di Ludovica Iacovacci
“Il tema dei bambini convertiti è un tema doloroso, di sopraffazione, di violenza e di mancanza d’identità”. Con queste parole aprono i lavori Roberto Jarach, Presidente del Memoriale della Shoah di Milano, e Daniela Dana, Presidente dell’Associazione Figli della Shoah, per l’incontro “Bambini rubati, bambini contesi. Battesimi forzati in Età contemporanea” tenutosi il 20 novembre 2024 all’Auditorium della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano.
L’evento, moderato da Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione CDEC, ha visto alternarsi voci nazionali e internazionali, laiche e religiose, per affrontare la dolorosa ferita della storia passata e recente delle conversioni forzate perpetrate sui bambini ebrei, sottratti e rubati alle proprie famiglie, da parte della Chiesa cattolica.
Per l’occasione sono intervenuti: Marina Caffiero, professoressa onoraria dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza; Mattew Tapie, Saint Leo University di Tampa in Florida; Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma; Cristiana Cianitto e Paolo Inghilleri, professori dell’Università degli Studi di Milano; Martina Mampieri, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e University of Pennsylvania; David Ketzer, Brown University, insieme a Roberto Benedetti, ricercatore indipendente; Claudio Procaccia, Dipartimento Beni e Attività Culturali della Comunità Ebraica di Roma; Shmon Redlich, professore emerito della Ben Gurion University e Mons. Pierfrancesco Fumagalli, dottore emerito dell’Ambrosiana.
Elena Mortara, pronipote di Ernesta, sorella di Edgardo, ha rivolto un appello a Papa Francesco riguardante la fratellanza, la legge naturale e il diritto canonico.
Un appello al Pontefice: fratellanza, legge naturale e Codice canonico. La lettera di Elena Mortara a Papa Francesco
“I battesimi forzati sono solo un ricordo del passato o vi è ancora spazio nel pensiero teologico cattolico e nella pratica odierna? È doloroso e del tutto sorprendente, anche per la maggioranza dei cattolici, che la Chiesa di Roma non si è ancora liberata completamente da questo passato di soprusi e dalla possibilità di rinnovarli. L’attuale codice di diritto canonico, cioè il codice normativo della Chiesa cattolica, nella sua edizione rivista del 1983 contempla un articolo di legge relativo ai battesimi che ancora oggi rende leciti agli occhi ufficiali della Chiesa i battesimi forzati dei bambini, perfino se figli di genitori non cattolici. Si tratta del canone 868 paragrafo 2, che recita: «Il bambino di genitori cattolici e perfino di non cattolici in pericolo di morte è battezzato lecitamente anche contro la volontà dei genitori».
Come studiosa di rapporti transazionali, culturali e religiosi in ambito storico e letterario e come pronipote di Edgardo Mortara, dunque come discendente di quella famiglia ebraica bolognese che nel 1858 nello Stato della Chiesa ha vissuto il dramma del rapimento di un bambino di 6 anni strappato ai genitori dall’Inquisizione e mai più restituito alla famiglia con la motivazione di supposto battesimo compiuto di nascosto da una domestica, consapevole dell’importanza storica dello scandalo internazionale che ne seguì e della gravità della permanenza di un simile codice al giorno d’oggi, continuo a sentire il dovere morale – anche alla luce di questo momento storico – di rivolgermi al Pontefice attuale”. Con queste parole Elena Mortara si rivolge al capo della Chiesa cattolica, Jorge Bergoglio.
Caro Papa Francesco,
il concetto di fratellanza universale radicato nella legge naturale non è forse un principio fondamentale che richiama l’unità e l’uguaglianza di tutti gli esseri umani al di là delle differenze culturali, religiose e sociali? Non ritiene anche Lei che un articolo di legge quale il canone 868 paragrafo 2 che ripropone una pratica coercitiva e dolorosa, più volte attuata nella storia, è in contrasto con il principio di rispetto della libertà religiosa e dei diritti dei genitori? Non ritiene che sia in contrasto con i valori della fratellanza universale e della legge naturale?
Caro Papa Francesco,
il Concilio ecumenico Vaticano II iniziato da Papa Giovanni XXIII nel 1962 e portato a termine da Paolo VI nel dicembre del 1965 con la produzione di una serie di documenti di straordinaria importanza non ha forse portato ad un rinnovamento intero della Chiesa di cui prendere atto con gratitudine in tutte le sue implicazioni?
Caro Papa Francesco,
la seconda delle quattro Costituzioni del Concilio, relativa all’auto comprensione che la Chiesa ha di sé stessa, la Lumen gentium del 21 novembre 1964 – importante nella storia dei rinnovati rapporti con la Chiesa del popolo ebraico per il suo riconoscimento del carattere irrevocabile dei doni divini ricevuti dal popolo ebraico – non ha forse affermato anche la volontà salvifica universale di Dio, capitolo 2-16, in contrasto con la vecchia formula escludente «Ex ecclesia nullus omini salvatur» ovvero «Fuori dalla chiesa nessuno si salva», adottata nel Quarto Concilio Lateranense nel 1215, formula che i Papi non hanno mai citato nei loro documenti?
La fondamentale dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, la Nostra aetate del 28 ottobre 1965 non ha forse affermato a proposito delle varie religioni non cristiane del mondo che la Chiesa Cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni le quali non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini (articolo 2 paragrafi 1-2)?
Il grande teologo e futuro Papa Joseph Ratzinger in un suo testo del 1969, in cui affronta in forma interrogativa il tema del rapporto tra la Chiesa cattolica e il mondo non cristiano relativamente alla salvezza, non ha forse affermato che la possibilità di principio della salvezza degli altri è al di sopra di ogni discussione e che questa è una certezza non più intaccabile?
E che dire poi della questione della libertà religiosa? Il decreto Dignitatis umanae del 7 dicembre del 1965, cioè la rivoluzionaria dichiarazione del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa, non ha forse sancito solennemente: «Questo Concilio dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa» e sempre nello stesso testo: «Il contenuto di tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione dei singoli individui e di gruppi sociali o di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza»?
Né possiamo dimenticare le parole che il suo predecessore, una volta divenuto Papa Benedetto XVI, dedicò nel suo primo discorso alla Curia, il 22 dicembre 2005, quando invitò a considerare la libertà di religione come una libertà necessitante della convivenza umana, come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall’esterno ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il convincimento?
Quanto al tema specifico del diritto dei genitori all’educazione dei figli, non è forse vero che tale diritto viene affermato con forza, sempre in ambito conciliare nella dichiarazione Gravissimus educationis del 28 ottobre 1965, ove si legge: «I genitori poiché hanno trasmesso la vita ai figli hanno l’obbligo di educare la prole e vanno considerati come primi e principali educatori di essa». Questo è un riferimento all’educazione cristiana ma è chiaramente riferita ad un principio naturale, il cui incipit fa intendere che ci si stia riferendo a tutti i genitori, non solo quelli cristiani.
Ho finora fatto riferimento a dichiarazioni del Concilio Vaticano II per documentare qual è il pensiero ufficiale della Chiesa attuale ma con riferimento al caso Mortara, già allora, la vicenda diventò uno scandalo internazionale per la storia dello Stato italiano e della Chiesa, proprio perché l’opinione pubblica cattolica fu scossa da questo accadimento. Andando indietro nella storia del pensiero cattolico anche il teologo Tommaso D’Aquino difendeva il diritto naturale in simili circostanze.
Ora vorrei andare alla radice del problema di cui ci stiamo occupando.
Per intervenire sul codice canonico, i canonisti hanno bisogno del supporto dei teologici. I teologi, a loro volta, per andare a fondo della comprensione dei problemi, necessitano della competenza degli studiosi del testo biblico: questo è il punto chiave. Dal dibattito teologico bisogna risalire all’interpretazione del testo biblico da cui tutto ebbe inizio e per fare questo è bene per i teologi rivolgersi ai biblisti. Il 26 maggio 2023 nell’ambito della 19ª edizione del Festival biblico, al museo Diocesano di Vicenza, si è svolto un incontro con Jean Louis Ska, professore emerito al Pontificio Istituto biblico, riguardo al capitolo terzo di Genesi e sulla questione del peccato originale, in cui avviene l’episodio di Adamo ed Eva che tentati dal serpente assaggiano il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male e vennero cacciati dal giardino dell’Eden. Questo a catechismo viene insegnato come il principio del peccato originale. Il professor Ska ha evidenziato che l’idea di peccato originale è assente in Genesi 3. La parola “peccato” non compare mai. L’idea di peccato originale non c’è neanche nei Vangeli, dove si parla di liberazione dei peccati ma non di un peccato originale. Chi ha introdotto l’idea del peccato originale? Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani, capitolo quinto, ove si legge: «A causa di un solo uomo, il peccato è entrato nel mondo e la colpa di un solo si è riversata su tutti». L’idea è stata poi ripresa da Sant’Agostino, che per le sue passate esperienze di peccatore, era portato a sottolineare nell’uomo una certa natura peccatrice, ripresa poi dalla Scolastica della Chiesa medievale. Il passaggio chiave che permetterà al mondo cattolico di non sentirsi in colpa per un bambino non battezzato consisterà nella rilettura e nell’ascolto di testi biblici, guidati da biblisti cattolici come il professor Ska che ci insegnano come secondo la Bibbia l’umanità non è eternamente condannata per colpa del primo uomo e che la conoscenza del bene e del male e della cacciata dall’Eden rappresentano il passaggio dall’infanzia all’età adulta.
Caro Papa Francesco,
il mondo cattolico è in movimento e va ascoltato. Sono grata a tutte le voci che si alzano in questo momento, coloro che si interrogano sull’incongruenza del canone contrario ad ogni valore professato di libertà religiosa e spirito di fratellanza. Sono grata ai giornalisti di stampa cattolica per avermi fatto conoscere questo canone e ai biblisti cattolici che richiedono una riflessione più approfondita. Sono grata agli studiosi e ai libristi, che ci aiutano ad individuare la radice del problema ed indicano la via per la fratellanza.
Caro Papa Francesco,
sono arrivata alla fine di questo lungo appello e mi auguro questa volta di ricevere ascolto.
Mi rivolgo a Lei che il 3 ottobre 2020 ha promulgato l’enciclica Fratelli tutti, nella quale ha promulgato: «C’è un diritto umano fondamentale che non va dimenticato nel cammino fondamentale della fraternità della pace è la libertà religiosa per i credenti di tutte le religioni». Inoltre «L’amore di Dio è lo stesso per qualunque persona, di qualunque religione sia, e se è ateo è lo stesso amore».
Mi rivolgo a Lei perché dia ascolto alle molte voci del mondo cristiano ed ebraico. Dopo la tragedia della Shoah, la Chiesa ha compiuto percorsi di revisione del proprio rapporto con gli ebrei e altre confessioni. La Chiesa attuale che calorosamente sostiene l’incontro pacifico tra popoli che ha già annunciato la salvezza dei non cristiani ha il compito di riflettere sulle lezioni del passato ed eliminare il canone 848 numero 2, residuo del passato ma rimasto. Questo canone che rende lecito il battesimo di bambini contro la volontà dei genitori viola il principio di libertà di religione e contraddice l’idea di un Dio universale creatore di ogni essere umano, il quale nella sua bontà non può voler salvare solo i battezzati di una singola religione del mondo. Il dibattito rimane aperto nei canonisti e si può attendere un deciso progresso. La separazione tra diritto religioso e civile rappresenta una conquista fondamentale della società, ma ciò non basta. In situazioni di emergenza laddove venga fatto prevalere il diritto religioso su quello civile, situazioni di battesimo forzato di bambini considerati in pericolo di morte possono crearsi nuovamente. Ciò accade persino oggi in situazioni di normalità dove operano medici cattolici che difronte alla morte imminente di un neonato lo battezzano, pratica raccontatami personalmente da questi dottori. È bene che la chiesa affronti seriamente il problema se vuole contribuire ad una pacifica convivenza tra le genti.
La casa dei catecumeni di Roma, le conversioni e la violenza sui bambini in età moderna (sec XVI-XIX), di Marina Caffiero
“Per inquadrare e capire il fenomeno dei bambini convertiti forzosamente bisogna partire da un fatto storico, ovvero dall’esistenza di un’istituzione importante: la Casa dei catecumeni”, inizia così l’intervento di ricostruzione storica della professoressa Marina Cuffaro. “La prima Casa dei catecumeni e neofiti venne fondata a Roma da Paolo III Farnese nel 1543 con la bolla Illinus, preceduta l’anno prima dalla Costituzione Cupientes e ben prima dell’apertura del Ghetto nella città destinato a rinchiudere gli ebrei – che avverrà nel 1555. Questo è un dato importante perché significa che il tema della conversione è precedente a quello del Ghetto, che in genere è considerato il momento clou. La Casa dei catecumeni era il motore della politica conversionistica della Chiesa della Controriforma ed era posta sotto il cardinale protettore e il cardinale vicario, una figura istituzionale che esiste ancora oggi e che è la seconda figura religiosa più importante dopo il Papa. La Casa era destinata ad accogliere ebrei ed altri “infedeli”, anche se i soggetti principali erano gli ebrei la cui conversione era assai più rilevante sul piano della valenza simbolica e apologetica” dice la storica.
“Del resto – continua la professoressa – il fatto che il fulcro delle conversioni fosse incentrato contro gli ebrei era confermato dal fatto che fossero proprio loro a mantenere l’istituto attraverso il versamento di una tassa di ben 800 scudi annui, una cifra enorme. Nel 1634, per diretto intervento di Papa Urbano III, la Casa dei catecumeni ricevette una sede molto prestigiosa e definitiva in un grande edificio, tutt’oggi esistente, che è diventato la sede di un’università, continuo alla Chiesa della Madonna dei Monti che era pure di proprietà della Chiesa dei catecumeni nel quartiere Monti di Roma, una zona caratterizzata da un alto tasso di anti-ebraismo. In questo grande palazzo erano raggruppate le istituzioni addette alle conversioni, tale da portare ad un vero e proprio sistema volto a un cambiamento della fede. Oltre alla Casa dei catecumeni, prima tra tutte, v’erano anche il Monastero domenicano delle neofite monacande, ovvero le neofite destinate a diventare religiose, intitolato alla Santissima Annunziata e fondato nel 1562, e anche il Collegio dei neofiti, istituito nel 1567 in cui si formavano i futuri sacerdoti di origine ebraica. La Casa, pertanto, costituiva un grande complesso architettonico e omogeno nella gestione organizzata e centralizzata. La Casa di Roma è stata la prima fondata e quella che per molto tempo rimarrà la più importante. Questo grosso complesso architettonico riceveva molti finanziamenti e rappresentava il cuore dell’operazione conversionistica della Controriforma condotta nella capitale, che vantava anche una casa specifica dei protestanti”.
Marina Caffiero sottolinea come non si debba sottovalutare l’egida sotto la quale si svolgeva l’istituzione antiebraica che esplicitava il nesso esistente – da sempre – tra il culto mariano e l’antiebraismo cattolico, dimostrato anche ad un’esplicita immagine della Madonna che dominava la facciata del palazzo della Casa dei catecumeni nella quale avvenivano le conversioni forzate degli ebrei.
La professoressa inoltre sottolinea come lo studio di queste istituzioni sia divenuto oggetto dell’attenzione degli storici solo in tempi recenti, con le prime ricerche iniziate dall’istituto di Torino per poi passare a Roma. “Le Case erano diffuse in Età moderna su quasi tutto il territorio dell’Italia centro-settentrionale, parte della penisola che vedeva una forte presenza ebraica. Le Case si trovavano anche a Firenze, a Venezia, a Bologna, a Ferrara, a Torino, a Modena, a Pesaro, ad Ancona. Le Case erano più rare nel contesto dell’Europa cattolica, seppur vi fossero anche nelle città di Lisbona e Cracovia. L’importanza centrale era quella italiana: la Casa dei catecumeni è un’invenzione italiana. Emerge così quanto fosse cruciale la conversione degli ebrei mediante i battesimi forzati e quanto essa costituisse la cartina di tornasole dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo, direi, fino ad oggi. A seconda delle Case negli Stati, esse presentavano organizzazioni differenti e comportamenti non uguali soprattutto in materia di battesimi di bambini. Ad esempio, la restituzione ai genitori di piccoli ebrei strappati a forza alle famiglie a seguito di battesimi clandestini si riscontra nella Toscana dei Medici dove alla fine del Seicento emerse lo scandalo di tre figli rubati alla madre e che furono restituiti. Questa restituzione era impensabile a Roma nello Stato della Chiesa come, del resto, dimostra ancora nel 1858 il famosissimo caso di Edgardo Mortara, rapito per sempre” dice la storica.
Cuffiero sottolinea come le pratiche messe in atto per la conversione dei minori giustificassero l’uso della forza, soprattutto psicologica, e la sopraffazione. “Il ventaglio della costrizione era ampio e quasi mai comprendeva la forza fisica, brutale. Prevaleva una strategia morbida, di persuasione e pressione. Punto di partenza è la lettera, a Monsignor Arcivescovo di Parson Vicegerente, uscita con il titolo Postremo mense del 28 febbraio 1747 di Benedetto XIV Lambertini: un’epistola sul battesimo degli infanti e degli adulti molto estesa nella quale si stabiliva se i bambini ebrei potessero essere battezzati senza il consenso dei genitori (in vitis parentibus); se esistessero dei campi in cui questa pratica vietata dal diritto canonico divenisse lecita e, anzi, doverosa; se il battesimo fosse valido qualunque fosse il modo praticato (lecito o illecito); nella si prescrivevano i passi successivi al sacramento e come si potesse provare che il battesimo fosse avvenuto.
La professoressa spiega che questo documento papale farà giurisprudenza fino al Novecento. Il battesimo di bambini ebrei farà emergere in Età moderna, ed in particolare dopo la Riforma, la condizione infantile dei fanciulli con un’attenzione crescente sia del mondo protestante sia di quello cattolico che si traduceva in forti interventi di controllo sociale. I minori erano collocati al centro dell’interesse perciò le conversioni dei bambini assumevano una rilevanza assai maggiore rispetto a quella degli adulti, se non altro perché le prime davano maggiori frutti ed erano più malleabili: oltre al valore sociale simbolico delle giovani generazioni che costituivano una risorsa da valorizzare, esse erano anche una forza minacciosa da disciplinare e governare.
“Benedetto XIV partiva da San Tommaso, cioè dalla Scolastica, quale fondamento ideologico della tesi dell’assoluta illiceità del battesimo in vitis parentibus dei bambini ebrei ed infedeli. Come si arrivò ad una liceità della pratica?” domanda la professoressa. “Aprendo una riflessione sulla condizione servile degli ebrei, si autorizzava senza limitazioni il battesimo perché ci fu un’autorizzazione per analogia: ebrei=schiavi/servi. La tesi di Benedetto XIV, sulla scorsa di San Tommaso, era che gli ebrei fossero servi dei cristiani, ma che fossero servi di servitù civile: non erano servi di servitù penale, contraria alla libertà come erano i turchi catturati in guerra. Gli ebrei erano classificati di una certa servitù di rango inferiore ma seppure fossero “solo servi civili” già soltanto il parallelo creato tra ebrei, schiavi e servi, indeboliva e rendeva attaccabile il divieto del battesimo senza il consenso dei genitori” osserva la storica.
“La deroga più importante prevista – continua – per evitare il divieto di battezzare senza il consenso dei genitori era quella dell’interesse del bambino che prevaleva sulla potestà paterna. Il diritto naturale e il diritto romano erano scavallati per l’interesse del bambino e della Chiesa. Nella vicenda Mortara, la stampa cattolica diffuse la lettera di Benedetto XIV per dimostrare la regolarità della vicenda bolognese alle regole pontificie. L’illiceità non inficiava la validità del battesimo: non solo la norma della patria potestas era ignorata e violata ma l’età della ragione veniva abbassata ai 7 anni. Qui non c’è un esempio di violenza fisica, c’è la sopraffazione nel rovesciare le norme. Papa Lambertini, contrastando le tesi dei giuristi che, a suo dire, erroneamente avevano fissato l’età della ragione a 12 e 14 anni, si appoggiava all’idea di due canonisti romani, il cardinale Francesco Adizi veneziano e il cardista Antonio Ricciullo, per anticipare l’età della ragione al compimento dei 7 anni, trovando il conforto anche della giurisprudenza civile. Il Papa aggiungeva che in caso di richiesta di battesimo avanzata da un minore prima dell’età di 7 anni era sufficiente il giudizio dell’autorità cristiana affinché il bambino fosse considerato capace dell’uso della ragione per essere battezzato senza il consenso dei genitori. Questa ratifica benedettina che abbassava la soglia dell’età e l’introduzione dell’idea di richiesta spontanea dei bambini non solo apriva la porta al giudizio soggettivo e personale di chi volesse operare il battesimo ma lasciava spazio alle strategie di persuasione e di pressione psicologica esercitata sui fanciulli, anche al di sotto dei 7 anni” analizza Cuffiero.
La professoressa fa notare come il Pontefice, per timore di apostasia ed eterna dannazione, escludeva qualsiasi ipotesi di ritorno in seno della famiglia del minore che avesse chiesto di essere battezzato. “Il cosiddetto “interesse della salvezza del bambino” deciso dalla Chiesa prevaleva sui diritti naturali, sui diritti civili della patria potestas e sul limite dell’età dei 7 anni. Soprattutto verso la fine del Settecento e per tutto l’Ottocento, si verificavano diversi casi in cui piccoli bambini e bambine ebrei, minori di 7 anni, dichiaravano apparentemente in maniera spontanea di voler diventare cristiani. Tutti questi casi venivano risolti con la forza: mantenendo i piccoli nelle Case dei catecumeni ed aspettando il compimento dei 7 anni, anche se spesso il battesimo avveniva perfino prima”.
Infine la professoressa ricorda come, sotto il Pontefice Lambertini, fu emblematico il caso di Debora e Rivka Funari, di 10 e 6 anni, rubate alla madre vedova dallo zio paterno che le donò alla Chiesa cattolica. A causa dell’età, solo sulla più piccola si poté intervenire mediante l’Università ebraica che protestò appellandosi alla minore età. Alla fine, entrambe le bimbe furono chiuse nelle Case dei catecumeni, battezzate e interrogate dal Vicegerente, una delle cariche più alte della Chiesa. “La conversione delle bambine aveva un valore simbolico perfino superiore a quello dei maschi, dato il principio della trasmissione dell’ebraicità per via femminile che i cristiani ben conoscevano con la conseguente importanza di convertire le donne”, spiega Cuffiero. “A noi storici rimane il dubbio di quanto le dichiarazioni “spontanee” delle bambine ebree di voler diventare cristiane possano considerarsi effettive espressioni di libera volontà. Certamente queste non erano domande che i convertitori si ponevano. Del resto, anche quando venivano riconosciuti i rapimenti dei minori, il presunto libero arbitrio dei piccoli nel voler diventare cristiani veniva giustificato dalle autorità cristiane sposando la tesi dell’uso della ragione ex gratia divina, anche ben prima dei 7 anni. È così che una piccola bambina ebrea dell’età di 3 anni, figlia di una vedova, venne definita “spiritosa” cioè dotata di intelletto vivace, e pertanto ritenuta in grado di poter richiedere consapevolmente il battesimo” conclude la professoressa Marina Cuffiero.
Tommaso D’Aquino e la questione di diritto canonico contemporaneo sul battesimo per bambini di genitori non cattolici, di Matthew Tapie
“Il canone 868 §1 del Codice della Legge Canonica del 1983 (CIC 1983) stabilisce che sia lecito battezzare un bambino solo nel caso in cui almeno uno dei genitori (o la persona che ha la tutela legale) dia il consenso. Ma il canone 868 §2 contiene una eccezione a questa regola, perché stabilisce che è permesso secondo la legge battezzare un neonato di genitori non cattolici quando è in pericolo di morte, anche se i genitori si oppongono” spiega il relatore Mattew Tapie.
“Alcuni esperti di diritto canonico hanno espresso dubbi sull’applicazione di questo canone a causa dell’insegnamento del Concilio Vaticano Secondo sulla libertà religiosa. Un elemento di questo insegnamento è che ogni forma di coercizione dovrebbe essere esclusa per quanto riguarda la religione. Altri asseriscono che il canone corrente non dovrebbe essere applicato perché un bambino ebreo non dovrebbe mai essere battezzato contro la volontà dei genitori, nonostante il canone. Un altro commentatore del canone parla del diritto del bambino al battesimo che ha maggior peso dei diritti genitoriali: “….In pericolo di morte, la volontà di Dio è che tutti siano battezzati ed il conseguente diritto del bambino al battesimo ha la precedenza sui diritti genitoriali.” Qual è la relazione di questo canone all’attuale insegnamento della Chiesa?”, domanda.
“Sembra che il battesimo di un bambino di genitori non cattolici contro la loro volontà sia un punto di frizione con gli insegnamenti del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa. Io sostengo che la motivazione per battezzare bambini di non cattolici invitis parentibus (contro la volontà dei genitori) in pericolo di morte sia problematica per tre motivi.
In primo luogo, la premessa dietro il canone che asserisce che la salvezza del bambino ha maggior peso dei diritti genitoriali è nata come parte di una politica che separava le famiglie ebraiche del ghetto di Roma nel XVIII e XIX secolo.
In secondo luogo, il canone è teologicamente incoerente perché, come Tommaso d’Aquino (1225-1274) ha riconosciuto molto tempo fa, i diritti genitoriali fanno parte della legge naturale, che è espressione della saggezza di Dio. Infatti Aquino ha replicato ai nuovi argomenti del XIII secolo per battezzare i bambini ebrei contro la volontà dei loro genitori sostenendo che questa pratica non è mai stata abituale nella Chiesa e ha difeso l’autorità che i genitori ebrei hanno sui loro figli contro un tentativo piuttosto organizzato dei teologi del tredicesimo secolo tendente a giustificare i battesimi forzati dei bambini ebrei. Questo tentativo includeva proposte di battezzare i bambini ebrei invitibus parentis per salvare le loro anime. Dal momento che la cura che i genitori ebrei hanno dei loro bambini fa parte della legge naturale, la loro autorità sui propri figli non può essere opposta alla grazia di Dio. Aquino ha anche insistito che era il dovere dei genitori ebrei occuparsi della salvezza dei loro bambini e che sarebbe “ripugnante per la giustizia naturale, se un bambino… fosse tolto dalla custodia dei suoi genitori, o se gli fosse fatta una qualunque cosa contro la volontà dei suoi genitori”. Come hanno sostenuto molti dei Domenicani difensori di Aquino per centinaia di anni dopo la sua morte, ‘”Non si può fare ciò che è male per ottenere il bene”.
In terzo luogo, mostro anche che il problema della relazione del canone con gli insegnamenti del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa è emerso nel 1970, dopo che la Commissione per la Revisione del Codice della Legge Canonica ha cominciato a rivedere il CIC del 1917. Nella versione finale del CIC del 1983, il battesimo del neonato in pericolo di morte invitis parentibus è stato decretato legale. Io sostengo che per allineare il canone con gli insegnamenti del Concilio Vaticano II e con gli insegnamenti di Aquino, non sia necessario cancellarlo. Basta rivederlo” conclude il relatore.
Le conversioni nell’ebraismo a confronto con gli altri sistemi, di Rav Riccardo Di Segni
Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, incentra il suo intervento sul tema della conversione nell’ebraismo, confrontandolo brevemente con il piano del cattolicesimo. “Come si procede nella conversione all’ebraismo di minori?”, domanda il rabbino spiegando che c’è una radicale differenza tra la posizione ebraica dottrinale e quella cristiana: secondo il cristianesimo chi nasce da genitori cristiani, per entrare nella Chiesa, deve ricevere un battesimo pertanto non c’è automatismo. La posizione ebraica invece prevede che si entra nell’ebraismo attraverso due strade: se la madre è ebrea, il figlio è automaticamente ebreo; chi proviene dall’esterno deve fare un ghiur, il cui punto fondamentale è l’accettazione delle regole.
Come ci si comporta con una donna incinta che si converte? Qual è il risultato della sua conversione nei confronti del bambino che porta in grembo? Rav Di Segni risponde che il bimbo è sempre convertito insieme alla madre, seppur vi sia una controversia sulle motivazioni e sulla logica, ovvero se il feto è da considerarsi come una parte del corpo della madre o come una creatura indipendente. “Se il feto è come una parte della madre, si converte immediatamente anche il bimbo. Se il feto è una creatura indipendente, si dice che la madre, poiché si è immersa nel mikve, allora partorirà necessariamente un ebreo”, spiega Rav Di Segni.
Come ci si comporta con un minorenne che si converte? “La risposta è indicata nel Talmud: la responsabilità è del tribunale rabbinico. Se la chiave di una conversione è l’accettazione dei precetti, per quale motivo può essere legittima un’operazione nella quale il rabbinato decide se per questa creatura sia in grado di seguire le regole? La risposta è che in questo momento noi diamo un merito, facciamo un dono alla persona e il principio è che si può fare un regalo anche se la persona non è in grado di saperlo. Questo regalo è valido?” domanda Rav Di Segni spiegando che quando una persona arriva ai 12 o 13 anni, se la persona rifiuta questo dono allora non è più sottoposto al rigore della legge. “Le fonti dicono che se passa un’ora dall’entrata nell’età adulta e il ragazzo non manifesta contrarietà, allora è incastrato nel sistema. Su questo aspetto c’è molta discussione, perché secondo altri l’accettazione del dono deriverebbe dalla prima espressione della pratica della religione ebraica, pertanto fino a quel momento si può rifiutare l’ebraicità e quindi il termine si sposterebbe nel tempo. L’imposizione di uno status è molto controversa. Se la questione è legata all’osservanza e se la persona entrando nel sistema ebraico non rispetterà le sue leggi, allora la sua inosservanza sarà punibile dal cielo o da un tribunale. Così però non si darebbe un regalo ma una condanna e ciò non sarebbe lecito. Quindi l’ebraicità è un regalo assoluto o condizionato? Ancora ne discutiamo”, dice il rabbino capo di Roma che su un punto è categorico: “Se si tratta un bambino è stato convertito contro la sua volontà la conversione è nulla, non ha effetto, anche se dovesse esistere un potere ebraico superiore (che non è esistito per millenni e difficilmente si configurerà anche con lo Stato di Israele). La possibilità di imporre la conversione contro il desiderio del bambino è assolutamente esclusa e negata nella maniera più assoluta”.
Inoltre, Rav Di Segni affronta il tema del comportamento della tradizione ebraica verso chi ha lasciato l’ebraismo, spiegando che ci sono due tradizioni in perenne contrasto. Un pilastro dice che una persona che è passata ad un culto estraneo è considerata fuori dalla compagine ebraica con tutto ciò che ne consegue. L’altra opinione è che un ebreo rimane per sempre ebreo. Si pone questo problema per questioni matrimoniali. Il fatto che nel corso dei secoli permanga il principio che quando un ebreo pecca rimanga comunque ebreo, è un aspetto che complica una soluzione per le controversie matrimoniali”.
Infine, Rav Di Segni domanda se sia possibile annullare una conversione. “Teoricamente sì, ma solo se si riesce a dimostrare che la persona convertita stava mentendo. È estremamente difficile. Quando un ebreo rinuncia al battesimo, l’autorità ecclesiastica risponde sempre che il battesimo non può essere annullato ma può fare un’annotazione a margine del certificato di battesimo mettendo la persona in esclusione dei sacramenti e considerandolo scomunicato late sententiae. Dal punto di vista della Chiesa cattolica c’è una sorta di irreversibilità per il battesimo. Nel Novecento fino alla fine della Shoah, a Roma ci sono stati 1300 battesimi. È interessante vedere che fine hanno fatto questi battezzati. Dalla fine della guerra fino ai primi anni di questo secolo, ci sono stati dei ritorni: sono tornate 233 su 1310 persone, siamo intorno al 18%. È una percentuale interessante e notevole”. Per delineare questo passaggio doloroso, Rav Di Segni cita Rashì, quando commenta che a Giacobbe venne annunciato che suo figlio fosse stato sbranato da una belva feroce e il padre rifiutò di consolarsi. Perché? “Rashì spiega che ci si consola per i morti, non per i vivi. Se una persona è ancora viva non si riesce ad arrivare ad una consolazione, il tema delle conversioni esprime anche questo: non ci si riesce mai a mettere una pietra sopra, quale sia stata la direzione del passaggio, rimane sempre qualcosa di aperto”, conclude Rav Di Segni.
L’intervento di Cristiana Cianitto, professoressa all’Università degli Studi di Milano, è incentrato sulla dimensione del battesimo da un punto di vista simbolico e procedurale nel cristianesimo, definito come un’appartenenza tra volontarietà e imposizione. “Nel cattolicesimo il battesimo implica il diritto-dovere di partecipare alla missione della Chiesa, in tutte le forme, nel tempo e nella storia, per espressa volontà del proprio fondatore. Il corpo di Cristo si fa Chiesa non solo, come detto dal Concilio Vaticano II, come popolo di Dio ma anche come istituzione. Qui c’è la dimensione del battesimo: quella di atto che annette ad una singola istituzione ecclesiastica, la capacità del fedele di essere annesso al corpo mistico di Cristo e il principio di fratellanza nella fede che prescinde dall’appartenenza nazionale-etnica, al contrario dell’ebraismo”, dice la professoressa dell’Università di Modena. “Il pedo-battesimo è la prassi della maggioranza delle chiese cristiane. Questo ingresso non prevede rinuncia, al massimo ci si sottrae all’ordinamento. Nel battesimo non è norma retrocedere: il battesimo è una garanzia sulla vita, garantisce la salvezza per la vita eterna. Esiste il diritto-dovere dei genitori di educare i figli alla propria religione di appartenenza, tutelato anche dalla CEDU, così come la giurisprudenza consolidata stabilisce che il bambino debba essere ascoltato dai genitori, ma cos’è il migliore interesse del bambino? Sarebbe paradossale pretendere una sterilizzazione della coscienza dei più piccoli in nome di quel diritto di libertà religiosa che si vorrebbe garantire”, conclude la relatrice.
Paolo Inghilleri, professore all’Università degli Studi di Milano, si concentra sull’aspetto psicologico della dimensione religiosa, parlando dell’importanza della religione come identità sociale e sottolineando come gli anni di crescita, anche da questo punto di vista, siano fondamentali: “Non è solo un bisogno psicologico ma anche le strutture sociali ci permettono di attivare questa dimensione spirituale. Le pratiche religiose possono portare a star bene e ad un senso di appartenenza. Cosa succede se devo cambiare in modo forzato?” domanda il relatore. Facendo riferimento al caso Mortara, lo psicologo spiega che Edgardo nei primi 6 anni di vita sembra essere andato incontro a normali processi di sviluppo: attaccamento sicuro, identità sociale, sicurezza data dalle garanzie di essere in uno specifico contesto familiare, culturale, comunitario, religioso: l’ebraismo. Il relatore dice che, a seguito del rapimento, a questo processo di filiazione si è affiancato uno di affiliazione: il sé è messo dinnanzi a nuovi vissuti, nuove forme, nuovi valori, nel caso di specie in modo forzato. Questo produce un grande conflitto interno che è anche un conflitto bi-culturale, difficile e doloroso. Lo psicologo spiega che con una reazione di sopravvivenza psicologica la persona cerca allora, in modo conscio e incoscio, di raggiungere un senso di appartenenza a un mondo culturale (in questo caso religioso), quale esso sia. Da ciò deriverebbero comportamenti ambivalenti, di opposizione e talora di rivolta come quelli di Edgardo Mortara.
La Casa dei catecumeni di Ancona e altri casi di rapimenti e battesimi nelle Marche, di Martina Mampieri
“La documentazione archivistica rinvenuta presso gli archivi Vaticani, così come in quelli statali, comunali, diocesani, aggiunti ad altre fonti come il Diario di Anna Del Monte, hanno portato a ragionare sulle conversioni degli ebrei come uno degli interessi primari condotti dalla Chiesa per oltre tre secoli”, afferma Martina Mampieri, dottoressa dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, di University of Pennsylvania e già di Hebrew University of Jerusalem.
“La fondazione di ghetti e le pesanti restrizioni economiche e sociali esercitarono fortissime pressioni sulle comunità ebraiche. Il cardinale Giampiero Carafa, ancor prima di diventare Papa, si era distinto come inquisitore e perseguitore del Talmud a Campo de Fiori nel 1553. Su suo consiglio, nel 1542 Paolo III istituiva la Sacra Congregazione della Romana Inquisizione. Appena un anno più tardi veniva approvata la Fondazione dei Catecumeni, istituendo due Case, una per gli uomini e una per le donne, per coloro che volevano convertirsi. Le Case rimasero operative dalla metà del XVI secolo fino all’Ottocento inoltrato” dice la dottoressa riassumendo brevemente il contesto storico per poi passare a quello territoriale, in particolare nelle Marche.
“Fuori da Roma, le prime Case di catecumeni furono a Venezia nel 1557, a Bologna nel 1568, a Ferrara nel 1584, a Mantova nel 1588, a Firenze nel 1636 e a Torino nel 1653. A Reggio Emilia nel 1633, mentre a Modena, sebbene le prime attività legate alle conversioni risalgono al 1583, la prima Casa si avrà solo nel 1700. Le Case ad Ancona e Pesaro, entrambe città con il ghetto, si avranno nel 1555 e nel 1634. Seppur il mantenimento delle Case dei catecumeni dipendeva da tasse imposte alle comunità ebraiche, la fondazione delle Case era fortemente promossa da nobili famiglie e supportata da donazioni e lasciti testamentari. A Pesaro, la Casa era già operativa prima del ghetto, nel 1611 una nobile donna di nome Tomassa donò un edificio proprio per questo fine. Per le conversioni avvenute ad Ancona non è possibile avere un’idea precisa del numero, mentre a Pesaro nel Seicento vennero convertite 40 anime, nel Settecento 39. Nell’Ottocento ci sono ancora quattro ghetti: Ancona, Pesaro, Urbino, Sinigallia. Fuori dalla Marca, oltre a quello di Roma, ci sono Ferrara, Lugo e Cento. Seppur gli ebrei non erano eretici in quanto non battezzati, nel 1581 la Costituzione di Gregorio XIII aveva autorizzato l’Inquisizione a procedere contro gli ebrei in determinate circostanze. Gli inquisitori potevano intervenire contro chi metteva in dubbio la religione cristiana, praticava sacrifici o magia, impediva la conversione di un catecumeno o un ebreo che volesse, teneva nutrici cristiane in casa, possedeva libri proibiti, come il Talmud. Questa normativa ampliava di molto la giurisdizione dell’Inquisizione, includendo non solo cristiani sospettati di eresia ma anche membri delle comunità non cristiane, come gli ebrei. Le conversioni potevano essere volontarie, motivate da ragioni sociali – esenzioni da tasse, possibilità di ereditare beni da convertiti. È un pregiudizio credere che solo gli ebrei poveri si convertissero, anzi” dice Mampieri.
“Il caso di Giuditta Terni di Ancona fu uno di quei casi di conversioni per ragioni amorose. Giovani ebrei sfuggivano alla patria potestas attraverso il battesimo, spesso gravati da pressioni sociali ed economiche. Nel 1813 la vedova Rebecca Levi si convertì con i suoi due figli nonostante la ferma opposizione del cognato. Questo episodio di Ancona riflette le tensioni comunitarie delle conversioni. I neofiti portavano al battesimo anche altri membri della famiglia, persuasi sia dai padri predicatori ma anche dalla prospettiva di migliorare la propria condizione sociale, oltre alle oblazioni, giustificate in nome del favor fidei e volte a negare la patria potestas dei genitori. Sotto Benedetto XIV si attribuiva alla promozione delle fede cattolica la prevalenza sopra ogni altro diritto, anche tollerando abusi e pratiche coercitive, ritenute legittime per la salvezza delle anime. Mosè Veneziani, offerto da due fratelli maggiori e trafugato da un’altra sorella che lo mandò nel ghetto di Ancona, venne prelevato e portato nella Casa dei catecumeni ma poiché non mostrò interesse nella conversione venne trasferito a Roma dove cedette al battesimo. Altri casi noti sono battesimi clandestini, somministrati da balie cristiane al servizio di famiglie ebree. Tali pratiche venivano svolte, per esempio, in casi di malattia e avvenivano all’oscuro dei genitori” spiega la dottoressa.
“Un caso simile a quello di Edgardo Mortara è la storia di Serena Levi, battezzata nel 1822 a Pesaro all’età di 2 anni da Caterina Sambuchi, sua nutrice. La famiglia informata dell’evento trasferì la bambina a Livorno. Sara Levi Nathan, sostenitrice di Mazzini e madre di Ernesto Nathan – che sarebbe diventato sindaco di Roma – è da identificarsi con la bimba di Pesaro di pochi anni prima. Le confessioni delle balie avvenivano anche in età avanzata. Nel 1811, nella Bologna priva di ghetto prima della Restaurazione, una giovane nipote della balia della famiglia Levi voleva battezzare il piccolo Angelo. Il bimbo venne prelevato solo nel 1824 e affidato ad un parroco bolognese. Nonostante numerose battaglie da parte della famiglia lui, come Mosè Veneziani 9 anni prima, cedette al battesimo. Un altro caso emblematico fu quello di Anna Costantini, battezzata in fasce dalla balia cristiana. Solo nel 1826, quando Anna aveva 18 anni e si preparava al matrimonio, la nutrice sul punto di morte confessò al prete di aver battezzato la bambina malata. Malgrado le proteste delle famiglie e comunità, Anna fu condotta alla Casta delle Maestre Pie dove rimase per quattro mesi prima di ricevere il battesimo. Questo caso fece molto rumore. Tuttavia questi casi non divennero noti come quello di Edgardo Mortara, vicenda che evidenziò il conflitto tra potere temporale del pontefice e l’idea di libertà individuale e tolleranza religiosa che si stavano affermando in Europa. Questi episodi di Ancona e Pesaro, meno conosciuti, rivelano come la pratica dei battesimi clandestini non fosse un fenomeno isolato ma incarnava le tensioni religiose, sociali e politiche di un’epoca in trasformazione, in un’area geografica di primo piano: la Marca di Ancona, posta tra i due centri dello Stato Pontificio, Roma e Bologna” conclude Mampieri.
Battesimi di ebrei durante le leggi razziali (1938-1943), di David Kertzer e Roberto Benedetti
L’intervento di David Kertzer, ricercatore della Brown University, condotto insieme a Roberto Benedetti, ricercatore indipendente, si basa sull’analisi dell’impatto che le leggi razziali all’epoca fascista ebbero sulla comunità ebraica italiana, rilevando che il fenomeno dei battesimi forzati su larga scala non fu semplicemente un evento limitato all’Europa tardo-medievale. Il fenomeno del battesimo forzato dei bambini, che gli storici hanno documentato nello Stato Pontificio e altrove in Italia durante tutta l’Età moderna e fino alla metà del XIX secolo, continuò, sebbene in forma parzialmente alterata, fino al XX secolo. L’analisi dei ricercatori si concentra su due aspetti del battesimo forzato degli ebrei, rivelati dai documenti dell’ufficio governativo fascista che supervisionava l’applicazione delle leggi razziali, la Demorazza.
Gli studiosi hanno illustrato come la minaccia di persecuzione da parte del governo spinse migliaia di ebrei italiani a precipitarsi alla fonte battesimale nella speranza di aggirare le nuove norme. “Sebbene infatti, almeno inizialmente, gli ebrei italiani nel 1938 non affrontassero la stessa minaccia di morte in caso di mancata conversione documentata per la Spagna del XIV e XV secolo, per migliaia di coloro che il governo aveva classificato come ebrei nel censimento dell’agosto del 1938 e quindi soggetti alle leggi razziali, il battesimo era uno strumento di salvezza, un potenziale mezzo per evitare la persecuzione e l’impoverimento. Ciò era possibile perché una percentuale sostanziale di coloro che inizialmente erano stati classificati come appartenenti alla cosiddetta “razza ebraica” e quindi da perseguitare era frutto di “matrimoni misti”, ossia avevano un genitore ebreo e uno cattolico. In base alle stesse leggi razziali, coloro i quali rientrassero in questa condizione potevano far modificare la propria “identità razziale” e diventare membri della “razza ariana”, a condizione che fossero riusciti a dimostrare di essere stati battezzati prima del 1° ottobre 1938”.
David Kertzer dice che al momento delle leggi razziali il governo italiano contava circa 48mila ebrei, circa lo stesso numero rilevato nel 1931. “Gli archivi dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane rivelano l’aumento vertiginoso di battesimi degli ebrei italiani innescato dalla campagna antiebraica, dati che sottostimano la reale portata del fenomeno. In Italia nei primi mesi del 1938 si registrano 3 battesimi al mese, mentre nei 5 mesi successivi dall’annuncio della campagna antiebraica di luglio dello stesso anno, 1309 ebrei vennero battezzati. Un documento successivo delle Comunità riferisce che nel 1936 vennero battezzati o abbandonarono la comunità solo 37 ebrei, nel 1937 furono 37. Nel 1938 ben 2231, l’anno successivo se ne contano altri 1649. Nell’agosto del 1938 venne ordinato il censimento degli ebrei, includendo tutti coloro che avevano almeno un genitore ebreo. Il censimento evidenziò l’alto tasso di matrimoni misti che aveva caratterizzato le generazioni precedenti. Nell’ottobre del 1940, il Sottosegretario Guferini Guidi inviò al Duce una relazione che recitava: «Gli ultimi accertamenti danno 39mila ebrei italiani presenti nel Regno (molti erano già scappati, ndr). Detti ebrei rappresentano oltre 10mila nuclei familiari dei quali 6820 erano matrimoni misti (quindi tutti i figli avevano la possibilità di essere categorizzati come “razza ariana”)». In realtà – spiega il ricercatore – non c’entrava nulla l’appartenenza nazionale, etnica o biologica: la questione era solo religiosa. «I nati da questi matrimoni – continua il rapporto – sono circa 13mila, di cui circa ¼ sono ebrei». Il numero totale di coloro che erano soggetti alle leggi razziali comprendeva anche gli adulti che a loro volta erano frutto di matrimoni misti. Loro potevano tentare di sfuggire alle persecuzioni dimostrando di essere battezzati prima del 1° ottobre del 1938. L’imposizione delle leggi razziali nel 1938 scatenò così un’ondata di appelli alla cosiddetta Demorazza da parte di coloro che sostenevano di avere un genitore cattolico, che chiedevano di essere classificati come non ebrei e di essere battezzati prima del 1° ottobre. Nel gennaio del 1942 la Demorazza aveva ricevuto 9647 ricorsi di cui una gran parte coinvolgeva diversi membri di una stessa famiglia, quindi il numero dei singoli casi è da considerare sensibilmente più alto” spiega David Kertzer.
Il ricercatore ci tiene a sottolineare, studiando i casi negli Archivi dello Stato, che trova molto interessante soprattutto essendo straniero come nell’archivio della Demorazza si trovano migliaia e migliaia di certificati di battesimo. “La documentazione è ecclesiastica” sottolinea Kertzer. “La corsa alla fonte battesimale causata dalle leggi razziali è una forma di battesimo forzato. I documenti della Demorazza rilevano la pratica continua dei battesimi di piccoli bambini di genitori ebrei nei primi decenni del XX secolo e negli ultimi decenni del XIX secolo. I venti casi di battesimo forzato di bambini esaminati sono emersi durante l’analisi di migliaia di queste richieste di cambiamento del proprio “status razziale”. L’annuncio della campagna antiebraica del luglio 1938 e delle leggi razziali nel settembre dello stesso anno, provocarono il battesimo di molti ebrei. Tuttavia, il fatto che la pratica ecclesiastica richiedesse di non battezzare adulti nell’età della ragione senza un insegnamento religioso significava che il battesimo stesso non veniva somministrato prima di 3 mesi dalla richiesta. Il risultato fu che un gran numero di richiedenti venne battezzato dopo il 1° ottobre, un termine che divenne noto solo dopo la riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 6 e 7 ottobre. I richiedenti battezzati dopo tale termine basavano il loro ricorso sul fatto che la loro identità cattolica, e quindi ariana, dovesse essere fatta risalire nel momento in cui erano divenuti catecumeni e non alla data dell’effettivo battesimo. Il Vaticano stesso fece pressione sulla Demorazza per adottare questo nuovo criterio nel segnare l’inizio della cristianità e quindi dell’appartenenza ariana. Tuttavia la Demorazza respinse questa richiesta e rigettò gli appelli” spiega il ricercatore.
“Un numero notevole di questi richiedenti respinti presentò nuove domande, riferendo di aver scoperto sorprendentemente che, a loro insaputa, erano stati battezzati da neonati o bambini piccoli senza il consenso dei genitori. Dei venti casi esaminati, cinque vi riuscirono. L’affermazione più comune era che la parte cattolica della famiglia avesse provveduto al precoce battesimo” conclude.
Sommersi e salvati nella Roma occupata (1943-1944), di Claudio Procaccia
L’obiettivo del contributo di Claudio Procaccia è stato quello di offrire i risultati delle più recenti ricerche relative al periodo dell’occupazione nazista di Roma e la ricaduta delle deportazioni e delle stragi naziste sulla collettività ebraica capitolina. “Tenendo in considerazione che circa l’80% degli ebrei presenti all’epoca nella capitale, o nelle aree limitrofe, sia riuscito a salvarsi dalle persecuzioni, sarà importante capire le dinamiche che produssero un tale risultato. Molti riuscirono a trovare rifugio nelle istituzioni religiose cattoliche ma gli ebrei ebbero anche un sorprendete aiuto da privati cittadini. Nella retata del 16 ottobre 1943, la maggioranza dei deportati furono donne, bambini ed anziani. In questo caso, i bambini sotto i 5 anni erano oltre il 10%. Dopo quella data, la fascia di età che si incrementa fu invece di giovani ed adulti. Questo perché in seconda battuta donne e bambini vennero nascosti. Una delle strategie per il salvataggio fu cambiare spesso luogo nel quale ci si nascondeva. Nella maggioranza delle case dei privati il soggiorno era gratuito e la richiesta di conversioni è stata piuttosto ridotta. Un’altra forma di strategia è stata quello dell’ospedale Fate bene Fratelli di Roma e l’invenzione del Morbo K, immaginato dai medici per nascondere gli ebrei. Gli ebrei salvati venivano da rioni limitrofi all’ospedale, ciò denota il rapporto territoriale e fiduciario tra individui, le persone si conoscevano e sapevano a chi rivolgersi. Anche questo aspetto ha comportato alla salvezza. Contestualmente, nella maggioranza dei casi, le deportazioni occorse dopo quella del 16 ottobre 1943 furono possibili a causa dell’intervento diretto di italiani collaborazionisti dei nazisti”. Claudio Procaccia delinea uno spaccato drammatico e pieno di apparenti contraddizioni ancora oggetto di forte interesse da parte di studiosi e non solo.
Infanzia durante l’Olocausto e ricerca storica: un resoconto personale, di Shimon Redlik
“Diversi dei bambini sopravvissuti alla Shoah che erano nati nella prima metà degli anni trenta sono diventati importanti storici dell’Olocausto” dice Shimon Redlik, storico israeliano sopravvissuto alla Shoah, specialista di Storia moderna degli ebrei nell’Europa dell’Est e dell’Unione Sovietica. “Dalit Dannenberg, dell’Università Ben Gurion, esamina questo gruppo di sopravvissuti diventati storici nella sua tesi per il dottorato. Da Otto Dov Kulka, nato in Cecoslovacchia nel 1933, che si è specializzato nell’antisemitismo tedesco e ha scritto anche una memoria della sua infanzia ad Auschwitz, a Saul Friedlander, nato in Cecoslovacchia nel 1932, e conosciuto per la sua opera storica in due volumi «La Germania nazista e gli ebrei». lo faccio parte dello stesso gruppo di storici dell’Olocausto”, dice Shimon Redlik.
“Sono nato in Polonia nel 1935 e ho passato la mia infanzia nella cittadina di Brzezany, che adesso si trova in Ucraina. Sono stato aiutato da una famiglia polacca e dopo salvato da una famiglia di contadini ucraini. Dopo la guerra ho trascorso la mia adolescenza a Lodz, prima di immigrare in Israele nel 1950. Nelle mie prime ricerche mi sono focalizzato sulla situazione degli ebrei in Unione sovietica durante l’Olocausto. Anch’io ho scritto una memoria in più volumi. L’argomento centrale del primo volume, «Insieme e separati in Brzezany: Polacchi, Ebrei ed Ucraini, 1919-1945» (2002), è il racconto di come sono sopravvissuto. In questo momento sto completando il quarto ed ultimo volume delle mie memorie. Ho anche esplorato la mia vita durante l’Olocausto e nell’immediato periodo postbellico nel film documentario “Il ritorno di Shimon”, che segue il mio cammino in Polonia ed Ucraina alla ricerca del mio passato. La mia infanzia felice a Brzezany e la liberazione da parte dell’Armata Rossa hanno influenzato profondamente, sia la mia decisione di diventare uno storico, che, successivamente ed in modo graduale, il mio coinvolgimento professionale nell’insegnare, fare ricerca e scrivere sul tema dell’Olocausto. Ho memorie molto nette, visive dell’occupazione sovietica dei Brzezany negli anni 1939-41, della ritirata sovietica e dell’invasione tedesca nel 1941, della mia vita nascosto e finalmente della liberazione. Tutto quello di cui porto testimonianza si basa non solo sui miei ricordi personali, ma anche su interviste con ebrei e non ebrei che si ricordano di quegli anni, ed anche sulla mia propria ricerca storica”, dice lo storico.
“Il mio coinvolgimento professionale nello studio dell’Olocausto si è sviluppato gradualmente. Le mie prime ricerche sugli ebrei sovietici in Russia durante la guerra non si occupavano dello sterminio degli ebrei sovietici nel territorio occupato dalla Germania. L’Olocausto non figura tra gli insegnamenti dei miei primi anni universitari. Non ho tenuto corsi sull’Olocausto sino al 1975, quando ho tenuto il primo all’Università di Pittsburg, in un anno sabbatico. Attribuisco a diversi fattori il mio coinvolgimento graduale nell’insegnare e fare ricerca sull’Olocausto. Questi fattori includono l’apertura dei confini dell’Europa orientale e della Russia negli ultimi anni 80, primi anni 90, l’avvio di contatti personali con coloro che mi hanno salvato in Polonia ed Ucraina negli stessi anni, e molti viaggi che ho fatto in Polonia, Ucraina, e Russia a partire dagli ultimi anni 80. Il mio approccio allo studio professionale dell’Olocausto ha sempre avuto una forte connotazione personale, a cominciare dal mio progetto su Brzezany e poi con la continuazione della mia ricerca sul metropolita ucraino Shepytsky, ricerca che mi ha spinto a tentare di farlo riconoscere da Yad Vashem come un Giusto tra le Nazioni”.
“Concluderei dicendo che il mio coinvolgimento nell’insegnamento e nella ricerca nel campo dell’Olocausto è sempre stato strettamente connesso alla mia biografia personale”, spiega lo storico.
Tentativi del Congresso Mondiale Ebraico nel dopoguerra per identificare bambini ebrei battezzati, di Monsignore Pierfrancesco Fumagalli
“Il primo a collocare gli ebrei nella condizione di servitù, collegata all’accusa di deicidio, fu la lettera di Costantino al termine del Consiglio di Nicea nel 325 che stabilì una condanna alla servitù e all’inimicizia totale”, dice Monsignore Fumagalli sottolineando il sentimento che già l’impero Romano nutriva nei confronti degli ebrei. “Da un punto di vista strettamente storico, non ci si può stupidire di questo sentimento antiebraico che puntualmente torna, seppur siano passati 60 anni dal Concilio Vaticano II. Superare questi millenni non sarà facile. L’auspicio di conversione degli ebrei era in uno dei progetti di Nostra aetate del Concilio, ma fu tolta. Poiché la voce di questo orientamento era corsa, a me dissero: “Se fosse così, sarebbe peggio della Shoah” e di questo non si parlò più.
Così Monsignore Fumagalli entra nell’argomento del Congresso Mondiale Ebraico, fondato nel 1936, che operò nel dopoguerra per cercare bambini ebrei rimasti orfani durante la Shoah educati in famiglie cattoliche e battezzati. Tra i protagonisti di questa iniziativa si distinse Gerhart Moritz Riegner che nel 1945 incontrò l’allora Sostituto della Segreteria di Stato della Santa Sede, monsignor Giovanni Battista Montini, poi divenuto Papa VI (1963-1978).
“Riegner aveva tentato di fermare il programma nazifascista di annientamento degli ebrei, parlando dei campi in un suo celebre telegramma”, dice monsignor Fumagalli. “Egli stesso ha rievocato i suoi sforzi per ritrovare i bambini ebrei orfani che durante la Shoah erano stati affidati a famiglie cattoliche poiché i genitori vennero barbaramente assassinati. Nei casi di bambini ebrei educati in famiglie cattoliche, ci si scontrava con un groviglio di valori: libertà di coscienza, legislazione vigente, rapporti tra Chiesa ed ebrei. Riegner constatò il disinteresse della Chiesa nel pubblicare un’enciclica sull’ebraismo, già sollecitata a Papa Pio XII dal Congresso nel 1945, e l’incomprensione della gravità della Shoah da parte dei vertici ecclesiastici” evidenza monsignore Fumagalli.
“Riegner – continua il monsignore – in una sua testimonianza diretta nel novembre del 1945 con il Sostituto della Segreteria di Stato vaticana, monsignor Giovanni Battista Montini poi Santo Paolo VI, tentò di spiegare di voler ricercare i bambini ebrei nascosti durante la Shoah per recuperarli affermando che il popolo ebraico aveva perso 1 milione e mezzo di bambini. Passato il pericolo, Riegner pensava che questi fanciulli avrebbero dovuto essere restituiti. Tra le due personalità, ci fu una discussione perché Montini non era convinto dell’effettiva catastrofe che fu la Shoah.
Nella sola Polonia – spiegava Riegner – durante la guerra nascevano 60 mila bambini ebrei all’anno, quindi alla fine della guerra ci sarebbero dovuti essere un milione di bambini. Ne furono trovati solo 3648 in tutto e per tutto. Nei territori dell’Ungheria, quelli annessi da Hitler, prima della catastrofe si contavano 800mila ebrei. Nelle province erano circa 400mila, quindi stando alle statistiche 100 mila dovevano essere bambini. Dopo la guerra, nell’intera provincia ungherese se ne ritrovarono 8. Monsignor Montini rispose che era impossibile aver subito questa perdita e che probabilmente gli ebrei mancanti erano emigrati. Dove sarebbero andati? E in che modo? In tutta Europa l’emigrazione era proibita – ribatté Riegner. Solo in quel momento, forse, Montini aveva compreso la grandezza della nostra catastrofe: sei milioni di ebrei erano stati massacrati e ciò comportava la perdita di 1 milione e mezzo di bambini. La sua reazione voleva dire che né lui né tutta la burocrazia della chiesa cattolica avevano compreso ciò che era accaduto. Ancora dopo la guerra esisteva l’ignoranza di quello che era successo”.
In conclusione, Monsignor Fumagalli narra di un incontro avvenuto alla fine di una riunione dell’assemblea del Servizio Studentesco Internazionale nel 1953, presieduta da Riegner e svoltasi a Grenoble in Francia. Lì Riegner incontrò un uomo ebreo, il signor Keller, che gli raccontò di un rapimento di bambini. Erano giovani ebrei austrici che erano stati affidati ad una donna cattolica, la signora Brun, prima della deportazione. Due zie reclamavano la restituzione dei bambini ma la signora Brun si rifiutava di darli loro e li aveva fatti battezzare. Il signor Keller, l’interlocutore di Riegner, aveva intentato un processo e così la signora Brun aveva fatto sparire i bambini affidandoli a dei preti baschi per tenerli nascosti in Spagna. Riegner sentendo tale storia stentava a crederci: dopo il caso Mortara, risalente ad un secolo prima, non poteva credere che una dinamica simile si stesse ripetendo in Europa a metà del Novecento. Il signor Keller lamentava che le associazioni ebraiche a Parigi si fossero disinteressate del caso, che grazie alla figura di Riegner scoppiò a livello internazionale. Alla fine i bimbi vennero restituiti e divennero cittadini israeliani” conclude la spiegazione della vicenda monsignore Fumagalli. La questione passò alla storia con il nome di Affaire Finaly, dal cognome dei due fratelli Robert e Gerald Finaly.