Lo sapevate che? Chiudere il cerchio, tra qabala e aleph-bet

Personaggi e Storie

di Ilaria Myr

Quante volte nella vita abbiamo usato l’espressione “chiudere il cerchio” per indicare che abbiamo portato a termine un processo, senza lasciarlo incompiuto?
Ecco, probabilmente l’abbiamo pronunciata senza sapere che all’origine di questo modo di dire vi è l’alfabeto ebraico. Una spiegazione che sta fra la Qabalà e l’etica ebraica fa infatti riflettere su due lettere dell’alfabeto ebraico: la nun e la successiva, la samech, con la prima che ha una forma aperta, non conclusa, mentre la seconda è un cerchio chiuso.
La nun, dicono, i Maestri rappresenta la nefilà, la caduta, cioè qualcosa di negativo: a tal punto che il re David in suo salmo (il 145) salta la lettera nun, perché rappresenta la caduta, per proseguire, però, subito dopo, con la frase, che inizia con la samech, “Somech Hashem lekol hanoflim”, cioè “Hashem, il Signore, sostiene tutti quelli che cadono”.
Secondo i Maestri, questo è un insegnamento della tradizione: quando guardiamo solo un “mezzo cerchio” può sembrarci che una cosa possa essere negativa o che non sia iniziata bene, e dobbiamo aspettare di arrivare alla samech per chiudere tutto il cerchio, per potere vedere non solo un pezzo, ma tutto il disegno, per avere una visione completa.

L’immagine è “Samech come Sardegna” dello scultore Gabriele Levy