di Aldo Baquis
Sullo sfondo c’era un clima di distensione, l’abbraccio di fine dicembre al Cairo fra il presidente dell’Anp Abu Mazen (Al-Fatah) ed il leader politico di Hamas, Khaled Meshal, il suggello della ritrovata conciliazione nazionale fra i due principali movimenti politici dei palestinesi. Ma quando, all’inizio di gennaio, una delegazione ad alto livello di Al-Fatah proveniente dalla Cisgiordania si è presentata al valico di Erez per entrare nella Striscia di Gaza -dove discutere alcuni aspetti della riconciliazione-, gli animi si sono scaldati. I funzionari di Hamas al valico hanno detto che i dirigenti di Al-Fatah si sono comportati con alterigia. Mentre questi ultimi si sono sentiti insultati. Le due parti si sono infine espresse senza peli sulla lingua: fino a quando il dirigente di Al-Fatah, Sakher Bseiso, ha pronunciato due parole che suonavano, forse, come una imprecazione “contro Dio”.
I solerti funzionari di Hamas hanno allora avvertito il Ministero degli Interni e della Sicurezza Nazionale di Gaza il quale, ipso facto, ha informato Bseiso che se entrava nella Striscia sarebbe stato subito sottoposto ad inchiesta per blasfemia. La delegazione di Al-Fatah ha rinunciato allora alla visita, ed è rientrata nella più liberale e tollerante Ramallah. Ad oltre quattro anni dal putsch militare con cui Hamas si aggiudicò il controllo totale della Striscia -da cui espulse tutti i funzionari civili e militari leali ad Abu Mazen-, Gaza sta assumendo gradualmente i tratti di una repubblica islamica, dove perfino i palestinesi della Cisgiordania si sentono disorientati. È vero: Hamas ha proceduto con cautela, e si è astenuto dall’imporre dall’alto la Sharia, la legge islamica. Ha preferito agire in maniera graduale, alternando i manganelli dei suoi agenti della sicurezza pubblica con le pressioni sociali.
Ma il risultato è che in questo lasso di tempo Gaza ha cambiato radicalmente volto. Un laboratorio di islamismo pratico cui adesso si guarda con interesse in diversi Paesi arabi -Tunisia, Libia, Egitto e altri ancora-, mentre movimenti apparentati ai Fratelli Musulmani, come Hamas, si accingono ad assumere responsabilità di governo, dopo aver estromesso le leadership più o meno laiche.
Il primo elemento che risulta evidente è un senso di ordine nelle strade. In anni passati, i clan familiari di Gaza non esitavano ad ingaggiare battaglie per le strade. Il senso di sicurezza personale degli abitanti era minacciato di continuo. Così Hamas ha usato il pugno di ferro e il fenomeno è stato sradicato. Sul piano personale, gli abitanti della Striscia si sentono più protetti. Ma non così sul piano collettivo perché con la sua politica di confronto permanente con Israele (mediante il lancio di razzi sul Neghev), Hamas ha trascinato Gaza a testa bassa verso l’Operazione Piombo Fuso (2008-2009), in cui 1.400 palestinesi rimasero uccisi e molti altri ancora persero la casa. La questione della ricostruzione resta ancora oggi drammatica. Negli ultimi mesi a Gaza sono stati aperti numerosi cantieri: ma le nuove abitazioni sono destinate a funzionari di Hamas. Chi non fa parte di quella cerchia, resta a guardare.
Gli aiuti finanziari giunti da Paesi radicali sono stati utilizzati da Hamas per rafforzare il proprio braccio armato, le Brigate Ezzedin al-Qassam, forte di oltre 20 mila miliziani e dotati di razzi capaci di colpire la periferia di Tel Aviv. Sul piano militare Gaza, sotto Hamas, è divenuta una minaccia considerevole per le retrovie di Israele.
Chiusi gli uffici di Al Fatah
Ma l’economia è disastrata. Il tasso di disoccupazione è di oltre il 40 per cento, due terzi della popolazione vive sotto il livello di povertà. La libertà di informazione è quella di un regime totalitario: nelle edicole della Striscia si trovano solo giornali di Hamas (a-Risala e Falastin), mentre è vietata la divulgazione di giornali dell’Autorità Nazionale Palestinese stampati a Ramallah. Cinema non esistono proprio, teatri nemmeno. L’unico “svago” viene dalle moschee.
Gli uffici di Al-Fatah sono chiusi. Vietate anche, a Gaza, le manifestazioni annuali in ricordo di Yasser Arafat. I dirigenti di Al-Fatah che non sono fuggiti in Cisgiordania, vivono in un clima di intimidazione. All’inizio di gennaio -ultimo episodio di una lunga serie-, un esponente di Al-Fatah, Ahmed Nasser, ha denunciato che ignoti hanno appiccato il fuoco alla casa che stava costruendo nella zona di al-Zahra.
Tempi duri anche per la comunità cristiana di Gaza, che si sta assottigliando di continuo. Ormai restano circa 1.400 anime (su oltre un milione e mezzo di abitanti), esposte non tanto a persecuzioni attive ma ad un clima di intimidazione strisciante e continua, basata anche su richieste pressanti di conversioni. Andare in giro con una croce al collo, a Gaza, richiede coraggio personale. Le ragazze cristiane che frequentano le università sono ormai costrette a vestirsi come le loro compagne musulmane, se non vogliono essere infastidite dai compagni o dai solerti agenti preposti alla difesa della morale pubblica. Su questo tasto -come ha appreso Sakher Bseiso-, Hamas non transige. Quanti sfidano la concezione di moralità messa a punto dai dirigenti religiosi di Hamas possono essere trascinati in un commiassariato di polizia, e percossi duramente. Il sistema giudiziario dipende strettamente da quello politico. Le condanne a morte, in questi anni, sono state una trentina circa: di cui la metà sono state eseguite da plotoni di esecuzione.
Intanto il livello di educazione è calato. In tutti i livelli scolastici, dalle classi inferiori fino all’università, Hamas ha imposto un netto incremento degli studi religiosi, a scapito di quelli di carattere generale. I risultati si avvertono già adesso negli esami di maturità, dove sta crescendo la percentuale degli allievi che falliscono.
“Il futuro è nostro”
Cosa promette il futuro, agli abitanti di Gaza ? La risposta è giunta all’inizio di gennaio da uno dei dirigenti di Hamas, Mahmud a-Zahar. “Il futuro è nostro’’, ha detto. “Se Abu Mazen crede di riconciliarsi con noi, saremo lieti. Ma ciò non può avvenire sulla base degli interessi regionali di Israele e degli Stati Uniti. Nel mondo arabo i movimenti islamici stanno sollevando la testa, e verranno in aiuto di Hamas per liberare la Palestina’’.
Negli stessi giorni il leader dell’esecutivo di Hamas, Ismail Haniyeh (che nel 2007, con a-Zahar, era alla testa dei putschisti anti-Abu Mazen), ha svolto un tour trionfale in alcuni Paesi, fra cui Egitto (dove ha incontrato i dirigenti dei Fratelli Musulmani), Tunisia e Turchia. È stato accolto come il primo ministro dei palestinesi, con grande collera di Abu Mazen e del premier dell’Anp, Salam Fayad. Haniyeh è tornato a Gaza compiaciuto, e ora progetta altri viaggi in Sudan, Qatar ed Iran.
Eppure, a Gaza gli oppositori di Hamas sono ancora molti. Ma sono intimiditi, impauriti, repressi, zittiti se non imbavagliati. Da tempo hanno compreso che nessuna “Primavera araba” verrà in loro aiuto, e che ormai sono chiusi in una trappola.