di Pietro Baragiola
“Ho fatto un film sull’esperienza più disumanizzante che abbia mai dovuto affrontare. Ed ero così concentrata sull’essere donna e sul raccontare una storia al femminile che ho dimenticato di essere israeliana ed ebrea, il che, oggi, comporta un ulteriore tipo di discriminazione in questa industria”. Quella della israeliana Shoval Tshuva è solo una delle esperienze di boicottaggio subita da un membro israeliano della industry dell’intrattenimento raccolte in un articolo del 5 dicembre pubblicato sulla rivista americana Variety. Dal 7 ottobre 2023, questi numerosi creativi hanno lamentato di aver perso importanti collaborazioni, posti di lavoro e finanziamenti e i loro progetti sono stati intenzionalmente esclusi da molti prestigiosi festival cinematografici in tutto il mondo.
Nel corso della sua intervista a Variety, Shosha Tshuva ha raccontato di come il suo cortometraggio Funky, incentrato sulla sua personale esperienza di vittima di una violenza sessuale, sia stato escluso da diverse competizioni.
L’anno scorso il Sundance Film Festival ha rifiutato Come Closer (nella foto in alto), il nuovo film della regista israeliana Tom Nesher che narra di una giovane donna alle prese con l’improvvisa morte del fratello. Lo stesso film è stato inizialmente rifiutato dal Tribeca Film Festival all’inizio del 2024 ma la decisione è stata rivista dopo l’intervento dell’amministratore delegato di Tribeca Enterprises, Jane Rosenthal.
Oggi Come Closer non è solo il vincitore del Viewpoints Award del Tribeca 2024 ma è diventato il rappresentante israeliano per la 97° edizione degli Academy Awards.
L’avvocato hollywoodiano Craig Emanuel, consulente della Ryan Murphy Productions e di diversi festival cinematografici internazionali, ha spiegato nei dettagli a Variety il fenomeno del boicottaggio culturale anti-israeliano.
“Durante la mia partecipazione al Festival di Gerusalemme lo scorso luglio, numerosi registi e produttori mi hanno confermato che gli organizzatori dei principali festival del mondo non si sentono più a loro agio nell’accettare film o documentari israeliani per paura di suscitare polemiche o di incitare manifestazioni violente” ha affermato Emanuel. “Questo vale indipendentemente dal fatto che il film in questione sia politico o meno. Personalmente non la ritengo una cosa sana né per la nostra industria né per la nostra società.”
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Il boicottaggio culturale israeliano
A ottobre l’Exeter Dance International Film Festival ha ritirato dalla propria competizione il progetto del coreografo israeliano Dor Eldar, girato in onore delle vittime del Nova Music Festival.
Il film, intitolato Rave, è stato ritirato dalla programmazione a sole due settimane dall’apertura del concorso.
In un’intervista rilasciata al sito britannico Jewish News, Eldar ha espresso il suo ‘grande shock e disappunto’ per l’accaduto, specialmente dopo che gli organizzatori lo avevano invitato a partecipare di persona al festival.
Della durata di due minuti e mezzo, Rave inizia con una scena che mostra alcuni uomini mentre caricano diverse donne su un camion, ricreando così gli eventi del 7 ottobre.
Gli organizzatori del festival avevano inserito questo progetto etichettandolo come ‘film sul conflitto israelo-palestinese’, una descrizione che il regista ha più volte contestato, ma successivamente hanno informato Eldar via email che avrebbero ritirato il suo corto dalla competizione citando come causa le loro preoccupazioni per la ‘natura controversa e conflittuale dei temi trattati’.
“Non boicottiamo i film israeliani” hanno affermato gli organizzatori nell’email. “Ma abbiamo deciso di fermare qualsiasi progetto che commenti specificamente gli eventi che hanno avuto un impatto sui conflitti presenti nel mondo.”
Anche il Toronto Film Festival è entrato nell’occhio del ciclone mediatico per aver inserito nella sua competizione un unico progetto israeliano, il dramma Bliss di Shemi Zarhin, mentre non ha esitato ad includere ben quattro film di registi palestinesi.
Non tutti i festival internazionali però hanno condiviso questo boicottaggio mirato e, anzi, diversi hanno usato questo clima di ostilità verso Israele per sottolineare l’importanza dell’imparzialità come criterio di valutazione del cinema.
Venezia contro il boicottaggio
Nel corso dell’81° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, tenutasi a settembre, gli organizzatori hanno ricevuto una lettera firmata da oltre 300 esponenti dell’industria del cinema con l’invito di non proiettare i due film israeliani in gara: Why War di Amos Gitai e Of Dogs and Men di Dani Rosenberg.
Questa lettera è stata pubblicata sul sito di Artists for Palestine Italia e sostiene che i due film siano stati realizzati da ‘case di produzione israeliane complici nell’imbiancare l’oppressione di Israele contro i palestinesi a Gaza’, condannando come ‘inaccettabile e immorale’ la decisione di presentare questi progetti.
Nella sua intervista rilasciata a Deadline, il direttore del festival Alberto Barbera ha esordito che, come molti altri grandi concorsi internazionali, la Mostra del Cinema di Venezia si mantiene neutrale nelle questioni di guerra.
“Siamo uno spazio aperto a tutti, persino a persone con opinioni politiche diverse” ha affermato Barbera. “Mostriamo film che mettono in evidenza punti di vista distinti su ogni tipo di questione. Penso però che abbiamo visto molte manifestazioni a favore dei palestinesi in tutto il mondo, ma mai nessuna per gli ostaggi e non dobbiamo dimenticare il massacro del 7 ottobre che ha scatenato il conflitto”.
In risposta a questo continuo boicottaggio, Liat Benasuly, produttrice della serie tv Fauda, sta incoraggiando sempre più sostenitori a mostrare il loro supporto donando all’organizzazione “Friends of The Israeli TV & Film Producers Association”, per riportare in auge il cinema israeliano.