di Sofia Tranchina
Sono proprio le mamme le prime vittime del terrorismo psicologico di Hamas, l’organizzazione terroristica che gestisce i negoziati spostando nomi propri di persona tra la lista dei condannati e la lista di chi verrà liberato. Costrette a implorare compromessi difficili mentre il destino dei loro figli è una pedina nelle mani di chi governa, vengono trasformate in strumenti di pressione nel disegno utilitarista di Hamas, e sono in prima linea nella lotta per riportarli a casa.
Un pick-up nero brillante, come un’ombra d’acciaio, avanza lentamente tra un formicaio di uniformi mimetiche: un veicolo potente ed elegante circondato da uomini che brandiscono il caos come un’arma. È il Dodge Ram 2500 di Eitan Horn, ostaggio israeliano portato via insieme a suo fratello Iair e trascinato a Gaza in quell’altrettanto nero 7 ottobre. Ora, i suoi aguzzini lo hanno trasformato in un trofeo, : con un’intelligenza crudele, in una mossa studiata per umiliare sia le vittime che la nazione che odiano, hanno scelto proprio questo veicolo per portare Iair alla cerimonia del suo rilascio il 15 febbraio. Il messaggio è chiaro, sibilante nel ruggito sommesso del motore: “Tu sei libero, ma tuo fratello resta nei nostri sotterranei”.
È stata Rotem Nechemya a riconoscere il veicolo dalle immagini della cinica cerimonia: «Poco prima del 7 ottobre abbiamo venduto l’auto di mio padre a un ragazzo adorabile di nome Eitan. Il 7 ottobre abbiamo scoperto che Eitan era stato rapito, ma non sapevamo che il veicolo era stato portato via con lui», ha raccontato su X.
Ma di minaccia ce n’è un’altra, più esplicita, più incombente: al momento del suo rilascio, Iair è stato costretto a stringere tra le mani una clessidra, incastonata su una base verde. Sulla superficie, due volti noti: Matan Zangauker, ancora recluso, e sua madre Einav (nella foto a sinistra), divenuta il simbolo delle famiglie che lottano per riportare a casa i propri cari, accompagnati dall’incisione «Il tempo sta per scadere».
Una minaccia che lascia poco spazio all’interpretazione: il destino dei rapiti trattenuti nel sottosuolo di Gaza è appeso agli interessi mutevoli dei loro carcerieri, pronti a spezzarlo in qualsiasi momento. Il messaggio è diretto alle mamme: “se volete rivedere i propri figli vivi, dovete intensificare la pressione sul governo, e piegarlo a ogni condizione”.
E sono proprio le mamme le prime vittime del terrorismo psicologico di Hamas, l’organizzazione terroristica che gestisce i negoziati spostando nomi propri di persona tra la lista dei condannati e la lista di chi verrà liberato. Costrette a implorare compromessi difficili mentre il destino dei loro figli è una pedina nelle mani di chi governa, le mamme vengono trasformate in strumenti di pressione nel disegno utilitarista di Hamas, che punta ad approfondire la spaccatura della società israeliana; e man mano che emergono nuovi preoccupanti dettagli sulle condizioni dei rapiti, le mamme sono in prima linea nella lotta per riportarli a casa.
La storia di Elyia Cohen e il racconto della sua compagna sopravvissuta
Dopo aver saputo che suo figlio Eliya Cohen è incatenato da oltre un anno e quattro mesi, sottoposto a gravi abusi fisici e mentali, e sopravvive in un tunnel buio, privato della luce del sole, con una ferita da arma da fuoco alla gamba mai curata, Sigi Cohen ha denunciato con parole cariche di disperazione e rabbia l’indifferenza dei politici che si oppongono all’accordo. «Smotrich, Ben-Gvir e tutti quelli che non vogliono accordi: scambiatevi il posto con me, nessun problema. Date i vostri figli a Hamas. Io non sono disposta a sacrificare mio figlio», ha detto.
Il rilascio di Eliya Cohen, 27 anni, è previsto per sabato 22 febbraio. Il 7 ottobre 2023 Eliya aveva lasciato la casa in cui viveva a Gerusalemme con i genitori e le tre sorelle, per andare al Nova festival con la sua compagna da otto anni Ziv Abud – che aveva da poco accettato la sua proposta di matrimonio – insieme ad Amit e Karin, due amici. Durante l’attacco dei militanti gazawi, i quattro si sono riparati in un rifugio antibomba poi rinominato rifugio della morte: i terroristi l’hanno circondato e ci hanno lanciato granate dentro, per poi sparare a chi tentava di uscirne.
Amit e Karim sono stati uccisi lì, mentre Ziv, nascosta sotto il macabro peso dei corpi senza vita degli amici, è riuscita a sopravvivere. In un incontro privato con la stampa internazionale, Ziv ci ha raccontato che mentre alcuni militanti caricavano Elyia sul camion e lo portavano via, altri stavano sparando all’interno del rifugio, nella sua direzione: «Probabilmente lui mi ha vista a terra e ha pensato che fossi morta». Eliya infatti, che è stato tenuto isolato dal mondo esterno per tutto il tempo non sa ancora che la fidanzata è sopravvissuta, e credendola morta – quando ha chiesto ai compagni di reclusione in procinto di essere liberati di portare un messaggio a sua madre – non ha lasciato detto niente per lei.
«Ora che conosciamo le reali condizioni, terribili, in cui è tenuto Elyia – incatenato alla gamba ferita e mai curata, dimagrito di una ventina di chili, al buio – è difficile andare avanti», racconta Ziv. Che programmi avete per quando tornerà? «Voglio credere che Elyia sia ancora il mio Elyia, che condivideremo ancora le stesse passioni, la voglia di viaggiare e di ballare. Ma dopo così tanto tempo in cui gli è stato detto che cosa fare e che cosa non fare, quando tornerà avrà il permesso di decidere da solo cosa vuole, e io lo accompagnerò in quel percorso», risponde con la voce spezzata Ziv.
Elyia rimane con Alon Ohel, un altro ostaggio che versa in condizioni critiche. Sua madre Idit (a destra nella foto) è stata informata che per mesi il figlio non ha ricevuto alcuna cura nonostante le schegge conficcate nella spalla, nel braccio e nell’occhio, lasciandolo parzialmente cieco. Costretto a dormire sul pavimento, con una sola coperta da condividere in condizioni di privazione estrema, il suo nome non compare nelle liste degli ostaggi da liberare: è rimandato alla nebulosa e incerta “seconda fase” del ricatto.
Lo stesso vale per Nimrod Cohen, che, segregato in un tunnel per la maggior parte del tempo, versa in condizioni fisiche e mentali drammatiche, come spiega sua madre, Vicky Cohen.
Da un lato, le madri hanno avuto così conferma che i loro figli sono ancora vivi—una notizia che, in un contesto diverso, sarebbe solo di sollievo. Dall’altro, le condizioni in cui si trovano i figli, sepolti vivi nei meandri dell’orrore, rendono questa consapevolezza un ulteriore supplizio.
Le difficoltà della riabilitazione
La dottoressa Einat Yehene, neuropsicologa clinica responsabile della riabilitazione nella divisione sanitaria del Forum delle Famiglie degli Ostaggi, descrive questo fenomeno come una «perdita ambigua, ovvero l’incertezza prolungata sulle condizioni dei propri cari». Senza nessuna chiusura né chiarezza, le vite delle famiglie rimangono sospese in un tempo congelato: il lungo 7 ottobre. Il paradosso emotivo in cui si trovano porta confusione e ansia cronica, in un limbo tra speranza e disperazione che ostacola l’elaborazione del lutto.
Anche gli ostaggi liberati faticano a riabilitarsi, sopraffatti dal senso di colpa per chi è rimasto indietro e dai lutti personali.
Le testimonianze recenti hanno portato alla luce un quadro di maltrattamenti sistemaci: i rapiti venivano strangolati, immobilizzati con gli arti legati, imbavagliati fino al soffocamento, marchiati con oggetti incandescenti, affamati, feriti e lasciati senza cure.
Ben Ami, Eli Sharabi e Or Levy hanno raccontato di aver ricevuto in pasto solo una pita ammuffita ogni tanto, da dividere tra loro. I carcerieri mangiavano di fronte a loro, esacerbandone la fame, e a volte li costringevano a scegliere chi tra loro avrebbe potuto mangiare. Or Levy, per esempio, ha perso circa 20 chilogrammi di peso corporeo, nonostante negli ultimi giorni prima del rilascio sia stato ingozzato forzatamente: un tentativo di Hamas di migliorarne l’aspetto e così la propria immagine pubblica. Dopo aver visto gli ostaggi emaciati uscire da Gaza, «sono riaffiorate memorie traumatiche dai momenti più bui della storia ebraica», ha spiegato la dottoressa Einat Yehene, «dopo tutti questi giorni, tutti gli ostaggi ancora a Gaza siano casi umanitari e devono essere rilasciati immediatamente».
Ma non è solo la fame a raccontare l’orrore e la privazione estrema subiti: tenuti scalzi per tutto il tempo, avevano il permesso di fare la doccia solo una volta ogni tre mesi, e per espletare i bisogni più di una volta al giorno dovevano supplicare i rapitori, che giocavano con i loro diritti come giocavano con le loro menti, illudendoli con false speranze di una liberazione imminente, per poi lasciarli sprofondare ancora una volta nella disperazione. Poi gli aguzzini li sottoponevano ai video delle dichiarazioni dei politici israeliani contrari agli accordi sugli ostaggi, insinuando con cinismo: «Non vogliono farvi uscire».
Erano tenuti in un tunnel così stretto e soffocante da non poter stare in piedi: «ero legato in un tunnel buio, senza aria, senza luce. Non potevo camminare né alzarmi. Solo poco prima del rilascio mi hanno tolto le catene, e ho dovuto imparare di nuovo a camminare», ha raccontato un ostaggio liberato a condizione di restare anonimo.
Yarden Bibas e Ofer Kalderon hanno raccontato di essere stati inizialmente tenuti rinchiusi in delle gabbie di metallo e picchiati ripetutamente.
I crimini di Hamas
«Hamas è un nemico crudele, e non esiterà a fare del male a chi resta indietro», ha spiegato Ofer Kalderon attingendo alla sua esperienza personale: «Non dobbiamo fermare l’accordo attuale, dobbiamo continuare a lottare per liberare tutti gli ostaggi».
Già l’11 settembre 2024 la Commissione Indipendente Internazionale d’Inchiesta delle Nazioni Unite ha riconosciuto che «Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno commesso crimini di guerra, tra cui tortura, trattamenti inumani o crudeli, stupro e violenza sessuale».
La commissione – con il contributo di un patologo forense indipendente – ha identificato i segni evidenti di strangolamento e lacerazioni compatibili con torture sui corpi di alcuni ostaggi che Hamas aveva falsamente dichiarato “morti a causa dei bombardamenti israeliani”. Hamas ha impedito qualsiasi accesso al Comitato Internazionale della Croce Rossa, non ha mai fornito un elenco comprensivo degli ostaggi e della loro condizione, e ha usato i rapiti come strumenti di propaganda, costringendoli a partecipare a video manipolatori per infliggere ulteriore sofferenza alle loro famiglie.
Il rapporto indipendente dell’ONU documenta anche il coinvolgimento dell’ospedale al Shifa nelle operazioni terroristiche di Hamas: delle fotografie mostrano il corpo rapito di un israeliano ucciso depositato dentro l’ospedale al Shifa, insieme a diversi veicoli israeliani rubati da Nahal Oz e usati per trasportare gli ostaggi.
La Commissione ha affermato anche di aver ricevuto prove credibili di ostaggi sottoposti a violenze sessuali durante la reclusione, e ritiene che la maggior parte degli ostaggi sia stata deliberatamente maltrattata con violenze fisiche, abusi, violenze sessuali, isolamento forzato, accesso limitato a strutture igieniche, acqua e cibo, minacce e umiliazioni, per infliggere loro dolore fisico e sofferenza mentale grave.
Amit Soussana, ostaggio liberato a novembre scorso, ha rivelato al New York Times le violenze subite: segregata in una stanza per bambini decorata con immagini di SpongeBob, incatenata alla caviglia sinistra, è stata violentata sotto minaccia di pistola dopo dal suo guardiano, che l’aveva preventivamente interrogata riguardo al suo ciclo mestruale. Trasferita poi in un’altra location, è stata picchiata e torturata. Dopo il rilascio, il referto medico di Amit ha riportato fratture all’orbita oculare, alla guancia, al ginocchio e al naso, oltre a gravi contusioni alla schiena e alle gambe.
Il suo caso non è isolato: altre donne sono state costrette a spogliarsi sotto lo sguardo dei guardiani e, in alcuni casi, a subire molestie. Due adolescenti israeliani hanno raccontato di essere stati costretti a compiere atti sessuali e di essere stati frustati ai genitali, e hanno riportato cicatrici profonde, lividi, e lacerazioni compatibili con traumi violenti.
Altri bambini rilasciati presentavano ustioni sugli arti inferiori, segni di marchiature deliberate con ferro zincato rovente, e, nonostante l’età infantile, sono sadisticamente stati costretti a guardare i video dei massacri del 7 ottobre.
Nel cuore di un conflitto che lacera l’anima di una nazione, emergono storie che incarnano sia l’orrore della prigionia sia la complessità morale di una società in guerra.
Arbel Yehoud, dopo 482 giorni di isolamento totale, è tornato in una realtà amaramente diversa da quella che si aspettava. Le sue prime, disilluse dichiarazioni rivelano il peso del dibattito pubblico sugli ostaggi:
«Pensavo che i miei rapitori volessero solo terrorizzarmi, dicendo che gli ostaggi erano diventati una questione politica. Non ci ho creduto finché non sono tornato in Israele e mi sono trovato di fronte a questa dura realtà. Potete immaginare gli orrori che ho vissuto, e ora sono determinato a lottare per il rilascio di Ariel, il mio amore, David, suo fratello, e di tutti gli altri ancora detenuti».
Ogni secondo di esitazione non è solo un prolungamento della sofferenza per chi è ancora in mano agli aguzzini gazawi, ma un attentato diretto alla loro stessa incolumità.
Eppure, al netto dell’orrore emerso dalle testimonianze di chi è tornato a casa, in Israele si levano voci che invitano a una riflessione più profonda. Moria Shlomot, in un articolo su Haaretz, esorta la società a guardarsi allo specchio con onestà:
«È impossibile essere indignati per la fame come metodo e politica solo quando è rivolta contro di noi e la nostra gente. Se sei indignato per la fame, devi esserlo anche quando siamo noi a far morire di fame gli altri. Al nostro cuore è permesso andare dove vuole. Ha il diritto di rompersi in modo soggettivo, parziale, tendenzioso ed egoistico. Ma ciò che al cuore è permesso di fare, non è permesso al resto delle nostre componenti come esseri umani completi con integrità, coscienza, buon senso e un obbligo anche verso qualcuno che non è uno di noi. Questa guerra maledetta deve finire con tutti gli ostaggi a casa, e con l’inizio di una discussione seria, senza fantasie assurde sul futuro della Striscia di Gaza».
La tragedia degli ostaggi e le sofferenze degli arabi palestinesi sono due facce di un conflitto che continua a mietere vittime su entrambi i fronti. Un’ulteriore ferita al tessuto morale di una nazione, obbligata ad affrontare quesiti difficili, come conciliare la sicurezza nazionale con il rispetto dei diritti umani laddove israeliani – ebrei, arabi e altri – vivono gomito a gomito con gruppi che vedono nel jihadismo islamico militante l’unica via per migliorare la propria esistenza.
Il tempo stringe e la guerra si trascina con il suo carico di dolore e divisione, mente le voci dei critici interni risuonano con un appello urgente: non basta sopravvivere. È necessario trovare il coraggio di tracciare una strada che conduca a una pace reale, fondata sul rispetto reciproco e sulla giustizia.