di Anna Coen
“La vita mi deve una patria dove la mia unica preoccupazione sia vivere, non la patria stessa.” Queste sono state le ultime parole del giornalista iraniano Kianush Sanjari, 44 anni, prima di togliersi la vita in protesta contro la tirannia del regime islamico e del suo leader, Ali Khamenei.
Tra il 2000 e il 2007, Sanjari è stato arrestato nove volte dal regime e internato forzatamente in istituti psichiatrici sei volte, a causa del suo attivismo politico. Ha dedicato la sua vita a lottare per l’Iran, per gli iraniani e per la libertà.
La sua prima detenzione risale a quando aveva solo 17 anni, durante le proteste per l’anniversario dell’assalto ai dormitori dell’Università di Teheran. In quell’occasione, gli studenti manifestavano contro la chiusura del giornale Salam, ma il regime reagì con violenza, uccidendo numerosi giovani. Nonostante fosse minorenne, Sanjari fu imprigionato insieme a detenuti adulti, tra cui criminali violenti. Dopo essere stato rilasciato due anni dopo, raccontò di essere stato minacciato di violenza sessuale da un funzionario del tribunale, oltre a essere ripetutamente picchiato e costretto a trascorrere nove mesi in isolamento.
In quegli anni, Sanjari iniziò a studiare grafica e design, ma subì continue pressioni da parte delle autorità a causa del suo coinvolgimento nei movimenti studenteschi, e venne arrestato più volte. Secondo i suoi racconti, fu sottoposto a elettroshock ben nove volte.
“Dopo la terapia elettroconvulsiva, quando tornavo in reparto, non ricordavo chi fossi, perché fossi lì o cosa fosse accaduto quel giorno. Non sapevo nemmeno il mio nome. Chiedevo alla guardia: ‘Qual è il mio nome? Cosa sto facendo qui?’. Era lui a ricordarmi chi fossi. Questo è successo nove volte.”
Fuggito infine nel Kurdistan iracheno, Sanjari chiese asilo tramite Amnesty International e successivamente si trasferì in Norvegia e negli Stati Uniti. Nel 2016, tornò in Iran per assistere la madre anziana, ma venne immediatamente arrestato con accuse di collusione, propaganda contro il regime e appartenenza a un gruppo illegale. Condannato a 11 anni di carcere e a due anni di divieto di espatrio, trascorse i primi due anni della pena in isolamento:
“Sento che l’isolamento, che attacca l’anima e la mente, può essere la forma più disumana di tortura bianca per persone come me, arrestate unicamente per difendere i diritti dei cittadini. Spero solo che arrivi il giorno in cui nessuno venga più confinato in isolamento per punirlo per l’espressione pacifica delle sue idee.”
Nel 2019, Sanjari si ammalò. Un medico del carcere raccomandò un congedo medico, ma i Guardiani della Rivoluzione (IRGC), seguendo una tattica di oppressione volta a screditare gli attivisti, lo trasferirono in un ospedale psichiatrico, dove molti oppositori politici sono morti dopo essere stati sottoposti a iniezioni di farmaci sconosciuti.
“Di notte, un’infermiera mi iniettò qualcosa che mi paralizzò la mascella e mi lasciò incosciente. Al mattino, trovai mani e gambe incatenate al letto. Quelli furono i momenti più dolorosi della mia vita.”
Negli anni successivi, Sanjari fu più volte internato forzatamente in ospedali psichiatrici. Schiacciato da una vita di oppressione, torture e solitudine, due giorni fa Sanjari ha preso una decisione estrema e ha messo in gioco la propria vita per ottenere la liberazione di quattro prigionieri politici.
“Sto per prendere una decisione difficile tra la vita e la morte. Se entro le 19 di oggi, mercoledì 13 novembre 2024, Fatemeh Sepehri, Nasrin Shakermi, Tomaj Salehi e Arsham Rezaei non saranno liberati, farò una scelta definitiva in segno di protesta contro la dittatura di Khamenei e dei suoi collaboratori, e metterò fine alla mia vita.”
Fatemeh Sepehri è stata arrestata nel 2021 per aver chiesto le dimissioni di Ali Khamenei. Nasrin Shakermi, arrestata meno di un mese fa, è la madre di Nika Shakarami, una ragazza di 16 anni arrestata durante le proteste per Mahsa Amini, violentata, uccisa e gettata giù da un edificio. Tomaj Salehi, rapper noto per le sue canzoni di protesta e leader delle manifestazioni per Mahsa Amini, ha subìto diversi arresti. Arsham Rezaei, attivista monarchico e prigioniero politico, è stato condannato un anno fa a otto anni di carcere.
Quando il suo appello è rimasto inascoltato, Sanjari ha compiuto il suo gesto estremo.
“Nessuno dovrebbe essere imprigionato per aver espresso le proprie idee. Il diritto di protestare appartiene a ogni cittadino iraniano. La mia vita finirà dopo questo tweet, ma non dimentichiamo che abbiamo dato le nostre vite per amore della vita, non della morte. Sogno un giorno in cui gli iraniani si sveglieranno e si libereranno dalle catene dell’oppressione. Lunga vita all’Iran.”
Un regime di repressione
Il regime islamico ha una lunga storia di repressione, intimidazione e omicidi di prigionieri politici: dalle torture e violenze degli anni ’80—quando le giovani vergini venivano stuprate prima dell’esecuzione per impedire loro l’accesso al paradiso secondo la legge islamica—fino ai giorni nostri, in cui i prigionieri politici sono privati del diritto alle cure mediche.
Attualmente, migliaia di prigionieri politici in Iran vivono in condizioni orribili, spesso condannati alla pena di morte. Secondo le stime, ci sono attualmente 1.351 prigionieri politici in Iran, che stanno scontando complessivamente 1.856 anni di carcere. Nonostante la consapevolezza delle malattie croniche di alcuni di questi detenuti, le autorità negano loro farmaci, attrezzature mediche e permessi sanitari, sottoponendoli di fatto a “omicidio bianco”, una strategia che permette al regime di evitare responsabilità dirette in caso di morte.
Questo metodo è stato sistematicamente adottato dal regime islamico per instillare paura tra gli attivisti politici e spezzare la resistenza dei detenuti attraverso abusi psicologici e fisici, scoraggiandoli dal continuare il loro impegno.
Ogni giorno, il regime islamico si indebolisce, ma Khamenei e i suoi sostenitori stringono ulteriormente la presa sul popolo iraniano, soffocandone le libertà per prolungare un dominio sempre più precario. Investono tempo, denaro ed energie per distruggere i sogni e le speranze degli iraniani, come ha recentemente dichiarato anche il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Ma nonostante la brutalità della repressione, gli iraniani continuano a protestare nelle strade, affrontando il carcere, la tortura e persino la morte, uniti in un unico grido: “DONNE, VITA, LIBERTÀ”.