di Cyril Aslanov
[Ebraica. Letteratura come vita] Come molti ebrei appartenenti all’orizzonte culturale della Mitteleuropa, Kafka si esprime in un tedesco perfetto, esente da ogni tipo di particolarismo linguistico ebraico nonché privo di ogni asperità stilistica. A questo proposito, la germanista francese Marthe Robert notò che lo stile letterario di Kafka si caratterizza per la sua anonimità, la quale si manifesta fra l’altro attraverso l’assenza totale di riferimenti ebraici nei suoi romanzi (Marthe Robert, Solo come Kafka, trad. Marina Beer, Roma, Editori Riuniti 1982, pp. 5-25).
Eppure, Kafka esprime in filigrana dei motivi che potrebbero essere riconosciuti come ebraici per chi li conosce già. Ad esempio, Il castello, romanzo incompiuto ma pubblicato nel 1926, due anni dopo la morte dell’autore, si può leggere come l’allegoria della condizione ebraica in Europa. Il protagonista K. è arrivato in un villaggio con la funzione di topografo presso il castello locale ma non riesce ad entrarvi nonostante la validità delle sue autorizzazioni. Il cognome Westwest “Ovest-Ovest” portato dal conte inaccessibile di questo castello potrebbe corroborare una lettura che vede in questo racconto un’allusione alla società occidentale alla quale gli ebrei hanno cercato di integrarsi. Quale fosse stata la conclusione del romanzo non si può capire dai frammenti pubblicati alla fine dell’edizione di Max Brod, l’esecutore letterario di Kafka. Tuttavia, lo stesso Brod raccontò che Kafka gli avrebbe detto oralmente che K. sarebbe morto prima di poter entrare nel castello. Ciò significa che in questo romanzo l’assenza di conclusione forse non è accidentale, bensì è una caratteristica ontologica della situazione in cui il protagonista si trova incastrato: l’azione non può progredire e il suo epilogo sarebbe probabilmente stato la morte di K. prima che riuscisse ad accedere al castello. Così sembra che Kafka abbia concepito una delle conclusioni possibili della sua ultima opera scritta quando era in fin di vita, cercando di attenuare le sue sofferenze nel luogo di villeggiatura di Špindleruv Mlýn (Spindlermühle), dove l’aria delle colline ceche era più pura. Questo epilogo crudelmente ironico avrebbe avuto una risonanza quasi profetica, come spesso succede nell’opera di Kafka. Si pensi al destino dell’ebraismo europeo, annichilito durante gli anni neri della Seconda guerra mondiale.
Un’altra chiave di lettura che potrebbe mettere in evidenza un contenuto ebraico è il racconto Davanti alla legge (Il processo, cap. IX, Nel duomo) che fa pensare al Midrash Pesiqta Rabbati, 20, dove si racconta come al momento della rivelazione divina al monte Sinai, Mosè abbia dovuto passare attraverso stanze protette da guardie spaventose prima di ricevere la Torà/la Legge. Questa parabola è una delle poche opere di Kafka che sia stata pubblicata durante la breve vita dell’autore. All’origine era un brevissimo racconto ma poi la integrò nel Processo, un libro che come le sue altre opere inedite, aveva espressamente chiesto a Max Brod di bruciare senza neanche leggerle. Fortunatamente l’amico Max disubbidì a Franz e possiamo leggere Il processo e Il castello.
Una lettura post-strutturalista e post-moderna di Kafka rivela che, al di là della sua opera letteraria pubblicata mentre l’autore era ancora in vita o salvata dalla distruzione da Max Brod, vi è un’altra, non meno importante, che consiste nella famosa Lettera al padre, nel Diario e nella sua corrispondenza, particolarmente con Felice Bauer e Milena Jesenská. In questi testi paraletterari la tematica ebraica, visibile solo fra le righe nell’opera letteraria propriamente detta, è palese per non dire ognipresente.
Kafka si dipinge come un ebreo distaccato dalla pratica religiosa abbastanza tiepida trasmessa dal padre. Eppure, influenzato dall’atmosfera fin de siècle che caratterizzava i centri urbani dell’Impero austro-ungarico, Kafka rimise in questione l’equilibrio talvolta instabile fra la fedeltà minimalista all’ebraismo e la volontà di integrarsi alla società non ebraica. Uno dei modi di questa contestazione del modello paterno fu la nostalgia per l’ethnos ebraico di cui prese consapevolezza con l’arrivo a Praga di profughi ebrei ortodossi di lingua yiddish durante gli anni della Prima guerra mondiale. Questi avevano lasciato la Galizia orientale a causa dei massacri perpetrati contro gli ebrei dai cosacchi dell’esercito russo. Ma a differenza del suo amico Jirˇí Langer, ebreo assimilato, che si avvicinò al hasidismo e tornò all’ortodossia ebraica, Kafka ebbe solo un amore platonico per questi Ostjuden dai quali la sua educazione borghese e moderna lo separava ontologicamente.
In cambio trovò nel sionismo il modo di identificarsi con la dimensione nazionale dell’ebraismo senza cercare di approfondire la sua appartenenza alla religione ebraica. L’impegno sionista di Kafka si tradusse dal suo apprendimento dell’ebraico con la giovane Pu‘ah Ben-Tovim (1903-1991), una sabra di madrelingua ebraica che studiava la matematica a Praga e insegnava l’ebraico per finanziare i suoi studi. La lettera che Kafka scrisse in ebraico alla sua maestra è redatta in un buon ebraico dove traspare l’ingenuità del principiante: uso della vocalizzazione; grafia un po’ goffa delle consonanti; disparità stilistica. Se Kafka avesse vissuto oltre il 1924, avrebbe forse potuto realizzare il suo sogno di ricominciare una nuova vita nella Terra di Israele e avrebbe certamente migliorato la sua conoscenza dell’ebraico. Tuttavia sarebbe certamente rimasto fedele alla lingua tedesca come tanti ebrei tedeschi, austriaci e cechi venuti in Palestina mandataria durante la quinta ‘aliya (1932-1939).