Molinari: «Trump agisce solo secondo quelli che pensa siano gli interessi dell’America. E lo scenario internazionale subirà grandi cambiamenti»

Kesher

di Ilaria Myr
«Per capire l’approccio di Trump alla politica, bisogna ricordarsi chi è e da dove viene. Trump è un imprenditore di Real Estate a New York dove lavorare in questo settore è difficilissimo e si riesce solo se si fanno trattative dure e spietate. Quindi la sua idea di politica si basa su singoli che fanno accordi in situazioni di difficoltà estrema come se fossero delle transazioni, esattamente come nel real estate. È chiaro che siamo su un terreno diverso da quello che abbiamo sempre conosciuto nell’arena politica».

Così il giornalista Maurizio Molinari ha dato il via domenica 10 novembre al suo intervento durante l’evento organizzato da Kesher al Noam dal titolo “Medio oriente: cosa farà il nuovo presidente americano?”. Dialogando con il giornalista del Corriere della Sera Paolo Salom, Molinari ha catalizzato per due ore l’attenzione della sala piena con analisi accurate e approfondite su cosa farà Donald Trump, eletto per la seconda volta presidente a larga maggioranza dopo le elezioni del 5 novembre, e su quali scenari si aprono anche a livello internazionale.

Le ragioni della vittoria

«La vittoria ampissima di Trump e Vance va ricercata in tre priorità che fin da subito hanno espresso con chiarezza – ha spiegato Molinari -. La prima è la lotta all’inflazione, su cui hanno puntato molto. E questa è una grande novità, che dimostra come oggi la percezione conti molto di più dei fatti concreti: infatti, l’inflazione aveva raggiunto un picco del 12% nel 2022-2023, scendendo però al 2% già nel 2024. Eppure, nella teste degli elettori ha pesato di più la paura dell’inflazione che non il quadro generale dei risultati economici».

Un altro aspetto su cui Trump e Vance hanno insistito fin dall’inizio è la lotta all’immigrazione illegale, con il rimpatrio di tutti i clandestini, che oggi ammontano a 11 milioni di persone, di cui 4 milioni entrati nell’epoca Biden. «Il senso di insicurezza è percepito soprattutto da chi vive nei quartieri più poveri, in particolare gli ispanici, che hanno votato per la prima volta in massa per i repubblicani, e gli afroamericani – ha continuato il giornalista -. Su questo ha anche pesato la politica di sindaci e governatori dem di ridurre fondi alla polizia, con un peggioramento dei crimini e della delinquenza in città come Minneapolis, Milwaukee, Detroit e New Orleans».

Infine, ma non ultima per importanza, c’è la volontà, ribadita più volte con queste parole, di “porre fine ai conflitti infiniti (vedi Ucraina e Medio oriente) raggiungendo la pace attraverso la forza”. «Questa intenzione parte dalla profonda convinzione che il potere americano sia talmente forte da diventare deterrenza e riuscire a imporre a tutti gli interlocutori un passo indietro – ha spiegato -. La sua visione di governo federale ha al centro il potere esecutivo, e questo deriva dal suo essere un uomo d’affari nel mondo del real estate, abituato a transazioni spietate fra singoli, identificando quindi anche sul piano politico gli interlocutori non negli Stati ma nei loro leader, che conosce personalmente e con cui ha un rapporto diretto: Viktor Orban, Beniamin Netanyahu, Mohammed Bin Salman, Recep Erdogan. A monte c’è la volontà di Trump e Vance di avere impegni militari all’estero, ma mantenere la superpotenza militare americana per fare leva affinché si raggiungono paci che hanno un interesse diretto con gli Stati Uniti».

La prima vera novità è che nei paesi arabi in Medio Oriente Trump riconosce come unico interlocutore il principe saudita Mohammed Bin Salman, detto MBS. «Il progetto di Trump è creare una zona di continuità geo-economica che comprende India, Israele e Arabia saudita con uno sbocco sull’Atlantico, creando così un’alternativa alla via della seta, dove la fonte die beni non è più la Cina, ma l’india. Va da sé che questo progetto preveda obbligatoriamente la normalizzazione dei rapporti fra Israele e Arabia Saudita. Questo è ovviamente un messaggio chiaro per le altre forze della regione, primo fra tutti il regime iraniano, ma anche a Turchia e Qatar, paese che sostiene Hamas e i Fratelli Musulmani, e che subirebbe un danno enorme se Trump decidesse di spostare l’enorme base militare americana che ha in questo paese, non solo per l’affitto (500 milioni di dollari all’anno) ma anche da un punto di vista strategico».

Trump e l’Europa

Per quanto riguarda i rapporti di Trump con il vecchio continente, Molinari ha spiegato che il problema di fondo è lo squilibrio commerciale di 200 miliardi di dollari. «Di questi, 140 miliardi dipendono dalla Germania e sono legare al settore automotive – gli americani comprano auto tedesche ma i tedeschi non fanno altrettanto con quella americane – e i restanti 60 dall’Italia per via del mercato del cibo – grande consumo di prodotti italiani a fronte di un molto minore di quelli americani in Italia – – ha continuato -. Ma, avendo lui un approccio relazionale nella politica anche estera, non interpellerà l’Unione Europea, ma andrà direttamente dai capi di Stato, che dovranno decidere il da farsi. Il rischio è che se non si trova un accordo Trump faccia imporre dal congresso dei dazi sulle importazioni, che per l’Europa sarebbero fra il 10 e il 20%, mentre per quelli dalla Cina del 60%. Il ricavato di questi dazi è stimato in 4,6 trilioni di dollari, che serviranno, nelle sue intenzioni ad abbassare le tasse».

Trump e lo scenario globale

Ci sono tre fronti strettamente legati fra loro su cui Trump vuole intervenire: la Cina, l’Ucraina e il Medio Oriente.
«Nella sua visione del mondo la Cina è l’avversario, in quanto dichiaratamente vuole diventare più ricca degli Usa, e per questo è per Trump l’unico vero avversario strategico, entrato nel commercio globale grazie alla spinta di Henry Kissinger, che a suo avviso però non rispetta le regole della World Trade Organization».

Inoltre nella narrazione di Trump sull’inflazione, la causa è da fare risalire alla Cina, che produce le infrastrutture per le energie rinnovabili, su cui si è puntato negli ultimi anni. «Il suo obiettivo è quindi produrre energia con gas naturale, ricorrendo meno alle energie rinnovabili e sviluppando solo auto elettriche di Tesla. Ma avendo Trump un approccio transactional, se Xi gli fa offerta che gli conviene va con lui.

A questo si lega la volontà di aprire a Putin per fare un accordo sull’Ucraina, portandolo dalla parte degli Stati Uniti e staccandolo alla Cina. «La Russia è un paese povero, quindi credo che offrirà un accordo per inglobare la Russia nel sistema economico occidentale, ma come prezzo gli chiederà di tagliare i rapporti con la Cina. In cambio chiederebbe un accordo sull’ucraina, che potrebbe portare a una divisione del paese simile a quella della Corea dopo il 1953: le zone conquistate resterebbero ai russi, mentre l’ucraina rimarrebbe indipendente. Ma sappiamo che la Russia vuole costruire aree di sicurezza intorno a sé, e quindi Puitn dovrà rinunciare a qualcosa. Ma se Putin non accetta? Purtroppo non sappiamo cosa potrebbe accadere, anche perché Trump è totalmente imprevedibile».

Infine, il Medio Oriente. Come ha già dichiarato più volte, Trump punta alla liberazione degli ostaggi tassativamente entro il 20 gennaio 2025, giorno in cui si insedierà ufficialmente, in cambio di un’immediata cessazione di tutte le operazioni militari a Gaza, e sempre entro la stessa data punta al ritiro delle truppe israeliane dal sud del Libano e di quelle di Hezbollah sopra il fiume Litani. «per fare ciò ha creato due team. Del primo, che si occuperà di gaza, si sa molto poco al momento, mentre per il Libano ha già nominato dei referenti: uno è Michael Boulos, consuocero del presidente, che dovrà trattare con il Libano, mentre un altro tratterà con Israele. Nei guai è l’Iran, perché nel nuovo medio oriente di Trump è un ostacolo. A meno che non gli faccia un’offerta che lo convinca….».

Israele, gli ebrei della diaspora e l’antisemitismo

«L’ultimo anno è stato terribile per gli israeliani e per gli ebrei della diaspora, con atti antisemiti continui. Come finirà tutto questo?» ha chiesto Paolo Salom.

«La guerra che sta combattendo oggi Israele è molto simile a quella per l’Indipendenza, combattuta nel 1948, che è durata 18 mesi e ha visto una prima fase difensiva e una offensiva, e che Ben Gurion ha continuato a combattere nonostante le richieste dell’Onu di fermarsi – ha risposto Molinari -. Lo stesso sta accadendo oggi, con una prima fase difensiva dopo il 7 ottobre, e poi una offensiva. Per ora mancano degli accordi sul cessate il fuoco e non è detto che i confini rimarranno gli stessi di prima del 7 ottobre -. Sicuramente avere alla Casa Bianca Trump per Israele è una garanzia, perché ne comprende le esigenze».

Per quanto riguarda la situazione degli ebrei in diaspora, lo scenario per Molinari non è affatto roseo e tenderà a peggiorare. «In Europa ciò che sorprende è il moltiplicarsi della narrazione dove qualsiasi episodio avviene per responsabilità di Israele: anche sui recenti fatti di Amsterdam, la narrazione dominante sui media era che fossero stati gi tifosi israeliani intolleranti a fare scatenare le violenze. Ma questo è quello che succedeva anche con i pogrom nella Russia zarista, che si accompagnavano sempre con una versione che dava responsabilità agli ebrei – omicidio rituale, assassinio di bambini, ecc.. -: c’era sempre una ragione che dipendeva dagli ebrei. Ora questa narrazione è tornata e quello che preoccupa è che non c’è una contro narrazione».

Per gli ebrei degli Stati Uniti Stati Uniti c’è un elemento in più da considerare. «Nella notte della vittoria di Trump, un gruppo di violenti pro-Hamas ha assaltato la sede del New York Post e ciò evidenzia che per queste frange violente pro-Hamas l’unica strada sia la violenza. Sono spesso gruppi organizzati con fondi dall’estero, e c’è la preoccupazione che si inneschino ulteriori meccanismi di violenza, con aggressioni fisiche e tentativi di rapimento».

Iran, Corea del Nord, Musk

Si è poi passati alle domande dei numerosi presenti.

A chi gli ha chiesto quale sia stato il ruolo di Elon Musk, nella campagna elettorale, Molinari ha risposto: «Musk è un personaggio chiave per la narrazione dell’amministrazione Trump soprattutto per l’idea di trasformare la comunicazione in un sistema nel quale le masse ricevono messaggi in continuazione da quelli che li guidano. Non è una visione democratica della comunicazione, ma oligarchica, che ha funzionato perché ha fatto leva sul tema dei prezzi. Si sa che Trump lo vuole nel governo, di cui il presidente vuole modificare permanentemente la natura. Musk sicuramente lo aiuterà nella narrativa che porta alla stabilizzazione anche in vista delle elezioni amministrative fra 18 mesi, che già incombono. Prevedo che accelererà la demolizione delle strutture dello stato federale, per accentrare potere sull’esecutivo: non a caso ha già annunciato che il 20 gennaio firmerà 300 ordini esecutivi».

Per quanto riguarda l’Iran, Molinari ha precisato: «L’Iran ha un accordo con l’Arabia saudita, quindi è davanti a scelta: affrontare il Medio Oriente diverso, cercando un bilanciamento nuovo con gli altri paesi arabi, o continuare la strategia della mezzaluna sciita per dominare il medio oriente. All’interno dello stesso governo iraniano c’è una discussione, e il nuovo presidente Pezeshkian potrebbe avere in qualche maniera a che fare con l’amministrazione Trump. Ma la prima decisione che l’Iran dovrebbe prendere sarebbe nei confronti di hezbollah e Hamas: sarebbe disposto a rinunciarvi?

Un altro attore pericoloso nello scenario internazionale è la Corea del Nord, «l’unico paese con armi che minacciamo direttamente la sicurezza usa. Ma anche qui la palla sarà messa nel campo di Kim Jong-Un: Trump userà la deterrenza giocando sulla propria superiorità militare».

Due parole anche su Joe Biden, che fino all’ultimo non voleva rinunciare alla propria candidatura. «In America si chiedono in molti che gioco abbia giocato – ha spiegato Molinari -. Molti imputano al suo non volere lasciare la candidatura la sua sconfitta. Inoltre, molti leader dem non volevano Kamala Harris, ma un volto nuovo, invece lui si è impuntato sul suo nome, pur conoscendone le debolezze. La realtà è che Biden non l’ha aiutata molto, facendo anche quello scivolone sugli elettori di Trump come spazzatura. Dall’indomani della vittoria di Trump è stato collaborativo, si incontreranno mercoledì 13 novembre e ci saranno due mesi di interazione».

Il voto degli arabi? « Un libanese un giorno a un pranzo mi ha detto: “daremo due stati a Trump, il Michigan e il Nevada, perché Trump è l’unica persona che Netanyahu ascolta”. E così è effettivamente andata. La maggioranza degli arabi che vivono negli Usa non sono musulmani, ma cristiani o armeni, e la maggioranza dei musulmani non sono arabi».