di Fiona Diwan
Nelle notti tra il 14 e il 18 novembre 1912 Kafka non riesce a dormire. È barricato in camera, prova disperazione, tristezza. C’è una storia che lo “opprime nel punto più interno” di se stesso, che lo tormenta e non lo lascia in pace. Deve scriverla. Venti giorni dopo, nella notte del 6 dicembre, la scrittura del racconto è ultimata ma la fine sembra non soddisfarlo, addirittura lo disgusta, la ritiene illeggibile e imperfetta, annota nei Diari. È La Metamorfosi, il testo che diventerà il simbolo stesso del Novecento letterario, “una delle poche grandi perfette creazioni di questo secolo”, dirà Elias Canetti nel suo saggio su Kafka, Processi (Adelphi). La Metamorfosi uscirà in volume nel novembre del 1915.
Ma perché scrivere di un uomo che si addormenta e si risveglia scarafaggio? Qual è la genesi scritturale e socio-psichica di questo racconto? (Al tema è stato dedicato un recente evento Kesher). Al di là delle ben note umiliazioni-vessazioni subite da Kafka da parte del dispotico padre, è certo che quella dello scarafaggio non fu mai una trouvaille, una fantasiosa trovata grottesca o di gusto espressionista. Basterebbe soffermarsi sul termine tedesco che Kafka adopera per definire lo scarafaggio, Ungeziefer, per intuirlo: una parola che trasmette un senso di degradazione e disgusto, “rimandando al repellente, all’impuro… (nella propaganda antisemita il termine Ungeziefer indicava gli ebrei)”, scrive Anita Raja, traduttrice della più recente edizione de La Metamorfosi (Marsilio, 2024), un termine che Raja traduce con bestia immonda, preferendo questa accezione più ampia rispetto a quella più comune di blatta, cimice, scarafaggio, parassita, pidocchio (che restano comunque traduzioni consolidate e accettate).
“Così l’oltraggio antisemita si fece verbo creatore…, l’ingiuria venne introiettata, fatta propria nel profondo, portando lo scrittore a mettere in scena con feroce autoironia un’aggressiva metamorfosi che investiva lui stesso…”, scrive lo studioso Luca De Angelis in Cani, topi e scarafaggi – Metamorfosi ebraiche nella zoologia letteraria, Marietti.
Kafka insomma interiorizza lo stereotipo ebraico dell’insetto-parassita e lo rovescia. Che nesso c’era tra Kafka, gli animali e l’ebraismo?, si sono chiesti alcuni studiosi (Irene Kajon, Luca De Angelis, Luigi Forte…). “Il fatto di essere ‘esiliato nel corpo di uno scarafaggio’ e al contempo ‘condannato a conservare l’anima e la mente dell’uomo’ rendeva l’ebreo ancor più umano… Così, il ripugnante scarafaggio de La Metamorfosi finisce per diventare l’emblema dell’Uomo, di ‘una condizione umana che più misera non c’è’ (Primo Levi). Quando Kafka trasformò l’ebreo in un ripugnante insetto non fece che riprodurre la realtà, la condizione ebraica esposta all’antisemitismo razziale”, spiega nel suo fondamentale testo Luca De Angelis.
L’apparato preesistente di metafore antisemite legate a immagini di animali e insetti fu il terreno su cui germogliò la fantasia di Kafka (e di quasi tutti gli scrittori ebrei del XIX e XX secolo da H. Heine a I. B. Singer, da S. Y. Agnon a Bruno Schulz, da Primo Levi a Andrèe Schwarz Bart a Yoram Kaniuk…). Di fatto, era già tutto lì, pronto: decenni di insulti batteriologici verso gli ebrei e di scatenata ostilità (il resto lo fece il senso di vuoto, l’umiliazione angosciosa patita da Kafka in famiglia, il senso di alienazione).
Gregor Samsa è un eroe inerme che si fa superfluo: incarna un’epica del reietto, il cosmico senso di esilio e discriminazione dell’ebreo, il senso dell’assurdo e del mostruoso che diventa la normalità. Kafka introietta un onnipresente e ben noto stereotipo antisemita, l’insetto, la cimice, il verme parassita, lo Ungeziefer appunto, e ne fa racconto universale della condizione umana. Interiorizzare uno stereotipo negativo e restituirlo come racconto, farne un’arma letteraria, riproporlo come condizione universale portata all’estremo. È stato il letterato-filosofo George Steiner ad osservare per primo che per la mutazione di Gregor viene usata la parola Ungeziefer, termine che i nazisti applicavano ai prigionieri avviati nelle camere a gas. Un tocco di chiaroveggenza con 30 anni di anticipo? In un certo senso sì. Questo, in definitiva, è il realismo profetico di Kafka. Tutto quello che accadde fu prefigurato e descritto in ambito letterario, il luogo privilegiato dell’immaginazione (un esempio tra i tanti è Hugo Bettauer, La città senza ebrei, romanzo del 1922). Se le pagine di Kafka e di molti altri autori appaiono profetiche o anticipatrici è perché le vicende che avvennero costituiscono il seguito consequenziale del forsennato clima dell’epoca e dell’ebreofobia razziale. Per questo lo scrivere ebbe, per Kafka, la potenza del grido e la forza di un oscuro presagio.