Difendere Israele sui media, tra like e complessità

Eventi

di Nathan Greppi
In un’epoca in cui i mezzi di comunicazione mutano e si evolvono costantemente, molte persone fanno fatica a stare al passo e a tenersi aggiornate. In un periodo come quello attuale, in cui oltre alla guerra vera e propria Israele deve subire anche una guerra mediatica, restare indietro significa lasciare che i nemici dello Stato Ebraico impongano la loro narrazione.

Per capire quali sono le tattiche per poter contrastare la disinformazione che circola nei media e sui social, giovedì 7 novembre si è tenuto presso la Sala Segre della Scuola Ebraica di Via Sally Mayer un incontro curato dai responsabili del sito Progetto Dreyfus assieme all’Adei Wizo e alla Comunità Ebraica di Milano, dal titolo Tra like e complessità. Istruzioni per la difesa di Israele sui media.

Rav Alfonso Arbib: il pacifismo ha sostituito l’etica della guerra

Nell’introdurre la serata, il Rabbino Capo di Milano Rav Alfonso Arbib ha sottolineato che, sebbene non esista una formula magica per risolvere i problemi che stiamo affrontando, “esistono alcune cose a cui non possiamo rinunciare. Per prima cosa, non possiamo rinunciare a ragionare”, ha spiegato, rimarcando il fatto che gran parte dell’odio a cui assistiamo è il frutto di pregiudizi, non di ragionamenti, “ed è difficile affrontare l’odio, perché siamo davanti ad un sentimento”. Ma è comunque indispensabile farlo, per convincere non tanto chi ci odia, quanto quella maggioranza di persone che non ha un’opinione consolidata sull’argomento.

Un altro aspetto assai trattato nel dibattito pubblico è il concetto di “crimini di guerra”. A tal proposito, Rav Arbib ha rimarcato il fatto che “la definizione di ‘crimini di guerra’ non è così scontata”. Paradossalmente, la nostra è la prima epoca in cui nessuno si occupa più di “etica della guerra”, perché oggi “il discorso che si fa è un discorso pacifista, che ti dice che la guerra è essa stessa un crimine. I discorsi che si facevano nei secoli passati dicevano ‘le guerre ci sono, bisogna stabilire cosa è permesso e cosa è vietato in una guerra’”.

Roberta Vital: l’odio nei confronti d’Israele ha radici profonde

Dopo i saluti istituzionali di Ilan Boni, Vicepresidente della Comunità Ebraica di Milano, il quale ha sottolineato come occorra interfacciarsi con quelle persone che credono in buona fede alla disinformazione su Israele ma alle quali si possono spiegare le nostre ragioni, la prima relatrice a parlare è stata Roberta Vital, Vicepresidente dell’Adei Wizo di Milano.

La Vital ha ricordato che la guerra diplomatica che si è abbattuta su Israele dopo il 7 ottobre “affonda radici lontane. Possiamo individuare nel 1975 l’inizio della delegittimazione dello Stato d’Israele in quanto Stato Ebraico: quell’anno ci fu la famosa risoluzione dell’ONU, votata in blocco dai paesi arabi e sovietici, in cui si equiparò il sionismo al razzismo. Una risoluzione che rimase in essere per un po’ di anni, poi fu abolita ma trovò la sua massima espressione durante la Conferenza di Durban, nel 2001. Una conferenza che, sotto l’egida dell’ONU, avrebbe dovuto trattare temi importanti come la lotta al razzismo e la difesa dei diritti umani, ma che invece si trasformò in un’arena di antisionismo”.

Alex Zarfati: come difendere Israele attraverso la comunicazione

Per combattere la disinformazione online, fare rete tra più persone anziché lavorare da soli è fondamentale. A tal proposito Alex Zarfati, responsabile di Progetto Dreyfus e consigliere UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), ha spiegato quali sono, secondo lui, i capisaldi “per organizzare una qualsiasi difesa nei confronti d’Israele”.

Innanzitutto, ha messo in risalto il fattore generazionale: dai più anziani non ci si aspetta che sappiano utilizzare al meglio i nuovi social, ma allo stesso tempo i giovani hanno una memoria storica limitata: “Sono nati che Israele era già forte, non riescono neanche a concepire un Israele debole. Chi è più grande, invece, lo sa che Israele è stata sotto scacco diverse volte nella sua storia”. Pertanto, Zarfati ha suggerito che i più anziani non dovrebbero esporsi in prima linea su social che non sanno maneggiare bene, correndo il rischio di esporre anche i loro cari, ma dovrebbero fornire ai loro nipoti contenuti e testimonianze che questi saprebbero riportare nel giusto formato per i loro contenuti.

Ha spiegato che nella Scuola Ebraica di Roma, “noi abbiamo ragazzini che sono vittime da stress post-traumatico come quelli che vanno in guerra”. Questo perché i video dei massacri del 7 ottobre, “che hanno viaggiato sui telefonini, hanno avuto degli effetti devastanti, e non ce ne rendiamo nemmeno conto. E gli adulti non sanno come gestire quel tipo di informazione”. In genere, i genitori tolgono il telefono ai figli o si deresponsabilizzano lasciando loro fare quello che vogliono. “Invece, una educazione corretta all’uso del telefono è fondamentale”.

Zarfati ha inoltre messo in evidenza la questione della “psychological warfare”, un metodo non convenzionale di fare la guerra, per le quale “le menti degli occidentali sono territorio di conquista da parte di una certa parte del mondo”. Il modo in cui vengono realizzati determinati video e contenuti online è mirato al preciso scopo di dipingere Israele come la causa di tutti i mali del mondo.

Stefano Fiano: internet ha cambiato il nostro cervello

Oggi, la diffusione dell’informazione non avviene più attraverso gli stessi canali di una volta: la crescente preponderanza del web e degli influencer ha fatto sì che, per fare un confronto, un personaggio fortemente antisionista come Alessandro Di Battista può contare oltre 1,6 milioni di follower, mentre programmi televisivi come Piazzapulita possono contare in media 900.000 spettatori.

Stefano Fiano, esperto di strategie di comunicazione, ha spiegato che la connessione perenne in particolare dei ragazzi ha “cambiato il modo di pensare, ma non solo: abbiamo cambiato il nostro cervello, perché siamo connessi, qualcosa che vent’anni fa non c’era”. E secondo lui, “oggi siamo andati un passo ancora più avanti: l’intelligenza artificiale si forma su quello che c’è già in rete. Questo vuol dire che tra un po’ non andrò più nemmeno su Google, ma crederò a quello che ha detto l’intelligenza artificiale, cioè la media di tutti noi. Nel nostro caso, la media di quello che pensano su Israele nel mondo, quando ci sono due terzi del mondo che a prescindere non pensa bene d’Israele”.

Un ulteriore problema è che i giornalisti stanno imparando a scrivere con l’IA, anche se “teoricamente il giornalista dovrebbe essere quello che intermedia e si informa. Ma se la sua fonte sarà l’intelligenza artificiale o, peggio, la percezione che la società ha di quell’argomento, invece di fare informazione va verso la massa per prendere i like”. Ha inoltre spiegato che, anche se la maggior parte degli anziani in sala non possedeva TikTok, in realtà già adesso essi ne sono influenzati senza saperlo: questo perché, per frenare l’emorragia di lettori, i giornali tendono sempre di più ad imitare lo stile semplice e sensazionalistico dei contenuti di questa piattaforma.