Parashat Mishpatim. La schiavitù, punto di partenza per la conquista della libertà

Parashà della settimana

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Un principio fondamentale del rapporto di Dio con noi è che egli non ci costringe a cambiare più velocemente di quanto sia possibile per nostra libera scelta. Quindi Mishpatim non abolisce la schiavitù, ma mette in moto una serie di leggi fondamentali che porteranno le persone, anche se con il loro ritmo, ad abolirla di propria volontà.


Nella parashà di Mishpatim assistiamo a una delle grandi caratteristiche stilistiche della Torà, ovvero il suo passaggio dalla narrazione alla codifica della legge. Fino ad ora, il Libro dell’Esodo è stato principalmente una narrazione: la storia della schiavitù degli israeliti e del loro viaggio verso la libertà. Ora segue una legislazione dettagliata, la “costituzione della libertà”.

Non si tratta di una coincidenza, ma di un elemento essenziale. Nel giudaismo, la legge nasce dall’esperienza storica del popolo. L’Egitto è stato la scuola dell’anima del popolo ebraico; la memoria è stata il suo seminario permanente sull’arte e il mestiere della libertà. Ha insegnato loro cosa si prova a stare dalla parte sbagliata del potere. “Tu sai cosa si prova a essere uno straniero”, si legge nella parashà di questa settimana (Esodo 23:9). Gli ebrei erano il popolo a cui era stato ordinato di non dimenticare mai il sapore amaro della schiavitù, affinché non dessero per scontata la libertà. Chi lo fa, alla fine la perde.

Da nessuna parte questo è più chiaro che nell’apertura della parashà di oggi. Abbiamo letto dell’esperienza storica della schiavitù degli Israeliti. Quindi la legislazione sociale di Mishpatim inizia con la schiavitù. Ciò che è affascinante non è solo ciò che dice, ma anche ciò che non dice.

Non dice: abolire la schiavitù. Sicuramente avrebbe dovuto farlo. Non è forse questo il senso della storia fino ad ora? I fratelli di Giuseppe lo vendono come schiavo. Lui, come viceré egiziano Tzofenat Paneach, li minaccia di schiavitù. Generazioni dopo, quando sorge un faraone che “non conosceva Giuseppe”, l’intero popolo israelita diventa schiavo dell’Egitto. La schiavitù, come la vendetta, è un circolo vizioso che non ha una fine naturale. Perché, allora, non dargli una fine soprannaturale? Perché Dio non disse: “Non ci sarà più schiavitù”?

La Torà ci ha già dato una risposta implicita. Il cambiamento è possibile nella natura umana, ma richiede tempo: tempo su vasta scala, secoli, persino millenni. Non c’è dubbio che, in termini di sistema di valori della Torà, l’esercizio del potere da parte di una persona su un’altra, senza il suo consenso, è un attacco fondamentale alla dignità umana. Questo non vale solo per il rapporto tra padrone e schiavo. Secondo molti commentatori classici ebrei, questo vale anche per il rapporto tra re e sudditi, governanti e governati. Secondo i Saggi è vero persino per il rapporto tra Dio e gli esseri umani.

Il Talmud dice che se Dio avesse davvero costretto il popolo ebraico ad accettare la Torà “sospendendo la montagna sulle loro teste” (Shabbat 88a), ciò avrebbe costituito un’obiezione ai termini stessi dell’alleanza. Siamo avadim, servi di Dio, solo perché i nostri antenati hanno scelto liberamente di esserlo (si veda Giosuè 24, dove Giosuè offre al popolo la libertà, se lo desidera, di abbandonare l’alleanza in quel momento).

Quindi la schiavitù deve essere abolita, ma un principio fondamentale del rapporto di Dio con noi è che egli non ci costringe a cambiare più velocemente di quanto sia possibile per nostra libera scelta. Quindi Mishpatim non abolisce la schiavitù, ma mette in moto una serie di leggi fondamentali che porteranno le persone, anche se con il loro ritmo, ad abolirla di propria volontà.
Ecco le leggi: “Se compri un servo ebreo, egli deve servirti per sei anni. Ma il settimo anno lo lascerai libero, senza pagare nulla… Ma se il servo dichiara: “Amo il mio padrone, mia moglie e i miei figli e non voglio essere libero”, il suo padrone deve condurlo davanti ai giudici. Lo avvicinerà alla porta attaccata allo stipite e gli forerà l’orecchio con un punteruolo. Allora sarà suo servo per tutta la vita. (Esodo 21:2-6)

Cosa si sta cercando di fare con queste leggi? Innanzitutto, si sta verificando un cambiamento fondamentale nella natura della schiavitù. Non è più uno status permanente; è una condizione temporanea. Uno schiavo ebreo diventa libero dopo sette anni. Lui o lei lo sanno. La libertà attende lo schiavo non per capriccio del padrone, ma per comando divino. Quando sai che entro un tempo stabilito sarai libero, potresti essere uno schiavo nel corpo, ma nella tua mente sei un essere umano libero che ha perso temporaneamente la sua libertà. Questo di per sé è rivoluzionario.

Questo da solo, però, non era abbastanza. Sei anni sono un lungo periodo. Da qui l’istituzione dello Shabbat, ordinato in modo che un giorno su sette uno schiavo potesse respirare aria libera: nessuno poteva ordinargli di lavorare: “Sei giorni faticherai e farai tutto il tuo lavoro, ma il settimo giorno è un sabato per il Signore tuo Dio. In esso non farai alcun lavoro, né tu… né il tuo schiavi o la tua schiava… affinché i tuoi servi e le tue serve possano riposare, come fai tu. Ricordati che foste schiavi in ​​Egitto e che il Signore tuo Dio ti fece uscire di là con mano potente e braccio teso. Per questo il Signore tuo Dio ti ha comandato di osservare il giorno del sabato”. (Deuteronomio 5:12-14)

Ma la Torà è perfettamente consapevole che non tutti gli schiavi vogliono la libertà. Anche questo emerge dalla storia israelita. Più di una volta nel deserto gli israeliti volevano tornare in Egitto. Dissero: “Ci ricordiamo il pesce che mangiavamo in Egitto senza alcun costo, anche i cetrioli, i meloni, i porri, le cipolle e l’aglio” (Numeri 11:5).

Come sottolinea Rashi, la frase “senza alcun costo” [chinam] non può essere inteso letteralmente. Lo pagarono con il loro lavoro e le loro vite. “Senza alcun costo” significa “libero da mitzvot”, di comandi, obblighi, doveri. La libertà ha un prezzo altissimo, vale a dire, responsabilità morale. Molte persone hanno mostrato quella che Erich Fromm chiamava “paura della libertà”. Rousseau parlava di “costringere le persone a essere libere”, una visione che ha portato nel tempo al regno del terrore dopo la Rivoluzione francese.

La Torà non costringe le persone a essere libere, ma insiste su un rituale di stigmatizzazione. Se uno schiavo rifiuta di andarsene in libertà, il suo padrone “lo avvicinerà alla porta o allo stipite e gli forerà l’orecchio con un punteruolo”.
Rashi spiega: Perché è stato scelto l’orecchio per essere forato piuttosto che tutti gli altri arti del corpo?

Perché è stato scelto di forare proprio l’orecchio, e non un altro arto del corpo? Disse Rabbi Yochanan ben Zakkai: … L’orecchio che ha ascoltato sul Monte Sinai: “Perché a Me appartengono i figli d’Israele come servi” (Vayikrà 25:55), e tuttavia questa persona è andata e si è acquisita un padrone per sé, che venga forato il suo orecchio!

Rabbi Shimon spiegò questo versetto in modo splendido: perché la porta e lo stipite si distinguono dagli altri oggetti della casa? In effetti, Dio disse: “La porta e lo stipite furono testimoni in Egitto, quando Io passai oltre l’architrave e i due stipiti, e dissi: ‘Perché a Me appartengono i figli d’Israele come servi’, essi sono Miei servi, non servi di servi. E questa persona è andata e si è acquisita un padrone per sé, che il suo orecchio venga forato davanti a loro.”

Uno schiavo può rimanere schiavo, ma non senza ricordare che questo non è ciò che Dio vuole per il Suo popolo. Il risultato di queste leggi fu di creare una dinamica che alla fine avrebbe portato all’abolizione della schiavitù, in un momento di libera scelta umana.

E così accadde. I Quaccheri, i Metodisti e gli Evangelici, tra cui il più famoso fu William Wilberforce, che guidò la campagna in Gran Bretagna per abolire la tratta degli schiavi, erano mossi da una convinzione religiosa, ispirati non da ultimo dal racconto biblico dell’Esodo e dalla sfida di Isaia: “proclamare la libertà ai prigionieri e la liberazione dalle tenebre” (Isaia 61:1).

La schiavitù fu abolita negli Stati Uniti solo dopo una guerra civile, e ci furono coloro che citarono la Bibbia a difesa della schiavitù. Come disse Abramo Lincoln nel suo secondo discorso inaugurale: “Entrambi leggono la stessa Bibbia e pregano lo stesso Dio, e ciascuno invoca il Suo aiuto contro l’altro. Può sembrare strano che degli uomini osino chiedere l’assistenza di un Dio giusto per strappare il proprio pane dal sudore del volto di altri uomini, ma non giudichiamo, affinché non siamo giudicati.”

Eppure, la schiavitù fu abolita negli Stati Uniti, non da ultimo grazie all’affermazione contenuta nella Dichiarazione d’Indipendenza secondo cui “tutti gli uomini sono creati uguali” e sono dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili, tra cui “la vita, la libertà e la ricerca della felicità.” Jefferson, che scrisse queste parole, era egli stesso proprietario di schiavi. Eppure, tale è il potere latente degli ideali che, col tempo, le persone comprendono che, insistendo sul proprio diritto alla libertà e alla dignità mentre lo negano ad altri, vivono in contraddizione. È allora che avviene il cambiamento, e ciò richiede tempo.

Se la storia ci insegna qualcosa, è che Dio ha pazienza, anche se spesso è messa a dura prova. Egli voleva che la schiavitù fosse abolita, ma voleva che fosse opera di esseri umani liberi, giunti da soli a riconoscere il male che essa è e il male che provoca. Il Dio della storia, che ci ha insegnato a studiare la storia, aveva fiducia che, alla fine, avremmo imparato la lezione della storia: che la libertà è indivisibile. Dobbiamo concedere la libertà agli altri se vogliamo davvero ottenerla per noi stessi.

Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl