le parole. E «guarire» le parole è un modo serio per cercar di «guarire» le cose. Di guarire questa ferita profonda, dalla quale è già sgorgato tanto sangue. Di far sì, soprattutto, che questo sangue non sia sgorgato inutilmente.
(Fonte: La Repubblica, 6 Luglio 1982)