Parashat Vayishlach. La fede, un viaggio continuo

Parashà della settimana

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Perché Giacobbe è il padre del nostro popolo, l’eroe della nostra fede? Noi siamo “la comunità di Giacobbe”, “i figli di Israele”. Eppure è stato Abramo a iniziare il cammino ebraico, Isacco a essere disposto al sacrificio, Giuseppe a salvare la sua famiglia negli anni della carestia, Mosè a condurre il popolo fuori dall’Egitto e a darne le leggi. Fu Giosuè a portare il popolo nella Terra Promessa, Davide a diventarne il più grande re, Salomone a costruire il Tempio e i profeti che, attraverso i secoli, divennero la voce di Dio.

Il racconto di Giacobbe nella Torà sembra essere inferiore a queste altre vite, almeno se leggiamo il testo alla lettera. Ha rapporti tesi con il fratello Esaù, con le mogli Rachel e Leah, con il suocero Labano e con i tre figli maggiori, Ruben, Simone e Levi. Ci sono momenti in cui sembra pieno di paura, altri in cui agisce – o almeno sembra agire – con meno di una totale onestà. Rispondendo al Faraone, dice di sé: “I giorni della mia vita sono stati pochi e difficili” (Genesi 47:9). È meno di quanto ci si possa aspettare da un eroe della fede.

Ecco perché gran parte dell’immagine che abbiamo di Giacobbe è filtrata attraverso la lente del Midrash, la tradizione orale conservata dai Saggi. In questa tradizione, Giacobbe è tutto buono, Esaù tutto cattivo. Doveva essere così – sosteneva Rabbi Zvi Hirsch Chajes (1805-1855) nel suo saggio sulla natura dell’interpretazione del midrash – perché altrimenti avremmo avuto difficoltà a trarre dal testo biblico un chiaro senso di giusto e sbagliato, di buono e cattivo. La Torà è un libro eccezionalmente impercettibile, e i libri così tendono a essere fraintesi. Così la Tradizione orale ha semplificato le cose: bianco e nero invece di sfumature di grigio.

Tuttavia, forse, anche senza il Midrash, possiamo trovare una risposta – e il modo migliore per farlo è pensare all’idea di un viaggio. L’ebraismo parla di fede come di un viaggio. Inizia con il viaggio di Abramo e Sara, che si lasciano alle spalle la loro “terra, il luogo di nascita e la casa paterna” e viaggiano verso una destinazione sconosciuta, “la terra che ti mostrerò”.
Il popolo ebraico è definito da un altro viaggio, in un’epoca diversa: il viaggio di Mosè e degli israeliti dall’Egitto attraverso il deserto fino alla Terra Promessa. Quel viaggio diventa una litania nella parashà di Masè: “Partirono da X e si accamparono in Y. Partirono da Y e si accamparono in Z”. Essere ebrei significa muoversi, viaggiare e solo raramente, se non mai, stabilirsi. Mosè mette in guardia il popolo dal pericolo di stabilirsi e di dare per scontato lo status quo, anche nello stesso Israele: “Quando avrete figli e nipoti e vi sarete stabiliti nel paese per molto tempo, potreste diventare decadenti”. (Deuteronomio 4:25)

Da qui le regole per cui Israele deve sempre ricordare il suo passato, non dimenticare mai gli anni di schiavitù in Egitto, non dimenticare mai a Succot che i nostri antenati un tempo vivevano in abitazioni temporanee, non dimenticare mai che la terra non è di nostra proprietà – appartiene a Dio – e che noi siamo lì solo come gherim ve-toshavim di Dio, “stranieri e residenti di Dio” (Levitico 25:23).

Perché? Perché essere ebrei significa non essere pienamente a casa nel mondo. Essere ebrei significa vivere nella tensione tra cielo e terra, tra creazione e rivelazione, tra il mondo che è e il mondo che siamo chiamati a creare; tra esilio e casa, tra l’universalità della condizione umana e la particolarità dell’identità ebraica. Gli ebrei non stanno fermi se non quando si trovano davanti a Dio. L’universo, dalle galassie alle particelle subatomiche, è in costante movimento, e così l’anima ebraica.

Siamo, crediamo, in una combinazione instabile di polvere della terra e respiro di Dio e questo ci chiama costantemente a prendere decisioni, a fare scelte, che ci faranno crescere fino a diventare grandi come i nostri ideali o, se scegliamo male, ci faranno raggrinzire in piccole e petulanti creature ossessionate dalla banalità. La vita come viaggio significa sforzarsi ogni giorno di essere più grandi del giorno prima, individualmente e collettivamente.

Se il concetto di viaggio è una metafora centrale della vita ebraica, qual è la differenza tra Abramo, Isacco e Giacobbe?

La vita di Abramo è incorniciata da due viaggi che utilizzano entrambi la frase Lech Lechà, “intraprendere un viaggio”: una volta in Genesi 12 quando gli viene detto di lasciare la sua terra e la casa paterna, l’altra in Genesi 22:2 al momento della legatura di Isacco, quando gli viene detto “Prendi tuo figlio, l’unico che ami – Isacco – e vai [lech lecha] nella regione di Moriah”.

Ciò che è così commovente in Abramo è che egli va, immediatamente e senza fare domande, nonostante il fatto che entrambi i viaggi siano strazianti in termini umani. Nel primo deve lasciare suo padre. Nel secondo deve lasciare suo figlio. Deve dire addio al passato e rischiare di dire addio al futuro. Abramo è fede pura. Ama Dio e si fida assolutamente di Lui. Non tutti possono raggiungere questo tipo di fede. È quasi sovrumana.

Isacco è l’opposto. È come se Abramo, conoscendo i sacrifici emotivi che ha dovuto fare, conoscendo anche il trauma che Isacco deve aver provato al momento della “Legatura”, cercasse di proteggere suo figlio per quanto è in suo potere. Si assicura che Isacco non lasci la Terra Santa (cfr. Genesi 24:6 – per questo Abramo non lo lasciò viaggiare per cercare una moglie). L’unico viaggio di Isacco (nella terra dei Filistei, in Genesi 26) è limitato e locale. La vita di Isacco è una breve tregua rispetto all’esistenza nomade di Abramo e Giacobbe.

Giacobbe è ancora diverso. Ciò che lo rende unico è che ha i suoi incontri più intensi con Dio – sono i più drammatici di tutto il libro della Genesi – nel mezzo del viaggio, da solo, di notte, lontano da casa, fuggendo da un pericolo all’altro, da Esaù a Labano nel viaggio di andata, da Labano a Esaù nel ritorno.

Nel mezzo del primo viaggio ha la rivelazione sfolgorante della scala che si estende dalla terra al cielo, con gli angeli che salgono e scendono, che lo porta a dire al risveglio: “Dio è veramente in questo luogo, ma io non lo sapevo…”. Questa deve essere la casa di Dio e questa la porta del cielo” (Genesi 28:16-17). Nessuno degli altri patriarchi, nemmeno Mosè, ha una visione simile.

Il secondo viaggio, nella nostra Parashà, ha l’inquietante ed enigmatico incontro di lotta con l’uomo/angelo/Dio, che lo lascia zoppicante ma trasformato in modo permanente – l’unica persona nella Torà che ha ricevuto da Dio un nome completamente nuovo, Israele, che può significare “uno che ha lottato con Dio e con gli uomini” o “uno che è diventato un principe [sar] davanti a Dio”.

L’aspetto affascinante è che gli incontri di Giacobbe con gli angeli sono descritti dallo stesso verbo – פגע’ -‘p-g-‘a, (Genesi 28:11 e Genesi 32:2) che significa “un incontro casuale”, come se avessero colto Giacobbe di sorpresa, cosa che evidentemente fecero. I momenti più spirituali di Giacobbe sono quelli che non aveva pianificato. Pensava ad altre cose, a ciò che si lasciava alle spalle e a ciò che lo aspettava. È stato, per così dire, “sorpreso da Dio”.

Giacobbe è una persona con cui possiamo identificarci. Non tutti possono aspirare alla fede amorevole e alla fiducia totale di Abramo o alla solitudine di Isacco. Ma Giacobbe è una persona che possiamo capire. Possiamo sentire la sua paura, comprendere il suo dolore per le tensioni nella sua famiglia e simpatizzare con il suo profondo desiderio di una vita di quiete e di pace (i Saggi dicono, a proposito dell’incipit della Parashà della prossima settimana, che “Giacobbe desiderava vivere in pace, ma fu immediatamente spinto nei problemi di Giuseppe”).

Il punto non è solo che Giacobbe è il più umano dei patriarchi, ma piuttosto che, nel profondo della sua disperazione, viene innalzato alle più alte vette della spiritualità. È l’uomo che incontra gli angeli. È la persona sorpresa da Dio. È colui che, proprio nei momenti in cui si sente più solo, scopre di non esserlo, che Dio è con lui, che è accompagnato dagli angeli.

Il messaggio di Giacobbe definisce l’esistenza ebraica. Il nostro destino è viaggiare. Siamo un popolo inquieto. Rare e brevi sono state le nostre parentesi di pace. Ma nel buio della notte ci siamo trovati sollevati da una forza di fede che non sapevamo di avere, circondati da angeli che non sapevamo esistessero. Se camminiamo sulla via di Giacobbe, anche noi possiamo trovarci sorpresi da Dio.

Redazione Rabbi Jonathan Sacks zz

 

(Foto: Gustave Doré, Jacob Wrestling with the angel, 1855)